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Foglio di carta alla mano, matita sulla sinistra, feci passare la lista dell'occorrente da mettere nel baule, segnando una piccola stellina di fianco al materiale che ero sicura di aver già preparato. Cogliendo la palla al balzo, decisi che sarebbe stato utile dare un occhio anche al baule di Daisy, mia sorella, che, nonostante fosse stato preparato con accuratezza dalla proprietaria già più di una mezz'ora prima, risultava comunque notevolmente più leggero del mio e non riuscivo a capire perché.

«Sei sicura di aver preso il mortaio e la bilancia? Mi sembra di averli visti giù da basso ieri sera»

«Sì, Maeve, li ho presi stamattina. Hai finito adesso? Si sta facendo tardi».

Daisy alzò il braccio sinistro, lanciando uno sguardo verso l'orologio che portava al polso. Le aveva visto fare quel gesto almeno dieci volte da quando avevamo iniziato a preparare le valigie, e un centinaio di volte nei tre giorni precedenti. Con un gesto involontario, mi ritrovai ad accarezzare l'orologio che anch'io portavo al polso sinistro, il gemello di quello che aveva lei. La mancanza della persona che ci aveva regalato quegli splendidi orologi faceva ancora troppo male per poterla esprimere a parole, per cui ci limitammo a guardarci un secondo negli occhi e ritornare alle proprie faccende.

«Ragazze, è ora di andare!». La voce di nostro padre dal piano terra ci trapanò le orecchie, e io e Daisy ci alzammo in contemporanea dal letto, per poi guardarci di nuovo. Se qualcuno non avesse saputo i nostri nomi e cognomi, avrebbe dubitato che fossimo sorelle. Di sicuro, avrebbe dubitato del fatto che io fossi più grande di Daisy di due anni, visto che mi aveva raggiunta in altezza già qualche anno prima. In più, guardare Daisy era come vedere il riflesso di nostra madre da giovane, tutto un sorrisi candidi, zigomi sfuggenti e capelli biondi come il sole, mentre io ero la copia sputata di mio padre, bruno di capelli ma con dei limpidi occhi cristallini.

Chiusi in fretta il baule, cacciando dentro anche la lista non ancora controllata a dovere, poteva sempre essere utile, e cominciai a trascinarlo a fatica fuori dalla stanza che io e Daisy condividevamo a Londra. Un appartamento che in realtà utilizzavamo pochi giorni all'anno, quando dovevamo andare a Londra per urgenze o per visite, e che non poteva definirsi "casa".

«Il treno parte tra mezz'ora» ci ricordò nostra madre non appena arrivammo al piano terra, lasciando un bacio sulla guancia prima a mia sorella e poi a me. «Sono fiera di te» mi sussurrò, raddrizzandomi al petto una spilla rossa e oro con la scritta "Caposcuola" in rilievo. Sorrisi fiera, dirigendomi poi verso il padre, che ci aspettava all'uscita di casa, preoccupandosi di tenere la porta aperta per permetterci di uscire agevolmente. Dietro di me, Daisy alzò gli occhi al cielo.

«Daisy, fai la brava, e ascolta tua sorella!» la riprese nostra madre, prima che la porta fu definitivamente chiusa dietro le nostre spalle. Riuscii a captare solo un borbottio indistinto da parte di mia sorella, ma decisi che non era il momento adatto per preoccuparsene.

Davanti a  noi, sul ciglio della strada, si trovava l'automobile che il Ministero della Magia dava ai suoi dipendenti per quelle occasioni in cui ci si deve mescolare con i Babbani, come per esempio arrivare a King's Cross Station in tempo per l'Espresso per Hogwarts. L'auto era già carica tra pentoloni, libri, una grande gabbia contenente un barbagianni che si stava arruffando le penne e una più piccola per un gatto nero profondamente addormentato.

«Sky!» esclamò Daisy, infilando senza alcun timore la mano tra le barre della gabbia del barbagianni, che tubò contento e le diede un lieve morso sul dito. Sorrisi sollevata, Sky non si vedeva da qualche giorno ormai, ed entrambe avevamo iniziato a temere il peggio. Non sapevo come Daisy avrebbe reagito alla scomparsa del suo barbagianni, visto quanto ci era legata.

«E' tornato con una lettera» spiegò nostro padre, tirando fuori dalla tasca interna della giacca una piccola lettera chiusa da un sigillo di ceralacca rosso. «Chi è Dean Thomas?» chiese malizioso, guardando con un sopracciglio alzato sua figlia minore.

«Nessuno!» esclamò lei, agguantando la lettera con un movimento fulmineo, «e non sono affari tuoi!».

Dovetti trattenermi molto per non ridere. Per ogni lettera a cui nostro padre riusciva a mettere le mani sopra prima di Daisy, avveniva la stessa scenetta: lui faceva il finto geloso quando si scopriva che l'emittente era un ragazzo, e lei sbraitava dichiarando che in quella casa non esisteva la privacy. Ancora non aveva capito che il solo modo per essere lasciata in pace era non farsi scoprire.

Ci districammo nelle vie di Londra, tra semafori, taxi e ciclisti che non sanno stare vicino al marciapiede. Il cielo era limpido, un pallido sole illuminava la giornata. Impiegammo venti minuti per raggiungere King's Cross, e una volta dentro recuperammo due carrelli per poter trasportare tutte le loro cose, animali compresi. Ci avvicinammo alla barriera tra i binari nove e dieci, chiacchierando tra di noi con aria disinvolta. Dopo pochi secondi, ciascuno di noi vi si era appoggiato ed era passato tranquillamente sul binario nove e tre quarti, dove l'Espresso per Hogwarts eruttava vapore fuligginoso lungo un marciapiede affollato di studenti in partenza e delle loro famiglie.

«Ragazze» ci richiamò nostro padre, allargando le braccia, «venite a salutarmi».

Mi avvicinai immediatamente, desiderosa di affetto. Sarebbe stato un anno particolarmente difficile, a causa della mia nuova promozione a Caposcuola e di tutte le responsabilità che avrebbero gravato sullo studio e sul Quidditch. Avevo bisogno di sentire la vicinanza dei miei genitori, e il loro supporto. Daisy, d'altro canto, non desiderava altro che dileguarsi dall'abbraccio paterno e andarsene in cerca dei suoi amici di Grifondoro, lontano da me, la "prefetta-perfetta". Come potevasi immaginare, quell'anno Daisy non era diventata un Prefetto, e lei ne era grata. Avrebbe avuto più tempo da dedicare all'uscire coi suoi amici, attività che la gratificava molto di più dello studio. D'altro canto, Hermione e Ron lo erano diventati, e non vedeva l'ora di prenderli un po' in giro.

«Scrivete!» si raccomandò nostro padre, «fate le brave, se avete dimenticato qualcosa ve la spediremo!».

Daisy si allontanò non appena ne ebbe la possibilità, con la scusa di aver visto un volto noto che doveva assolutamente andare a salutare. La guardai spingere il carrello fino a che non fu inghiottita dalla folla. Probabilmente non l'avrei più vista fino al banchetto di quella sera.

«Tienila d'occhio», mi girai verso mio padre, che pareva avesse dipinta in volto un'espressione preoccupata. «Quest'anno ha i G.U.F.O, io e vostra madre vorremmo vedere un po' di impegno da parte sua». Sbuffai, incapace di guardare mio padre negli occhi. Ogni volta che uno dei miei genitori si rivolgeva a me, era o per lamentarsi di Daisy, o per pregarmi di tenerla d'occhio e di darle una mano nello studio. Io non ero più loro figlia, ero praticamente diventata la babysitter di mia sorella. E non ce la facevo più. Anche io avrei avuto degli esami quell'anno. Anzi, gli esami più importanti della mia vita. Ma qualcuno ha mai chiesto a me come mi sentissi? Se mi sentissi agitata? Se sapessi che strada scegliere una volta finita la scuola? No. Praticamente io non esistevo più.

«Devo andare, Daidì» risposi, chiamandolo come facevo sempre quando ero bambina, ma rifiutandomi di rispondere alle sue richieste. «Vedrai, andrà tutto bene».

Feci giusto in tempo a trascinare sul treno tutti i miei bagagli, che le porte si chiusero e cominciò a muoversi. Le sagome dei parenti e dei genitori rimasti sulla banchina iniziarono a svanire e rimpicciolire in fretta, e mi resi conto che, per la prima volta da quando avevo memoria, ero in ritardo all'appuntamento che mi ero data con i miei amici nel nostro scompartimento preferito. Che grande caduta di stile.

Headgirl - Fred Weasley ffDove le storie prendono vita. Scoprilo ora