2.Una tazza di tè

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Stasera Kyle è fuori casa, è una delle serate del bowling con i suoi cari amici. Io giro e rigiro il cucchiaio all'interno del risotto giallo, poi lo allungo verso Annabeth che spalanca la bocca pronta per il prossimo boccone. Sorrido spensierata, per poi passare il tovagliolo di carta sulle sue labbrucce sporche. 

Per lei deve essere tutto più facile. Si sveglia al mattino con l'intento di arrivare alla fine sollevata di essersi divertita, di aver pianto di dolore, fame o sonno il meno possibile, di aver rotto almeno una parte del mobilio di mamma. Di aver usato i suoi giochi prescelti e di aver paciugato il più possibile con le pappe di mezzogiorno che cerco di farle ingoiare come pranzo.

Lei non sa nulla, penso sospirando. E mentre risciacquo nel lavandino i piatti sporchi mi scivola pure una piccolissima lacrima dall'occhio destro, ma la caccio via con la manica della felpa raggomitolata al gomito. Non dovrei stare male, dovrei stare bene. Prima ero felice, felice di quel che avevo costruito con forza e con qualcuno che mi ama al mio fianco. Ma il ritorno di Harry mi ha fatto riflettere, ed ho capito che aveva ragione lui e che rifarsi una vita sulle fondamenta di una bugia è quanto di più sbagliato potessi fare.

Sfilo con delicatezza Annabeth dal seggiolone e le stampo due baci sulle guance piene, mentre lei sbadiglia stanca. Non esito di certo ad infilarla nel suo lettino, così potrò avere la serata in religioso silenzio tutta per me.

E invece no. E invece ho ancora intenzione di renderla perfino peggiore di qualche stillo di una bambina e il doversi alzare costantemente, perdendo scene di una film, per dover andare a cullarla.

Ci rifletto molto però, prima. Mi mordo le labbra e mi mangio le pellicine delle dita, ma alla fine compongo il numero di Harry al cellulare e attendo che risponda. Mi ero detta che lo avrei cancellato definitivamente, ma sapevo che lo avrei tenuto perché senza la certezza di poterlo rivedere, io non ci volevo stare.

Ad ogni modo squilla una decina di volte, prima di sentire la sua voce roca dall'altra parte dell'apparecchio. Non dice nulla, forse perché sa chi sono, o forse è il suo nuovo e scorbutico modo di rispondere al telefono.

"Harry" dico solamente, un po' tremolante nella voce.

Non dice ancora nulla.

"Harry, ascoltami." lo prego allora, nella speranza che questa volta mi dia una risposta di senso compiuto e che possa udire.

"Lo sto facendo" sbotta. Prendo un bel respiro, scoraggiata dalla sua acidità ma comunque determinata a mettere fine a questa storia.

"Devo parlarti di davvero tante cose" confesso in un sospiro.

"E io aspetto" è quello che sa dire.

"Qui? Al telefono?"

"No, ci dovremmo vedere"

"D'accordo, facciamo domani al bar sotto il mio palazzo?"

"No Venice"

No? Che vorrebbe dire no?

"Vengo lì, ora" sputa prima di lasciarmi ad ascoltare un'interminabile tuu-tuu del vuoto totale. E' un rumore straziante, ma sto ad ascoltare per qualche istante prima di premere la cornetta rossa e restare questa volta a fissare il vuoto. Più che il vuoto, punto gli occhi sul muro bianco e un po' ingiallito del mio appartamento.

Quell'uomo è ancora la solita grandissima testa di cazzo che è sempre stato.

***

Quando bussa alla porta quasi sussulto, ma mi sono totalmente preparata ad accoglierlo nel migliore dei modi. Sul tavolo appena pulito ho una teiera piena di té caldo pronto da essere servito insieme a qualche biscotto. Mi sono pure permessa di indossare un paio di jeans e una maglia che non sia sporca della saliva e della cena di Annabeth. Un minimo di presenza ci vuole, soprattutto con Harry. Il mio inimitabile Harry.

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