FARONL'insicurezza non è mai stata nella mia natura. Sapere di essere forte, di riuscire a raggiungere qualsiasi obiettivo auto-imposto, mi ha sempre fatto sentire sul giusto asse. Eppure adesso sembra che io abbia perso gravità e stia girando senza meta.
Il peso costante degli errori commessi negli ultimi tempi, mi sta letteralmente consumando dall'interno. Non ho mai fallito, non sono mai stato così impulsivo.
Quella minuta ragazza si è trasformata in una distrazione. Piacevole e allo stesso tempo come un dolore infimo e costante che si sussegue a suon di battiti e brividi.
Per mesi, sono stato stordito dall'alcol e dai farmaci, sempre pronti ad annebbiare ogni singolo pensiero, a lenire ogni traccia di dolore, persino quello più nascosto. Mentre adesso, più che sobrio, senza l'effetto collaterale dietro, sento tutto con intensità doppia. È come se avessi rimesso gli occhiali per vedere nitidamente il mondo esterno. Mi agita questa forma di imprevedibilità, ma non frena i miei piani.
La cosa che più mi turba in tutta questa storia, è il modo in cui lei mi fa sentire.
È un qualcosa di furioso e contorto. Qualcosa che mi spezzerà in un modo o nell'altro. Perché ho sempre voluto tanto. L'ho promesso a me stesso quando tra le braccia ho ritrovato un pugno di niente. Ma quando stringi forte la tua ricompensa e ti illudi di poter essere felice, sei destinato a distruggere quelle ali di cera che hai condotto un po' troppo vicino al sole.
Raggiungo il quartiere a piedi con il viso nascosto da un cappellino da baseball nero.
Adesso che posso mettermi ciò che voglio, senza per forza dovermi sentire inferiore o non all'altezza, con un paio di jeans e una semplice maglietta di cotone, mi sento più sicuro.
Una parte di me sta rinascendo e non intendo sopprimerla per nessun motivo. Mi servivano anche indumenti che non urlassero la parola bersaglio o uomo pieno di soldi da derubare.
È stato fin troppo facile superare i gruppi di mocciosi posizionati agli angoli, senza permettere loro di fermarmi. Ho percepito la loro paura. Suppongo si sia sparsa la voce in giro, perché raramente da queste parti dimenticano un volto o lasciano in pace qualcuno che non appartiene alla stessa gente.
Di fronte al portone, sul pannello del citofono che sto studiando, non vengono riportati tutti i nomi degli affittuari dei vari appartamenti. Durante il mio breve esame, mi salta all'occhio che solo due sembrano essere stati sostituiti di recente, e nonostante siano composti da spazi vuoti, il mio intuito mi dice di provare con il quarto piano. Riesco a infilarmi dentro quando un fattorino esce dal portone.
Le pareti sono piene di crepe, c'è talmente tanta umidità che in alcune zone è evidente dalle chiazze di muffa e dal gocciolio che si accumula dentro un fusto. Nel complesso, i murales qui dentro sono arte pura che a Eden piacerebbe vedere. Si tratta di copie di rappresentazioni di artisti famosi, dipinti fedeli agli originali. Niente di moderno, solo classicismo allo stato puro per coprire probabilmente buchi e altri disegni. Ci sono anche attrezzi e dei ponti in fase di costruzione per la ristrutturazione dell'intera struttura.
«Almeno qualcuno si preoccupa», mugugno, facendo attenzione ai gradini che scricchiolano sinistramente.
Fermo sul pianerottolo mi guardo ovunque prima di decidermi e avvicinarmi alla porta giusta: quella priva di tappeto di benvenuto o portaombrelli, se l'istinto non mi inganna.
Mi chino, studio la toppa e sfilando dalla tasca due semplici attrezzi funzionanti mi accingo ad aprire la porta. Questa, si spalanca senza il minimo sforzo.
Guardandomi con circospezione alle spalle, con la sensazione di essere osservato, mi infilo nell'appartamento richiudendo in fretta la porta, senza fare rumore.
Non appena mi volto, ogni mia iniziale aspettativa si lacera e i pezzi cadono sul minuscolo riquadro in cui mi trovo.
Talmente spoglio da sembrare abbandonato, eppure pieno di segni di vita dovuto alla presenza di biberon e bavaglini rosa, verde e azzurro pastello sul piano della cucina, tutine ripiegate con cura su una sedia; l'appartamento in cui ho messo piede è... desolante.
I miei occhi vagano alla ricerca di qualcosa di suo, ma è talmente sconfortante quello che ho davanti da farmi sentire a disagio. L'unica magra consolazione proviene dal profumo di pulito che aleggia intorno.
Un profumo che ho già sentito da qualche parte ma che non riesco ad associare.
«È così che vive?», mi domando a bassa voce.
Senza perdere tempo avanzo verso quello che è un bagno dotato di una minuscola doccia, un water e un lavandino. C'è a malapena lo spazio per entrarvi, pochi sono gli oggetti personali adagiati sui ripiani; come se non avesse avuto il tempo di riempire il mobile di prodotti o non volesse farlo perché non si tratterrà a lungo.
Esco dal bagno e giro intorno sentendo addosso solo il peso consistente di altre domande sulla vita di quella ragazza.
Perché mi sento tanto inorridito? Ho visto di peggio, ma l'immagine di lei sdraiata in quel lettino addossato alla parete sulla sinistra, continua a passarmi davanti, a farmi sentire uno stronzo. Perché ho tutto, anche se dentro sento solo il vuoto.
Mi avvicino al frigo, spalanco l'anta e con sgomento sono testimone di una miseria silenziosa. Per istinto, quasi con foga, procedo con ogni singolo sportello della cucina, lasciandolo aperto mentre arretro come se mi avessero accoltellato.
Niente. Non c'è niente, eccetto tutto il necessario per un neonato.
«Cazzo!», indietreggio ancora, afferrandomi la nuca. Sento pulsare la vena e prendo a grattarmi il collo.
Per un interminabile momento il mio cuore si ripiega su se stesso. La mia reazione iniziale sarebbe quella di spaccare tutto, usare questa rabbia che sta montando dentro di me insieme a un fastidioso senso di sconfitta e rigetto per un qualcosa che non ho potuto controllare e sistemare sin dal principio. Ma se ho imparato qualcosa negli ultimi mesi è che le decisioni che prendiamo spesso coinvolgono altre persone. Le decisioni prese da questa ragazza stanno mettendo a repentaglio non solo la vita di una bambina, persino la mia salute mentale.
Nonostante la mia pazienza sia sul filo del rasoio, non posso mostrare nulla di ciò che provo, pertanto passo nervosamente le dita tra i capelli e mi ricompongo.
Non è affatto un bene interessarsi così tanto a una persona che non si conosce e non fa parte della famiglia. Interviene la voce nella mia testa. Eppure l'istinto mi spinge a osare. Perché allo stato attuale delle cose, non posso stare con le mani in mano. Devo agire.
Senza pensarci, pesco il telefono dalla tasca posteriore, e anche se in lotta con la parte razionale del mio essere, chiamo l'unica persona che so mi aiuterà senza spingermi verso una missione di cui non voglio far parte.
«Far?»
«Ti disturbo?», le chiedo, notando la leggera cadenza assonnata e prendendomi mentalmente a schiaffi da solo per non avere controllato l'ora.
«Che succede? Devo venirti a recuperare?», sbadiglia. Sento del rumore di sottofondo, la sua voce sommessa mentre tranquillizza Dante, poi il fruscio ad avvisarmi che si sta spostando per ascoltarmi senza far intercedere mio fratello. Almeno so che è tornato a casa da sua moglie e si sta riposando.
«No, non sono ubriaco. Mi dispiace se ti ho svegliata, ma è alquanto urgente e pensavo volessi saperlo perché riguarda quella ragazza».
In un attimo il suo tono cambia. «Blue? Che le succede? Sta bene? La bambina?»
«Senti non ho molto tempo. Sono nel suo appartamento e...»
«Cosa significa che sei nel suo appartamento? Far, che diavolo hai combinato?», si agita. «Mando subito tuo fratello...»
Stringo il dorso del naso, fermandola prima che possa chiamare davvero Dante e mandare all'aria i miei piani. «Non ho fatto niente. Volevo solo controllare una cosa e davanti a me invece ho trovato... porca puttana, non so nemmeno come descrivere quello che sto guardando», arriccio il naso nel sentire il mio stesso tono aspro e pieno di apprensione verso un'estranea.
Eden espira, nel frattempo la sento armeggiare in cucina e prepararsi una tazza di caffè. «Fammi capire, perché lo stai facendo? Cosa volevi controllare? Non riesco a immaginare come si sentirà non appena saprà che hai invaso il suo spazio personale e la sua privacy. Far, esci da lì immediatamente».
A volte sembra proprio Dante. «Non ho chiamato per farmi fare la morale su cosa è giusto o sbagliato. Sono qui, faccio quello che faccio per le mie ragioni e ho davanti il niente più assoluto».
Questo incuriosisce Eden, la quale smette di ordinarmi di uscire da questo appartamento. «Ovvero?»
«Niente album fotografici, eccetto due cornici piene di polaroid in cui vi è lei e la bambina. Niente cuscini, niente coperte e niente cibo. Penso abbia il conto in rosso e stia lavorando come una trottola solo per sfamare la bambina».
Eden sussulta, riesce a nascondere a malapena la sua reazione. «Quindi vive da sola o sta scappando dal padre della bambina?», si domanda. «Che cosa facciamo?»
«È per questo che ho chiamato te. Io non sono bravo e...»
«Mandami l'indirizzo. Mi serve del tempo per organizzarmi. Per prima cosa le prenoto la spesa online, dovrebbe arrivare in fretta. Scrivimi tutto quello che le occorre, farò un paio di giri».
All'improvviso riecheggiano dei colpi alla porta e raddrizzo le spalle. «Aspetta, abbiamo visite».
«Merda. Fa' attenzione, Far!»
A passo felpato raggiungo la porta, controllo dallo spioncino e ritrovo, in attesa, un uomo dall'aria arcigna.
Bussa di nuovo sporgendosi, come se sapesse che sono dietro la superficie. «So che sei lì dentro. Se non vuoi che chiami la polizia, apri la porta».
«Ti richiamo quando avrò risolto. A quanto pare sono stato scoperto», dico a Eden riagganciando.
Apro la porta con disinvoltura e il tizio sui cinquant'anni, di bell'aspetto, fa irruzione in casa accompagnato dalla lieve colonia che indossa. Accorgendosi che non sono un ladro, che non sto cercando di scappare o ucciderlo, esita. «Chi sei?»
«Chi sei tu?», ribatto, studiando al contempo i suoi lineamenti.
Non porta nessuna fede al dito, le sue mani sono curate e morbide, un tratto che restringe i campi sul lavoro che svolge. Indossa abiti costosi per uno che abita in un posto così povero.
«Sono il padrone di questo palazzo. Mi chiamo Warner Hudson», si presenta, pur continuando a controllare che non abbia niente in mano per colpirlo e che in casa non ci sia nessuno; anche se sembra sorpreso di questo.
Incrocio le braccia al petto. «Lei sapeva già e non ha fatto niente?», con il pollice indico l'ambiente alle mie spalle.
I suoi occhi indagatori si spostano dal mio corpo e con altrettanta lentezza si sgranano. Per poco non gli casca la mascella circondata da una lieve spruzzata di ispida barbetta. Gliene do atto, nonostante lo shock, regge bene il colpo e non demorde, fingendosi indifferente. «Come vivono le persone non sono fatti miei. L'importante è che paghino l'affitto, non siano rumorosi e...»
«Non era mai entrato qui dentro, vero?», lo interrompo. «Sembrava persino sorpreso nel sapere che non si trova in casa», lo incalzo.
Le punte delle orecchie gli si tingono di rosso. «No», indietreggia massaggiandosi il petto, prima di portare il palmo alla bocca. «Quella piccola...», sputa fuori sempre più infervorato. «Perché non mi ha detto niente? E dov'è andata così presto?»
«Evidentemente si vergogna a tal punto da mentirle».
Abbassa la testa. Adesso appare turbato e in qualche modo colpevole. «Come ho fatto a non accorgermene? Pensavo fosse così disordinata da non lasciarmi entrare. Non pensavo che...», indica tutto quanto, o meglio il niente che ci circonda, scoraggiato.
«Senta, non credo sia il momento per i sensi di colpa».
Adesso mi guarda dritto negli occhi. «Chi sei?», domanda in cagnesco. «Che cosa ci fai in casa sua?»
«Solo un amico», mento. «E sta per arrivare una montagna di spesa per lei», aggiungo vedendo quanto sia sul piede di guerra.
Non si fida e non mi crede. Strizza la palpebra come farebbe un mastino prima dell'attacco. «Chi mi dice che tu non sia qui per farle del male? In fondo hai scassinato la sua porta. Un amico avrebbe avuto una chiave di scorta».
Cazzo!
«Sono Faron Blackwell, signore, e le assicuro che non ho cattive intenzioni verso la signorina Thorne», cambio atteggiamento, uso persino un tono formale.
Grazie a questo, e forse anche al mio cognome, il signor Hudson smette per un momento di fissarmi come se volesse strozzarmi con la pianta finta che pende da una mensola a poca distanza dalla mia testa. «Che cosa vuoi da lei?», chiede ancora.
Perché quest'uomo fa così tante domande? Non si sarà mica invaghito?
In un attimo nel mio cervello si aziona il pilota automatico per spazzare via gli stronzi che credono di potersi approfittare di una giovane neo-mamma. «Perché la tiene d'occhio? Che rapporto ha con lei?»
Arrossisce, intuendo. «Stai facendo stupide congetture, ragazzo. E qui l'intruso tra i due sei proprio tu», mi rimbecca. Superandomi controlla le dispense, sollevandosi sulle punte quando non arriva a vedere sui piani in alto, poi torna alla porta. «Sono un medico, al momento non lavoro a causa del mio temperamento. Ho avuto dei problemi di rabbia da quando mia moglie mi ha tradito. Ma questo non è importante. La signorina Thorne pulisce il mio appartamento e cucina per me tutte le sere. Le ho ridotto al minimo sindacale l'affitto, e adesso capisco il perché abbia accettato subito, senza mai lamentarsi, quando le ho fatto la proposta», abbassa le spalle pensieroso.
Percepisco la sua preoccupazione, ma sento che c'è altro sotto quella spiegazione. «Quindi non sa del suo lavoro notturno?»
«Quel mostriciattolo mi deve più di una spiegazione», brontola. «Perché non chiedermi aiuto? Sa che posso permettermelo e che per loro farei il possibile».
L'atteggiamento, le parole, mi fanno rivalutare l'uomo che ho di fronte. La ragazza ha un valido alleato, e penso che quest'ultimo abbia un grosso ascendente su di lei.
Sentiamo bussare e dietro la porta, rimasta aperta, trovo Eden insieme a dei fattorini. «Ho fatto più in fretta che potevo», accorgendosi del signor Hudson, non si lascia cogliere impreparata, sorride affabile, tira fuori la mano dalla tasca e gliela porge. «Salve, sono Eden Rose. Mio cognato le ha già spiegato la situazione?», domanda prevaricando su di lui.
Il signor Hudson sembra ammaliato da Eden e il suo atteggiamento subisce un ulteriore scossone. «Questo giovanotto è suo cognato?», indaga ancora in parte guardingo.
Forse stiamo dando troppe informazioni, ma sono necessarie per uscirne illesi.
«Sì, Faron è il fratello di mio marito. Forse lo conosce, si chiama Dante Blackwell», riporta in fretta l'attenzione sull'argomento. «Lo scusi se ha scassinato la porta di Blue. Faron sa essere un tantino protettivo e impulsivo», dice mentre sorride nervosa. «Ma lo ha fatto per una buona causa». Eden si sposta nella stanza. Non mi sfugge il modo in cui i suoi occhi si aprono di fronte a tanta miseria.
Hudson si gratta la guancia. «Non avrei scoperto niente di tutto questo senza di lui», indica le buste e Eden accetta il suo aiuto.
«Spero non sia allergica a qualcosa in particolare».
«Mangia poco e come un uccellino, difficile dirlo», esclama Hudson, cominciando a sistemare tutto in modo metodico.
«Oh, abbiamo notato».
«Davvero? Quando? Non la vedo mai uscire e non viene mai nessuno a trovarla. Anche se a quanto pare mi perdo molte cose che passano da sotto il mio stesso naso». Ancora una volta il sospetto ha la meglio su di lui.
«È stata male l'ultima volta che l'abbiamo incontrata, così le abbiamo offerto cure mediche e un pasto. Ma la conosce».
«È stata male?», appare sempre più turbato. «Non ne sapevo niente. Avrei chiamato uno dei miei colleghi per assicurarle il miglior trattamento».
«Blue è una ragazza riservata», sostiene Eden. «Non ha preso bene la nostra iniziativa».
Li aiuto in silenzio fino a quando non abbiamo riempito il frigo e i vari ripiani della cucina. Nel frattempo, aggirandomi intorno per ispezionare l'ambiente, aggiusto quello che avrebbe bisogno di una sistemata. Come il soffione della doccia e la relativa minuscola caldaia.
«Faceva la doccia fredda», dico uscendo dal bagno.
Eden appare inorridita al pensiero. «Oh cielo!»
Controllo ogni singola tubatura poi le finestre e in breve le sistemo persino la porta del bagno, la quale non riusciva a scorrere più ed era incastrata.
Eden, con nuove lenzuola fresche di bucato, rifà quel letto spoglio, poi storcendo le labbra prende la cesta ma la fermo. «Non puoi buttarla, potrebbe avere per lei un significato affettivo».
Assurdo che debba essere io a dirlo. Tra i due quella sentimentale è lei.
Mia cognata arrossisce. «Giusto. Questa non è casa mia e noi tutti stiamo invadendo lo spazio di una persona che potrebbe non prendere bene tutto questo».
«Esatto! Che diavolo ci fate qui dentro e chi vi ha fatti entrare?», una voce spezza il silenzio, mentre la porta principale sbatte contro la parete.
I suoi occhi chiari, grandi come biglie, un po' allungati sulla parte esterna, circondati da ciglia lunghe e scure, nella luce fioca del tardo mattino appaiono increduli e smarriti.
Il mio primo istinto sarebbe quello di avvicinarmi, afferrarla per le spalle e scuoterla, per riuscire a recuperarla da qualsiasi posto lei sia precipitata, per assicurarmi che sia ancora del tutto vigile e non sul punto di estraniarsi per non doverci affrontare.
Eden sussulta, abbassa la cesta riponendola al suo posto e mi si accosta, mentre il signor Hudson resta impassibile. Quell'uomo deve essere abituato al caratteraccio della ragazza, ma è fin troppo ovvio quanto straveda per lei.
«Possiamo spiegare», cinguetta Eden con un sorriso timido.
Le narici della ragazza si dilatano. «Datemi una sola ragione per non chiamare la polizia», dice stringendo la bambina al petto. «Che diavolo volete da me?»
Osservandola attentamente sembra avere gli occhi arrossati e le labbra gonfie, come se le avesse morse di continuo.
Eden guarda me, poi riporta la sua attenzione su di lei. «Siamo passati per invitarti da noi e...»
«Stronzate! Smettila di mentire e dimmi la verità».
Sembra una dea vendicativa. Tutto a causa mia.
Il mio cuore non sa più come suggerirmi che non sono immune a lei come speravo.
«Sono stato io», le interrompo. «Dopo l'altra notte volevo assicurarmi che stessi bene. Non rispondevi, non c'era nessuna chiave di riserva e ho scassinato la porta senza riflettere sulle conseguenze. Non appena ho visto le condizioni in cui abiti... ho chiamato i rinforzi», le parole mi escono spontanee dalla bocca. «Il signor Hudson mi ha beccato e voleva farmi a fette, ma ha cambiato idea e vorrebbe dirti qualcosa», tiro anche lui in causa.
«Esatto. Avresti dovuto dirmi la verità», le si avvicina prendendo la bambina, la quale sorride e si riaddormenta cullata dalle sue braccia.
Non so dire la sensazione che mi circola nelle vene mentre mi passa davanti ogni singolo istante a rallentatore. Vorrei strappargliela dalle braccia e allontanarlo da lei. Poi però mi riscuoto sentendo la voce della ragazza. «E che cosa avresti fatto? Non voglio l'elemosina di nessuno», guarda la sua stanza e sussulta per la trasformazione. «Avete...», indietreggia. «Come osate...»
«Lo abbiamo fatto per te. Non hai nessun debito nei nostri confronti. So che se ne avessi la possibilità, faresti lo stesso», Eden si avvicina a lei posandole la mano sulla spalla e quando si scansa, mortificata, concentra la sua attenzione sulla bambina. «E lo abbiamo fatto anche per lei».
«Hai dato da mangiare a un adolescente quando non avevi niente per sfamarti. È così che vivi?», indirizzo la sua rabbia su di me. «Pensi che la tua salute valga meno di quella del ragazzino o di ogni persona che aiuti?»
Lei deglutisce continuando a prendere piccole boccate d'aria come se stesse andando in iperventilazione. Non mi guarda in faccia e scrolla più volte la testa prima di ruggire: «Per favore, andatevene».
Ho la sensazione che sia ben disposta a evitarmi. In un certo senso la cosa mi fa incazzare, perché più mi sento ignorato da lei più ho voglia di provocarla.
Le sue parole, non importa se aspre o dolci, hanno la capacità di lasciare un segno.
Ma porca puttana, ora non ha reagito come volevo.
Umiliazione, è ciò che sta provando. Ma per quanto le sia anche grata, non riesce ad accettarlo perché ha paura.
I suoi lineamenti si riempiono di una tristezza sottile eppure evidente dal modo in cui i suoi occhi, anche se accesi dall'incendio di emozioni che le si sferzano dentro, trasmettono un freddo capace di attaccarsi alle ossa.
Sono assolutamente certo che stia cercando di trovare la strada per evadere da tutto quello che incassa dalla vita e che le strazia l'anima, rendendola prigioniera dei sentimenti. Ma non è scappando o ignorando ciò che sente che riuscirà a guarire dal dolore. Dalla sensazione di essere sempre quella sbagliata. Prima o poi dovrà affrontare tutto.
La supero. Prima però, ostinato, fermandomi di fronte a lei le do un colpetto sul naso.
Mi si rizzano i peli sulla nuca, un lampo freddo coglie impreparata la mia spina dorsale. È come ritrovarsi nell'attimo prima di un salto con il paracadute.
Accorgendomi di essermi quasi perso e avvicinato ulteriormente invadendo il suo spazio personale, sono costretto a ritirarmi e a prendere un lungo respiro, mi aggrappo persino alle ultime gocce di buon senso rimaste alla mia volontà per non cedere, per non sbagliare di nuovo. Per non essere guardato ancora come un mostro che prende e non dà niente in cambio.
«Accetta e basta. La scarpina me la tengo finché non avrai mangiato e avrai riacquistato un po' di peso, kelebek».
Le sue guance si infiammano. «Come ti perme...»
«È preziosa per te, no?», ghigno mettendola a tacere. «In più sarai nostra ospite stasera. Preparati, qualcuno verrà a prenderti».
Fa per obiettare. «So che non lavori stasera», indico il tabellone con i turni accanto al frigorifero che ho studiato poco prima che arrivasse. «Quindi niente bugie, kelebek».
Mi allontano lasciandola al centro della stanza, le guance rosse e gli occhi spalancati.
Eden la saluta, rinnova l'invito, poi mi segue fuori. «Abbiamo fatto un casino, vero?»
«Già», sibilo. «Troveremo una soluzione».💛🦋
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Brutal - Come graffio sull'anima
ActionPaura. Incubi. Dolore. Questo è il mio nuovo mondo. Questo è quello che ho da offrire a chi mi sta intorno, insieme a macerie e distruzione. Nessuno troverebbe un'anima più nera e corrotta della mia. Macchiata e marchiata a fuoco dal destino. All'...