Epilogo

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Capisci di aver vissuto felicemente quando arrivi alla fine della corsa con quel pizzico di malinconia che non vuole farti abbandonare la vita, ma con la consapevolezza di non poter aggiungere a essa nient'altro.

Sua madre mi disse che Elizabeth se n'era andata nel sonno con un'espressione felice in volto. La seppellirono nella sua New York, vicino ai nonni. Appena potevo andavo a farle visita, restando ore a parlare davanti a una lapide di pietra. Se mi avesse visto, mi avrebbe riempito di schiaffi e mi avrebbe detto di cercare la madre dei miei gemelli, invece.

Qualche giorno dopo la morte di Elizabeth, la collega del mio editore mi contattò. Aveva divorato il manoscritto e ne era rimasta entusiasta. Secondo lei era già pronto per la pubblicazione e la sua idea era quella di farlo uscire nel periodo natalizio. Mi chiese perché non c'era il titolo e se poteva crearne uno lei. Le dissi di no e insistetti per intitolarlo: Ciao, a presto. Le ultime parole che mi rivolse Elizabeth. Mi assicurai anche che ci fosse il suo nome come autrice del libro e, per la quarta di copertina, trovai una polaroid di noi due scattata davanti a uno specchio. Io l'abbracciavo da dietro e cercavo di baciarla sulla guancia, mentre lei faceva una smorfia.

Se diventerà un grande romanzo americano, solo il tempo lo dirà. Ma in questo modo, almeno, Elizabeth continuerà a vivere per sempre dentro di me.

Un giorno ricevetti per e-mail l'invito a una mostra per giovani artisti. A mandarmelo era stata Nola, la giovane pittrice che avevo conosciuto a New York mesi prima. Nel testo c'era scritto solo che aveva finito il mio quadro e voleva che lo vedessi.

Accettati l'invito senza pensarci troppo, nell'ultimo mese avevo perso tante cose: oltre a Elizabeth, mi aveva lasciato anche Carl, il mio vecchio compagno di scacchiera, e non mancava molto prima che Argo giungesse alla fine della sua corsa. Mi avrebbe fatto bene vedere qualche viso familiare.

Il 28 novembre mi trovavo a San Francisco. La mostra si svolgeva al secondo piano di un edificio dallo stile industriale. C'era più gente di quanto mi aspettassi e, dopo un po' di fila, entrai anch'io. Non capivo un granché di quello che era esposto così impegnai il mio sguardo a scrutare i volti dei presenti alla ricerca di quelli di Nola o Evelyn.

Alla fine, le trovai. Ora la ricercatrice in ingegneria biomedica sfoggiava una chioma rossa, impossibile non notarla. Erano impegnate a parlare con altre persone, ma intanto mi avvicinai per salutarle, quando a un tratto notai qualcosa poco distante da lì che catturò la mia attenzione.

Appeso al muro, sistemato tra due sculture a dir poco discutibili, c'era un quadro dall'aria familiare. L'ultima volta che lo avevo visto era grigio e cupo, come se fosse avvolto da nubi temporalesche. Si vedevano a malapena gli alberi e ricordavo la sagoma dell'uomo indeciso su che strada prendere. Se qualcun altro avesse visto entrambi i dipinti, avrebbe detto che si trattava di due opere diverse. Invece no. Era proprio lo stesso quadro, ma completamente diverso. Ora il cielo era terso e al tramonto, all'orizzonte si stagliava una foresta maestosa circondata da laghi e, in primo piano, quella che era soltanto una sagoma abbozzata, adesso si mostrava come un uomo in carne ed ossa. Le sue spalle avevano l'aria di essere pesanti, come se qualcosa le spingesse verso il basso, ma la sua testa era rivolta verso l'alto, verso il sentiero che aveva davanti.

Alle mie spalle, sentii avvicinarsi con calma un tacchettio, seguito dalla voce di Nola.

"Ce l'hai fatta, Nick."

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