7. Liam: sei un debole

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Come interpretare ciò che era successo? Per un momento, Andrew si era mostrato per ciò che era davvero: un ragazzo che in fondo aveva un'anima, e anche gentile

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Come interpretare ciò che era successo? Per un momento, Andrew si era mostrato per ciò che era davvero: un ragazzo che in fondo aveva un'anima, e anche gentile. Chissà perché non voleva mostrarlo. E poi? Perché si era ritratto così bruscamente? Perché aveva reagito così per un semplice contatto? Per un momento, avevo creduto che qualcuno si fosse preoccupato per me. Sarebbe stata la prima volta. Avevo pensato: sì, sarò felice. Sì, avrò un amico.

Le cose non erano andate così, però. Andrew era scappato via e non mi aveva più rivolto la parola dalla settimana precedente.

Ovviamente, appena arrivato a casa ero stato punito dai miei genitori.

«Sei un debole» avevano ringhiato.

Sei un debole! Aveva urlato Billy con loro.

Sono un debole, avevo ripetuto io, è per questo che nessuno mi vuole. È per questo che Andrew se n'è andato.

Non mi era mai importato molto degli altri. Da piccolo sì, soffrivo molto quando Billy non mi permetteva di giocare con gli altri bambini, quando questi mi deridevano. Tuttavia, crescendo, avevo imparato a farmene una ragione. Billy era più forte di me. Sarebbe sempre stata più forte di me. Non avevo possibilità di cambiare le cose, di contrastarla. Ero destinato a rimanere solo, magari a morire di fame o, se mi fosse andata bene, a lavorare Dio solo sa quante ore al giorno per uno stipendio che sarebbe a malapena bastato per i viveri. Non ero nulla, ed ero destinato a non avere nulla. A rimanere una nullità per tutta la vita, un elemento di scarto, in più. Il Fato aveva deciso che sarei sempre stato il personaggio di contorno nelle storie di persone più importanti, con l'unica funzione di far vedere quanto uno sfigato può essere tale. Ma io chi ero? Chi era realmente Liam Anderson? E, soprattutto... chi volevo diventare? Non che avesse molto importanza... io non avrei mai potuto scegliere.

Una settimana dopo ciò che era accaduto, Andrew si ostinava a fingere fosse tutto come prima. Non mi rivolgeva la parola né alcuno sguardo, se non per deridermi, a ginnastica mi insultò così pesantemente che a metà lezione dovetti correre in bagno a rigettare la - per fortuna non abbondante - colazione di quella mattina. Qualche ora dopo, camminavo nel corridoio a testa basta, ripetendo a mezza voce le nozioni che avevo studiato perfettamente il giorno prima. Avevo una verifica di storia, per fortuna scritta, così avrei potuto rispondere. Se si trattava di scrivere e non di parlare, Billy se ne stava zitta e mi lasciava fare. Non diceva che non ero capace o che avevo sbagliato questa o quella risposta, no; se ne stava buona e ricominciava a tormentarmi solo quando la verifica era conclusa. Insomma, procedevo senza prestare attenzione, cercando di non farmi notare e di non incrociare lo sguardo di nessuno, quando andai a sbattere contro qualcuno.

Capitano tutte a me, insomma!

Billy fece per dire qualcosa, ma io la precedetti: Sì, sì, lo so, è quello che merito eccetera... Come ti pare!

In seguito presi un profondo respiro e alzai lo sguardo. Nell'incontrare i verdi occhi di Andrew, però, lo riabbassai immediatamente. Non sapevo se essere felice o meno di quell'incontro, tuttavia Andrew prese la decisione per me.

«Sta' attento a dove vai, sfigato» pronunciò quest'ultima parola con particolare cattiveria, come nel tentativo di ferirmi. Sembrò un predatore che morde la sua preda per immobilizzarla e riuscire finalmente a godersi il suo pasto.

«I-io...»

Non sapevo esattamente che cosa dire, ma in ogni caso Billy non me lo permise.

Shhhh, disse solo. Non aggiunse altro, ma io non fui in grado di pronunciare neanche una parola.

«Che c'è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» continuò crudele Andrew.

Sembrava così diverso dalla settimana prima... Che cos'era successo, davvero, in infermeria? Qualcosa mi era sfuggito, non c'era altra spiegazione. Andrew se ne andò, dandomi una violenta spallata. E io che mi ero illuso... nessuno si sarebbe mai preoccupato per me. Nessuno.

Tranne me, caro, mi corresse Billy.

Tu mi fai solo male...

No, io faccio ciò che è meglio per te.

Perché riusciva sempre a convincermi? Sembrava così rassicurante... e poi, grazie a lei non ero mai davvero solo. Forse... forse dovevo essere grato a Billy.

Proprio così, approvò lei.

Non riuscii a smettere di pensare allo scontro nel corridoio ad Andrew, a quanto sembrava cambiato in una sola settimana. Il giorno dopo, quindi, durante la pausa pranzo, non andai in mensa. Andrew e i suoi amici solevano passare quell'ora di pausa fuori, nel campo di basket a volte utilizzato per gli allenamenti. Li osservai giocare, tentando di non farmi notare e fingendo di ascoltare musica mentre facevo i compiti, anche se la mia attenzione era incentrata su Andrew. Mi distrassi solo per un momento, ma bastò: mi arrivò una palla da basket in faccia. Il mio naso cominciò immediatamente a sanguinare. Sentivo delle risate, ma non credevo fossero rivolte a me... lo capii solo quando rivolsi lo sguardo al campo da basket. Tutta la squadra mi stava fissando, e rideva di gusto. Avrei preferito essere in qualunque altro posto. Avrei voluto poter essere risucchiato dal terreno e scomparire nel centro della Terra. Eppure, le cose stavano per peggiorare ulteriormente.

Fu proprio Andrew ad andare a recuperare la palla e, mentre tornava dai suoi amici, mi guardò.

«È quello che ti meriti» ridacchiò crudelmente.

È quello che ti meriti, concordò Billy.

«È quello che mi merito» mormorai io asciugandomi una lacrima che mi era scivolata sulla guancia.

Era ciò che meritavo, e non solo: anche tutto ciò che avrei avuto dalla vita. Dolore. Sofferenza. Ero destinato a quello, punto. 

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