Capitolo 9

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FARON

Parsival persino da dentro una cella sta mettendo a dura prova la mia pazienza e quella dei molti agenti infiltrati, pronti a smantellare la sua organizzazione.
Quel fottuto bastardo non è solo un burattinaio. Ha meditato a lungo sulla vendetta, costruendo intorno a sé una recinzione piena di insidie, dove al minimo passo è possibile morire.
Al momento, ha affidato a più persone la guida dell'organizzazione. Hector Thorne, è solo un altro pupazzo nelle sue mani.
Ogni bastardo intenzionato a prevalere sulla nostra famiglia sta facendo affari con lui. Sono ancora pochi, certo, ma non per questo meno pericolosi.
Altro grosso problema? Stanno cercando di farla fuori. Quella ragazza per qualche assurda ragione per loro è un ostacolo, e io non intendo permettergli di farle del male. Ho bisogno di ogni singola informazione lei abbia, ammesso che la mia teoria sul suo presunto vuoto di memoria sia vera, affinché Nolan torni a casa.
Perché avvenga, devo prima risolvere una questione. Forse Dante non ci è ancora arrivato, preso com'è dai problemi personali da risolvere, ma il mio intuito e le mie esperienze in fatto di fiducia sì, e sto per dargliene una dimostrazione pratica.
«Dove sono?»
Irrompo come un ariete di sfondamento nel piano del palazzo usato come base operativa dopo che mio fratello ha demolito i precedenti ritrovi.
Dante, intuendo le mie intenzioni, mi si para subito davanti per fermarmi. Ma inferocito e incapace di dar retta alla ragione, lo scosto in modo brusco facendolo barcollare e mi dirigo verso la sala riunioni.
In fondo al tavolo ovale di vetro ci sono i due idioti che avrebbero dovuto aiutarmi e che non sono mai arrivati a destinazione. Loro non hanno la minima idea che so la verità.
Se ne stanno seduti a capo chino. Continuano a fingere, e lo fanno piuttosto male.
I miei passi pesanti spezzano il silenzio.
I due traditori raddrizzano nell'immediato le spalle non appena mi vedono arrivare attraverso le pareti di vetro a delimitare ogni singolo box.
Non sono dell'umore per i convenevoli. Tantomeno pronto ad ascoltare giustificazioni inutili. Ed è tardi per loro avere una qualsiasi reazione.
Il primo, riceve un colpo alla mascella, perde la presa sul tavolo al quale si è aggrappato, rotola a terra e sputa subito un dente; oltre a un fiotto di sangue che schizza ovunque. Il secondo, stramazza a terra con un tonfo, il polso contro il petto, l'urlo di dolore afono fuoriesce dalle sue labbra dopo avergli spezzato l'arto con una semplice torsione.
«Far, che cazzo stai...»
Sollevo l'indice, mi volto e lo punto sui due che cercano di rimettersi in piedi e affrontarmi nonostante il dolore che stanno provando. Non è niente se paragonato a quello che avrebbero potuto causare a quella ragazza qualora fosse successo qualcosa alla bambina o si fosse ferita lei stessa.
Il primo, con una mano alla bocca per la perdita di sangue, finisce di nuovo a terra quando osa urlarmi addosso un insulto e a ricambiare il pugno. Questa volta resta senza fiato e con la punta del mio stivale premuto contro la sua gola. Il secondo, lo afferro quasi al volo quando tenta di scappare imprecando, e tenendolo per la trachea, lo sollevo in modo tale che sia sospeso dal terreno e si senta talmente in bilico da non oscillare per non morire.
«Vi hanno addestrato per farvi le seghe a vicenda durante i turni di lavoro o per proteggere le persone quando sono in pericolo?», sbraito, senza volere davvero una risposta. Niente mi impedirà di fargli del male.
I due non hanno le palle di aprire la bocca, in parte perché sanno già che le conseguenze per loro sarebbero ancora più dure da sopportare.
Dante prova di nuovo ad avvicinarsi. Lo ammonisco e solleva entrambe le mani in un gesto di resa. Prova con un approccio diverso. «Far, non è compito tuo punirli. Li abbiamo sospesi e...»
Il sangue mi arriva dritto al cervello, letteralmente. Vedo rosso. «E cosa? Avevo una cazzo di neonata in auto e una ragazzina spaventata e ignara del mondo oscuro che sta tentando di risucchiarla dentro, porca puttana!», urlo, sentendo le corde vocali tendersi fino a bruciare. La bile mi sale in gola. «Come puoi anche solo pensare che sospendere questi due pezzi di merda sia abbastanza quando un proiettile avrebbe potuto ammazzarle? Se non fossi stato attento o addestrato... loro...», fatico a parlare.
Sangue, fumo, spari...
Strizzo le palpebre. "NO!", mi dico. "Non, ora".
Dante ha la decenza di non replicare a questo. Non so come potrei prendere una sua reazione, in parte non voglio neanche scoprirlo, dato che sto già dando sfogo alla bestia che hanno sguinzagliato a loro insaputa.
Stringo la presa sul collo dell'uomo e lo scaglio come una bambola di pezza contro la vetrata che ho davanti. Prima, mi occupo di quello a terra dandogli un calcio così forte in faccia da metterlo al tappeto.
Con discrezione, Terrence, il più vicino, non appena sono a distanza e pronto a fiondarmi sul secondo, trascina quello svenuto dall'altra parte della stanza, fuori dalla mia portata. Chiama persino uno dei suoi colleghi per un primo soccorso.
Non appena saprà la verità se ne pentirà, scommetto.
«Mi disp...»
Il colpo contro il vetro è forte. Non nego di averci messo più della forza necessaria e di non aver provato una certa soddisfazione nel farlo. Tengo premuta la testa dell'uomo contro il vetro, mi abbasso all'altezza del suo orecchio, ma dico abbastanza forte, affinché i presenti possano sentire: «La prossima volta che chiederai scusa, sarà con una pistola in fronte e sarai in ginocchio insieme ai tuoi compagni, brutto figlio di puttana», ringhio minaccioso. «Credevate che non avrei capito il vostro doppio gioco?», sibilo. «Nessuno fotte un Blackwell».
«Che cosa significa?», domanda Terrence.
Lecco le labbra. «Significa che vi siete fatti fottere da questi due. Fossi in voi, non appena avrò finito e si saranno ripresi, li torchierei più duramente e li rispedirei al creatore».
Non comprendono. Lo intuisco dal cipiglio e dal modo in cui stanno esitando entrambi. Sono davvero ignari?
«Chiedetegli chi paga i loro stipendi», pronuncio prima di dare un altro colpo all'uomo. La sua testa sbatte contro il vetro e sviene.
Mi guardo intorno. Sguardi vacui riempiono la stanza, ma nessuno degli agenti accorsi osano dire niente. Ho appena sganciato una grossa bomba di merda e non riusciranno più a guardarsi allo stesso modo, ovvero come una squadra.
Bene, il silenzio è quello che voglio. Ma non solo. Voglio che mi guardino come un mostro e abbiano paura di essere stanati a uno a uno e sbranati.
Mi avvio verso la zona bar, riempio un bicchiere d'acqua dalla caraffa e tiro fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca esterna. Avevo smesso, cazzo. Ma negli ultimi giorni la mia resistenza sta facendo cilecca e il bisogno di conforto ha preso il sopravvento. Non posso sbronzarmi davanti a loro, pertanto scelgo un altro vizio in grado di consumarmi dall'interno, fottendomene se scatterà l'allarme.
Afferro e tiro fuori dal pacchetto, direttamente con le labbra, una sigaretta; l'accendo e aspiro una boccata nel tentativo di riempirmi i polmoni e di far uscire, oltre al fumo, anche la furia che mi scorre nelle vene. Di seguito bevo tutta l'acqua per placare il bruciore che ho dentro. Una volta aver finito, picchio il bicchiere sulla superficie, suscitando un sussulto generale. Appoggiato al bancone in legno grigio chiaro, mi volto. Li scruto tutti.
«Avete avuto proprio un gran bel piano del cazzo. Vi siete fatti fottere come delle matricole. Adesso voglio vedere come farete a risolverlo da soli e a stanare il resto dei traditori, perché io ho chiuso», esclamo prima di lasciare la stanza, pronto a dirigermi in hotel.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora