2. Andrew: quasi mi dispiace

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Scattai a sinistra, schivai un mio compagno di squadra, in quel momento un avversario, che non riuscii ad identificare

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Scattai a sinistra, schivai un mio compagno di squadra, in quel momento un avversario, che non riuscii ad identificare. Tutti quei movimenti erano così naturali per me. Come se fossi nato per giocare a basket. Mason, il mio migliore amico, tentò di bloccare la mia avanzata verso il canestro, ma fallí. Era alto un metro e ottantacinque, considerevole, ma io lo superavo di oltre dieci centimetri e lo schivai tranquillamente. Ci misi un secondo a prendere la mira e tirare. Mi sembrò di vedere la scena a rallentatore. Mason che ricadeva a terra dopo il suo salto, Jason, un altro dei miei più cari amici, che tratteneva il fiato, tutto il resto della squadra in attesa...

La palla entrò con colpo netto. Mi sciolsi in un sorriso e mi leccai le labbra, sfinito. Il coach fischiò, la partita era conclusa. La fatica no, però. Ci fece correre all'infinito, successivamente ci affibbiò flessioni, addominali e tanti altri esercizi. Solo un'ora e mezza dopo ci diede il permesso di andare. Mi feci una doccia veloce prima di uscire dallo spogliatoio. Nel parcheggio, April mi stava già aspettando. Era appoggiata sul cofano della mia auto, giochicchiava con i suoi capelli per ingannare l'attesa. Gli occhi le brillarono quando mi vide.

Quasi mi dispiace per lei, dissi a me stesso.

E perché? Rispose innocentemente una voce dentro di me.

Perché pensa ancora di potermi cambiare. Perché non ha idea di chi sono.

Il fatto è che non lo sai nemmeno tu.

Come dar torto a me stesso?

Mentre guidavo, April ridacchiava e parlava a vanvera, nel tentativo di interessarmi. Io annuivo distrattamente, senza ascoltare una sola parola. Per non darle false speranze, tirai fuori dalla tasca dei pantaloni una bustina. Un preservativo. Le lanciai uno sguardo fugace e vidi la delusione dipingerle il volto. Mi impegnai ad ignorare ciò che avevo notato. Raggiungemmo casa mia in pochi minuti; April rimase incantata nel vedere l'enorme villa in cui abitavo, era la prima volta che glielo permettevo. Era così che chiudevo le mie effimere storie: dopo una settimana, due, massimo un mese, appena mi stancavo della ragazza insomma, della frequentazione con l'unico scopo di divertirsi, ospitavo la malcapitata a casa mia per l'ultima volta insieme. Dopodiché, addio. Avanti la prossima!

Andavo avanti così da sempre, ad usare le ragazze. A starci insieme per non rimanere da solo. Non conoscevo nemmeno io, né conosco tuttora, l'origine di tutto questo, il motivo per cui è cominciato.

Quando finimmo, quando April era già vestita nuovamente ed era seduta in cucina, le dissi con toni calmi e pacati: «Non possiamo più vederci».

April levò i suoi occhi color miele su di me. Quando parlò, il suo tono era supplicante. «E perché?»

«Perché no» tagliai corto.

«M-ma... credevo...» April deglutì. «Stava andando tutto bene...»

Dille la verità. Non proteggerla. Dille la verità.

«Perché non me ne frega un cazzo di te» sputai fuori con cattiveria. «Ti ho usata e basta. Ora vattene, e non tornare».

April tenne la testa alta mentre usciva, ma vidi una lacrima scivolarle sulla guancia. Mi sentivo crudele ma, d'altra parte, non potevo mentire a me stesso. Quello era ciò che ero, punto.

***

I miei genitori rientrarono tardi, quella sera. Molto più del solito. Alle dieci.

«Eccoci, tesoro!» esclamò mia madre entrando nella stanza.

Aveva profonde occhiaie, ma era ancora bella per la sua età. Aveva i capelli castani, come i miei, con qualche ciocca grigia, e gli occhi castani. Io gli occhi, verdi, li avevo presi da mio padre.

Mio padre sbucò in cucina mentre mia madre mi dava un bacio sulla testa, osservando orgogliosa i compiti che si presumeva stessi svolgendo.

«Non hai organizzato nessuna festa?» domandò scherzoso papà.

«Figurati! Noi abbiamo un figlio diligente...» sorrise la mamma.

Come se non avessi voluto... come se non mi fossi trattenuto a stento...

Tuttavia non lo dissi, e mi rifugiai in camera "a fare i compiti". In pratica, giocare ai videogiochi con il libro aperto in un angolo della scrivania. Tanto me lo potevo permettere; i bei voti non avrebbero certo aiutato la mia reputazione, e non sarei mai stato punito in alcun modo. Io servivo in quanto capitano ed elemento più forte della squadra di basket della scuola, per battere gli acerrimi nemici della Noem High School: la Uhiol High School. Senza di me non li avrebbero mai battuti. Io gli servivo, e perciò ero intoccabile.

I miei genitori sapevano bene che non ero del tutto un santo, ma chiudevano un occhio ad ogni guaio che commettevo. Lavoravano molto, erano i proprietari di una ricca azienda, e il tempo che trovano per la famiglia non era mai molto. Credo volessero farsi perdonare così, giustificandomi. Forse non è giusto, ma hanno sempre cercato di essere dei buoni genitori e io voglio loro bene.

Chissà come reagirebbero se venissero a conoscenza di tutto ciò che faccio, commentai tra me e me.

Ti rinchiuderebbero da qualche parte, probabilmente, rispose con arroganza la parte razionale di me.

E io non potei che darle ragione.

Angolo autrice

Ecco qua, il secondo capitolo! Siamo ancora all'inizio, ma la storia comincia a prendere forma. Dopo un capitolo triste, all'insegna di violenze e brutte compagnie, in cui abbiamo conosciuto Liam, ora finalmente è stato introdotto il secondo protagonista, Andrew. La sua vita è meno disastrosa, o meglio lui ce la presenta così. Per scoprire tutta la verità, bisognerà attendere i prossimi capitoli.

Chissà cosa accadrà nella vita di Liam, nella prossima parte? Qualcosa di bello, o l'ennesima sfortuna? (Povero Liam, davvero).

Se aveste voglia di supportarmi con commenti o stelline, mi fareste molto piacere. Ci vediamo al prossimo capitolo ☺️

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