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Appena svoltarono l’angolo, Manuel vide subito l’ingresso della sua vecchia scuola circondato da ragazzini che aspettavano di entrare all’interno dell’istituto.

Quando passarono di fianco alla sua scritta sul muro dell’amore, lui sorrise guardandola e guadagnandosi un sguardo confuso da parte di Jacopo che non riuscì però a chiedere spiegazione, fermato sul nascere dall’arrivo del preside: Dante Balestra.

«Manuel!» lo salutò il suo vecchio professore prima di prendere il nipote e abbracciarlo sollevandolo di poco da terra. «Nun è troppo vecchio pe’ fa sti sforzi, professo’?» chiese ridendo Manuel, mentre poggiava a terra lo zaino di Jacopo.

«Per prima cosa: grazie a Dio, non sono più il tuo professore. Seconda cosa: sai che chi si fa gli affari propri campa cent’anni?»

«Allora se lo faccia di, professo’: nun je resta molto da vivere.»

«Ma vaffanculo.» rise il preside rendendosi poi conto di averlo detto davanti al nipote e scusandosi subito dopo. «Io inizio ad avviarmi in classe – disse Jacopo sentendo la campanella suonare – me lo porti tu nonno?»

Dante annuì e, dopo aver salutato Manuel, li lasciò soli davanti all’ingresso della scuola. «Dai su, ti offro un caffè.» disse puntando verso il bar li davanti.

«Quindi…» iniziò dopo aver ordinato i caffè.

«Nun me faccia il terzo grado, professo’, la prego.»

Dante alzò le mani, «Volevo solo sapere se quanto mi ha detto Jacopo è vero. Se te e Simone ci state riprovando.»

A Manuel venne da ridere, quando mai ce abbiamo provato. «Su fijo non gliele dice certe cose? ‘e deve venì a sape’ dar nipotino?» prese un sorso di caffè sentendo quell’amaro che amava tanto riempigli la bocca.

«Vedi, il rapporto con mio figlio è migliorato negli anni, ma questo non vuol dire che mi voglia far partecipe di tutto quello che succede nella sua vita. Però se sei qui, a portare Jacopo a scuola, un motivo ci sarà. – Manuel abbassò la testa sorridendo – poi, parliamoci chiaro, quel ragazzino non sa tenersi un cecio in bocca. Se non fosse adottato, e non sapessi che l’altro suo padre è Riccardo, potrei definirlo figlio vostro.»

«Nostro?» Manuel spalancò gli occhi, sentendo il panico salire – peccato che non fosse panico ma desiderio, desiderio di una vita che avrebbe potuto avere e che, anche se ora distaccato da loro, aveva ottenuto Riccardo. E l’aveva buttata via.

«Vostro. Mi ricorda molto te e Simone qualche anno fa, forse con meno rabbia addosso e più amore.»

Manuel si passò una mano tra i capelli con fare nervoso, «Professo’, eddaje.» disse arrossendo, perché stai ad arrossì Manuè?

«Va bene, ti lascerò stare per ora. La borsa da calcio di Jacopo?»

Grazie a Dio nun ha continuato a fa domande, «Ce l’ho co’ me, la porto direttamente ora così dopo la troverà direttamente in spogliatoio. Tanto ‘a sala de fisioterapia è lì a fianco.»

Dante gli sorrise, teneva più lui a quel ragazzino dopo poche settimane che l’uomo di cui portava il cognome e che lo aveva cresciuto in quei quattro anni. «Bene, allora ci vediamo dopo alla Roma.»

Manuel allungò delle monete al barista pagando i caffè e facendo un occhiolino al preside, «A dopo, professo’.»

«Manuel?»

«Si?» «Non lo sanno a lavoro che sei laziale, vero?» vide subito il ragazzo sbiancare, come cazzo faceva a ricordarselo. Dante rise capendo subito la risposta, per poi salutarlo e portare dentro lo zaino a uno Jacopo che sicuramente si stava chiedendo dove fosse finito.

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