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Ci mettemmo otto ore per arrivare ad Oslo, in Norvegia. Attraversammo l'oceano Atlantico durante la notte e dormii per buona parte del tempo, se non tutto. Atterrammo a Bergen alle prime luci dell'alba, sulla sponda sud-ovest della regione, per fare rifornimento e ripartimmo alla volta del Folgefonna, ad Odda. Era una località sperduta tra le montagne che si affacciava sul fiordo laterale dello Hardangerfjord.

Era quasi un villaggio che sorgeva a strati tra le conche delle valli, le case erano minuscole, con tetti spioventi e rossi. Vedere le immense distese verdi, la moltitudine di alberi e di animali selvatici, come caprioli, capre ed orsi, che si aggiravano liberi tra i boschi, mi affascinò. Fino a quel momento avevo visto quel genere di animali sono allo zoo. Era tutto nuovo, tutto diverso e bello.

L'aria era pulita, fresca. Se non ci fossero state le industrie metallurgiche e il peschereccio pieno di pesce puzzolente, era il posto più vicino al cielo che ebbi mai visto. Dall'alto vidi pochissime persone passeggiare per la cittadina, c'era una strada principale su cui si trovava di tutto, dal piccolo fast food al supermercato locale, e a parte alcune macchine Odda dormiva ancora.

Ero esausto e avevo fame. Appena l'aereo atterrò su una pista asfaltata fuori città, un'auto nera venne a prelevarci e un altro Demone si fece vivo. Portava dei comuni vestiti da lavoro su cui c'erano delle macchie d'olio e aveva una targhetta con scritto "Karl". Sarebbe passato senza problemi come un umano se non fossero stati per gli occhiali da sole neri che nascondevano bulbi oculari vuoti.

In macchina, Azrael mi spiegò alcune cose sui Demoni, su fatto che avrei dovuto fare dei test per capire quanto fossi umano, se necessitassi di cure particolari o avessi delle allergie. Sotto quel punto di vista, glielo dissi, ero sano come un pesce. Capii che si riferisse ad altro e che fosse preoccupato: avevo vissuto per sedici anni in una metropoli piena di persone, avevo hobby e pensieri troppo comuni. I Demoni bevevano sangue per cibarsi e io, per mia fortuna, potevo farne a meno.

Mi assicurò che l'iperattività fosse comune nella loro razza, che i miei riflessi erano adatti agli scontri e la mia indole fosse continuamente all'erta. Ebbe una spiegazione persino per la dislessia: il mio cervello era sintonizzato sul canale sbagliato. Scrisse dei caratteri su un fogliettino di carta, metà cirillici e al rovescio, e riuscii a decifrarli senza alcun problema.

«Dovrai imparare a scriverli» disse.

«Devo proprio? Mi sento uno stupido.»

«È una scrittura un po' complicata. Tua madre si rifiuta di impararla, ecco perché non capisce niente quando le parlano nell'antica lingua.»

Mugugnai. «Capisco i test, ma ho lasciato la scuola per non dover imparare cose stupide e poi so già scrivere. Perché lei può farlo e io no?»

«Perché lei è una testarda. Tu, al contrario, sei anche figlio mio e non lascerò che i principi pensino di essere migliori di te. E poi mi piace dare ordini. Lo farai.» Accartocciò il foglio. Fu la sua miglior risposta secca sul fatto che dovessi stare zitto. «È una lingua molto tonale, si parla più di scriverla. Se la comprendi significa che sei portato a tramandarla. Quella angelica è impossibile da comporre, sono tutti ghirigori e puntini.»

«In letteratura avevo una media sufficiente» dissi e guardai fuori dal finestrino.

Stavamo percorrendo una stretta strada di montagna. C'erano molte buche e sentieri poco battuti, segno che ci stavamo addentrando nella vera natura norvegese.

«Io non voglio una media sufficiente» replicò serio. «Per quanto mi secchi ammetterlo, e sono il primo che ti direbbe di fare quello che vuoi, finché le acque non saranno di nuovo calme è meglio che tu faccia come ti viene imposto, As.»

La leggenda di Kiral - Il cupido di sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora