Capitolo 12

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Maggio

Le giornate proseguirono come sempre, tra la scrittura e la routine saltuaria tipica del giornalista freelance. Il mio umore andava di pari passo col tempo: nelle giornate di sole ero felice e speranzoso, in quelle di pioggia, triste e avvilito. Queste ultime erano piuttosto frequenti.

In quei momenti ero pervaso dall'insicurezza e dall'inquietudine, attendevo ancora un segnale da parte di Elizabeth. Un messaggio, un fischio, del codice morse, un fascio luminoso con l'immagine di un pipistrello. Mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa, purché avessi la certezza che stesse pensando a me almeno la metà di quanto io pensavo a lei.

Avevo ancora nella testa il sogno in cui facevamo l'amore in una stanza d'albergo. A differenza di altri, che scomparivano subito nei meandri della mia mente, questo era rimasto impresso, quasi marchiato a fuoco. Ricordavo ogni più piccolo particolare. Si potrebbe dire che negli ultimi giorni vivevo solo di quei ricordi e mi addormentavo nella speranza di sognarla di nuovo.

Non sarebbe bellissimo se anziché parlare, ognuno di noi capisse i sentimenti dell'altro con un semplice sguardo? Si eviterebbero un sacco di incomprensioni e persone come me potrebbero vivere senza la paura di non essere accettati da questo mondo.

Ah, il linguaggio, che strumento meraviglioso. L'unica cosa che le macchine non sono ancora in grado di sostituire adeguatamente.  Quando ne hai bisogno non sai mai cosa dire, ma un momento dopo ti sembra di avere a disposizione l'intero dizionario. Perfino un computer, programmato a dovere, sarebbe in grado di sostenere una conversazione meglio di me. Avrebbe di certo l'intelligenza necessaria a non farsi scappare una ragazza o, quantomeno, a non ficcarsi in questa situazione.

Ormai non potevo più tornare indietro. Così aveva detto la ragazza del sogno, che poi scoprii essere Elizabeth.

Che significato aveva quella frase? Forse mi stava chiedendo di aiutarla, di andare avanti per lei? O, più semplicemente, era solo il frutto della mia immaginazione, quello che volevo sentirmi dire, ma che non avevo il coraggio di chiedere.

Sarebbe bastata una semplice domanda per chiarire le cose, eppure preferivo nascondermi a immaginare vite che non mi appartenevano piuttosto che affrontare la realtà.

La mattinata era stata calda e piacevole, ma da mezzogiorno iniziò a piovere. Dapprima delle gocce grosse e pesanti, poi uno scroscio violento e infine una pioggerella fine e silenziosa. Come degli aghi che cercavano invano di perforare l'asfalto, nonostante i numerosi tentativi e lo sforzo congiunto non l'avevano neanche scalfito. Ammiravo la loro perseveranza, io non avrei resistito così tanto.

Restai col naso attaccato alla finestra per almeno dieci minuti a guardare la pioggia, poi conclusi che non avrei potuto scrivere niente di buono nel pomeriggio. Vagai per la casa in cerca di qualcosa da fare, riuscivo a sentire il peso della noia sulle spalle. Presi il telefono con la voglia di chiamare Elizabeth, ma mi bloccai. Ero davvero così codardo? Così non vai da nessuna parte, pensai.

Andai di nuovo alla finestra, la macchina di Philip era parcheggiata proprio lì sotto.

"Va bene Nick, quando se ne andrà la chiamerai. È arrivato il momento, non possiamo più tirarci indietro." dissi ad alta voce per farmi coraggio.

Tornai a vagare smanioso per l'appartamento, con un occhio sempre vigile sull'altro lato della strada. Alla fine, mi diedi una calmata e scelsi dallo scaffale un libro da leggere. Ripensai all'ultima telefonata di Elizabeth e del libro che stava leggendo. Chissà se l'aveva finito? Scorsi con le dita i vari dorsi fino a trovare quello giusto. Fu il secondo di Murakami che lessi. Un bel mattone, un po' sgualcito agli angoli e con le pagine ingiallite, ma in buone condizioni. Se non ricordavo male lo comprai in un mercatino di roba usata.

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