4- Grace

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I wonder how I'll sleep at nightWith a cavity by my sideAnd nothing left to hold

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I wonder how I'll sleep at night
With a cavity by my side
And nothing left to hold



Il vento le passava fra i capelli mentre correva libera sulla collina, i fili d'erba a solleticarle le piante dei piedi nudi ad ogni passo. Correva, correva a braccia spalancate su quell'infinita distesa di verde, l'ampia gonna gonfiata dall'aria fresca caratteristica di quei mattini frizzanti in primavera.
Era nata il primo giorno della primavera, in una mattina identica a questa. I medici avevano detto a sua madre che era la bambina più bella che si fosse mai vista, con la pelle chiara e delicata, i grandi occhi e la folta peluria che, anche da neonata, le ricopriva già il cranio. Una grazia.

"Questo è il mio nome".

Decine di farfalle colorate volavano attorno a lei, sfiorandola nella sua corsa spensierata. Stava correndo da quanto? Non aveva neanche l'accenno di un affanno, ma era sicura di star correndo da centinaia di anni. Le lacrime stavano traboccandole dalle ciglia, finendole nei capelli e gocciolando sugli abiti, ma con una grazia eterea.

"Il mio nome..."

Le farfalle le si attaccarono alla pelle, facendole il solletico, in particolare all'interno delle braccia dove le vene verdognole erano più visibili. Alcune avevano ali d'oro, d'argento, luccicanti al sole come pezzi di vetro, e i bagliori che mandavano le ferivano gli occhi. Tentò di portarsi al volto una mano, per coprirseli, ma quando sollevò il braccio si accorse con orrore del moncherino sanguinante che aveva in fondo ad esso.
Cercò di arrestare la sua corsa, ma quando guardò in basso non vide i piedi; le caviglie terminavano in grumi di carne sanguinolenta, che imbrattava l'erba di rosso formando una macabra scia dietro di lei.
Vacillò, la sua corsa perse la solita grazia.

"Come mi chiamo..?"

Cercò di urlare, ma non aveva bocca. Le farfalle, con i loro occhi composti, le si attaccavano succhiandole il sangue, le protuberanze che le si infilavano sotto la pelle come aghi, stillando dolorosamente gocce di sangue, che le colava lungo il corpo, fino a terra, andando a mischiarsi con quello che già perdeva dalle caviglie mutilate. Provò a chiudere gli occhi, ma scoprì con orrore di non avere le palpebre.
Il cuore le martellava in petto con dolore, ogni battito che rimbombava come un tamburo, amplificato cento volte. D'improvviso, le farfalle la sollevarono in aria, attaccate al suo corpo da fili di sangue, del suo sangue, ma solo per un attimo.

La terra si spalancò, l'erba sparì e le farfalle mollarono la presa, lasciandola precipitare nell'oscurità.

«Grace, svegliati, è l'ora della medicina».

Apro gli occhi, o meglio, apro l'occhio sinistro. Il destro è perennemente aperto, cieco, sfigurato da una cicatrice grigiastra, dai bordi frastagliati, che mi parte dalla guancia e mi finisce fra i capelli.

Mi guardo intorno: la stanza è illuminata a giorno, e deve essere più o meno mezzogiorno, anche perché è questa l'ora in cui l'infermiere entra con le sue medicine.

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