Capitolo 27

964 78 19
                                    


BLUE

Ci sono emozioni che ti raggiungono all'improvviso con la forza di una detonazione. Ti esplodono nel petto e ti bruciano dentro fino a raggiungere l'anima; fino a lasciare il loro marchio a fuoco nelle ossa rotte dalla vita.
Ha detto "mamma".
Ricaccio indietro la paura, ingoio le lacrime e il senso di stordimento che mi ha raggiunto sentendo quella minuscola voce chiamarmi, suggerendomi il suo amore.
Ha detto "mamma".
L'ha detto e io sono qui. Non ho perso neanche un secondo di quella felicità, per quanto effimera, che è riuscita a sopraffarmi.
In soli due giorni credo di avere accumulato talmente tanta di quella energia positiva che rischio di star male per un nonnulla. Pertanto, adesso, ho solo bisogno di un momento per riprendermi dallo tsunami che mi ha travolto.
Approfittando della scusa di andare a prendere la valigetta, mi nascondo in camera.
Una volta dentro, chiudo piano la porta e mi siedo sul bordo del letto.
Fuori è appena arrivato un temporale. Le gocce di pioggia picchiettano sulle vetrate a tutta altezza e il vento fa frusciare le foglie degli alberi al di sotto della struttura e intorno al quartiere. Osservo le nuvole in procinto di scontrarsi. Lampi e tuoni creano un fragore che agita il mio cuore a più non posso.
Con il viso tra le mani, scoppio a piangere. Mi libero della tensione fino a scaricarmi del tutto.
Non so quanto tempo sia passato, sono sul punto di raccogliere i miei pezzi e mostrarmi intera quando un movimento seguito da uno spiffero d'aria e dall'arrivo di una folata di profumo che potrei riconoscere tra miliardi di persone, perché ha a tutti gli effetti una nota personale, mi fanno voltare di scatto.
Non l'ho sentito arrivare, presa com'ero a piangere come una stupida sopraffatta dall'emozione e a lasciarmi abbagliare dal temporale.
Faron se ne sta appoggiato allo stipite della porta. Lo sguardo serio, con quegli occhi scuri, la barba di qualche giorno ordinata a incorniciargli il viso da principe tenebroso e i capelli un po' scompigliati, come se ci avesse affondato un paio di volte le dita, fregandosene della piega perfetta e ordinata che ha di solito.
Non è mai poco affascinante, mai trasandato; neanche quando indossa una tuta o una semplice maglietta a maniche corte invecchiata.
Mi asciugo le lacrime, tiro su con il naso e mi sollevo. Odio farmi vedere in questo stato. «Sono salita per prendere questa e...», mi trema la voce. Continua a stringere e a graffiare questo nodo che ho in gola. Deglutisco a fatica e lo ricaccio giù.
Faron si è già mosso e mi sta premendo quelle sue labbra morbide sulle mie.
Chiudo gli occhi lasciandomi avvolgere dal suo bacio che è come una scia di benzina infuocata e diretta verso il mio cuore, dal suo odore caldo al sandalo e dal suo corpo a sovrastarmi.
Faron reclama la mia bocca come se volesse spazzare via ogni traccia di dolore. Mi fa sentire protetta e non ha neanche bisogno di gesti eclatanti per dimostrarmi di poter essere un muro contro le intemperie.
«Non hai bisogno di lui», sussurra. «Sarò egoista ma... tu non hai bisogno di lui, Kelebek», afferma con impeto.
«Non sono triste perché mia figlia ti ha chiamato "papà", Far. Per quanto sia stato inaspettato, sono contenta che sia successo con te. Ti sei preso cura di lei e l'hai protetta anche quando negavi di volerlo fare», riprendo fiato, accorgendomi di parlare talmente in fretta da mangiarmi le parole. «Ero terrorizzata dal non esserci quando avrebbe pronunciato la sua prima parola, qualunque essa fosse. Perché da quando è nata ho sempre avuto il terrore di lasciarla sola. Insomma, il mio cuore potrebbe non reggere da un momento all'altro o potrei perire sotto la furia di un nemico che neanche conosco. Il mio primo pensiero è sempre stata lei. Era così piccola quando l'ho tenuta tra le mie braccia per la prima volta, ma ha avuto la forza necessaria a farmi andare avanti. Lei è stata il mio faro di speranza».
«Per questo sei salita con una scusa?»
Non c'è traccia di scherno nella sua domanda, per questa ragione voglio essere sincera con lui. «Avevo bisogno di scaricare la tensione e di non farmi vedere in questo stato. Di solito sono molto attenta a non mostrare più del necessario. Non voglio sembrare emotiva quando qualcuno ha bisogno di me».
Annuisce, come se capisse perfettamente quello che sto tentando di spiegare nel mio solito modo contorto.
«E io sono arrivato».
«E tu sei arrivato».
Strofina la punta del naso sul mio. «Stai un po' meglio? Hai ancora bisogno di qualche altro minuto?»
Inalo ancora un po' del suo profumo e annuisco. «Scendiamo».
«Pronta?»
Mi stringe la mano. Rimango sorpresa dal suo gesto, e continuo a esserlo mentre raggiungiamo gli altri al piano di sotto. Faron non si allontana da me quando entriamo nell'ufficio organizzato di Dante.
Tutti fissano il nostro gesto. Nessuno esprime commenti. È come se anche per loro fosse una sorpresa e al contempo una conferma sul nostro rapporto, su chi sia realmente Faron dietro quella maschera.
Adagio la valigetta sul tavolo lungo in legno dove sono già disposti computer e cartelline.
«So che non è molto, ma se è vero che ho qualcosa a che fare con questa storia, qui dentro deve pur esserci un indizio che potrebbe aiutarvi a trovare Nolan. In fondo me lo auguro», dico sfiorandomi la collana in un gesto che serve a sedare il mio nervosismo.
«Fai con calma», replica Dante, facendo spazio sulla superficie. «In ogni caso siamo sulla buona strada. Terrence sta facendo un lavoro straordinario con il tracciamento. Abbiamo anche catturato la maggior parte degli uomini invischiati in questa storia e molti hanno ceduto informazioni essenziali. Se i miei calcoli sono corretti e se il mio piano va a buon fine, presto metteremo un punto su questa storia», adagia sulla superficie tre cartelle. Le indica picchiettandoci sopra l'indice. «Questo è quello che mi hai chiesto. Come vuoi procedere?»
Fisso il codice numerico della valigetta e senza replicare, inserisco l'unica data che può aprirla: il giorno, il mese e l'anno in cui ho concepito mia figlia. La notte più importante della mia vita.
Tutti si sporgono quando sollevo il coperchio dal quale si sprigiona subito un odore dolce, di vaniglia e di fiori e ricordi; alcuni recenti.
Tiro fuori a uno a uno quei pezzi di me e li dispongo senza un ordine logico sulla superficie per mostrarglieli.
Un vecchio registratore con una cassetta. La mia monetina portafortuna contenuta in una minuscola bustina plastificata, delle polaroid. Le prime ecografie con la cartella medica, il primo test di gravidanza. Un dispositivo che suscita subito la curiosità dei presenti, insieme al registratore e alla cassetta, perché è molto simile a un minuscolo microfono senza fili. Poi ancora un cellulare che ha lo schermo distrutto, una copertina giallo pastello con un orsetto in camicia da notte, una scarpina, un origami a forma di farfalla e per finire, non meno importante, un blocco di appunti dove all'interno ci sono pagine scritte in molteplici lingue e codici numerici. Scuoto la valigetta e sul fondo, incastrata, vi è anche una maschera.
Non appena la tiro fuori sento un certo mormorio da parte di Eden e Dante. La prima si sta tappando la bocca con gli occhi spalancati e si volta dandomi le spalle, in parte per non farmi notare quando sia stupita o forse angosciata, non so dirlo.
Faron, invece, indietreggia come se fosse appena stato colpito a tradimento. Prende la monetina, la rigira tra i suoi grandi palmi, l'avvicina a una lampada per guardarla con attenzione e sembra impazzire.
Scrolla la testa, percorre da destra verso sinistra la zona libera, poi di nuovo e ancora una volta. Il tutto continuando a fissare la mia monetina da vicino e a parlare tra sé.
«Cosa succede?»
Lui dilata le narici nel sentire la mia voce. «Dove cazzo l'hai presa questa?», domanda sventolandola.
Spaventata dal suo improvviso malumore e dalla risposta aggressiva, non indietreggio, ma mi faccio così piccola che i presenti se ne accorgono. Almeno hanno la decenza di non intervenire e farmi sentire ancor più a disagio.
«Era con me la notte dell'incidente».
Le sue narici fremono e i suoi occhi si riempiono di qualcosa che non riesco a comprendere. Li chiude, impedendomi di vedere quello che gli sta succedendo, tenendomi fuori dai suoi pensieri.
Un attimo. È bastato questo a farlo allontanare da me. Ma perché?
Dante gli si avvicina ma lui scuote la testa. Stringe forte la monetina, lancia appena uno sguardo agli altri oggetti e afferra il quaderno, l'origami e la maschera. «Ho bisogno di un momento», ringhia con aria minacciosa allontanandosi. «Mostrale le cartelle», afferma busco.
Provo a seguirlo ma Dante mi ferma posandomi una mano sulla spalla e Eden mi si avvicina con Isobel e me la mette in braccio, perché ha capito che è quello di cui ho bisogno per superare la delusione.
«Potete darmi una spiegazione?»
Nessuno di loro parla, eppure sembrano tutti avere capito. Mentre io? Io ancora una volta sono l'unica a non sapere niente, a non riconoscere niente per poterli aiutare.
Scoppio in lacrime, agitandomi e sentendomi una completa idiota.
Mia figlia piange a sua volta, allarmata dal mio umore così repentinamente mutato. La cullo e riesco a farla calmare.
Coleman mi si avvicina, mi stringe in un breve abbraccio e prende Isobel. «La faccio addormentare. Tu devi calmarti o starai male».
La nostra interazione viene seguita da tutti i presenti in questa stanza soffocante. Nessuno di loro ha ancora aperto la bocca per dirmi cosa diavolo sta succedendo ma sono tutti in fremente attesa di qualcosa.
Isobel si aggrappa al suo petto, il pollice in bocca e gli occhi pieni di lacrime che si chiudono quando lui le accarezza la schiena baciandole la testa. Le canta persino una canzone.
«La sistemo sul divano così sarà qui a poca distanza da te, va bene?», domanda e c'è una nota tesa nella sua voce.
«Cole, dimmi che sta succedendo?»
Si volta verso gli altri. Con una sorta di ammonimento nella sua espressione di pietra replica: «Non sarò io a dirti la verità, Blue. Non passerò per il cattivo. Per una volta voglio essere l'amico sul quale poter contare».
«Ma tu hai capito? E vuoi tenermelo nascosto pur sapendo che nessuno di loro parlerà?»
Annuisce. «Penso che tu sia l'unica a non avere ancora ricordato niente. Per Faron, e mi dispiace dirlo perché non nutro un poi così grande affetto per lui, in questo momento deve essere dura. Si starà sentendo un pezzo di merda e in colpa».
In colpa per cosa? Vorrei urlare.
Il mio cuore sussulta. Quando seguo lo sguardo di tutti ci trovo la stessa espressione: compatimento.
«Ho fatto qualcosa di male a Faron?», chiedo con un filo di voce e le lacrime ancora sull'orlo del precipizio.
Eden mi raggiunge. «No, tesoro. Non hai ferito Faron. Lui... è rimasto sorpreso, tutto qua», farfuglia in difficoltà.
Come può essere tutto qua se hanno queste espressioni?
Rivolgo la mia attenzione su Dante. Lui sostiene il mio sguardo. Senza dire niente, apre la prima cartella facendola scivolare sotto il mio sguardo.
Non è la solita scheda. Sono foto, scatti di uomini seduti a un tavolo, impegnati a...
Un uomo ansioso, un altro intenzionato a portare avanti un incarico che gli frutterà parecchio denaro. Un bicchiere che si infrange.
Paura.
Paura.
Paura.
Allontano le foto fino a farle cadere sul pavimento. Scivolo su una sedia e affronto il contenuto dell'altra cartella.
Ho già visto questo volto.
I ricordi affiorano e traboccano come acqua che continua a zampillare su un vaso pieno fino all'orlo e posto sul bordo.
Hector Thorne.
Hector Thorne.
Hector Thorne.
Dalle labbra mi scappa un lamento. Tappo la bocca e mi tiro indietro facendo cadere la sedia. Mi guardo intorno sgomenta. Non vedo i loro volti, vedo il mio passato. E anche se c'è ancora un enorme buco pieno di domande, alcune risposte stanno riaffiorando e stanno germogliando con la loro potente stretta. Sono rampicanti e piene di spine che mi affondano nel cuore.
Cole viene subito a sorreggermi prima che le mie gambe cedano. Mi trascina sul divano, su di sé, e mi abbraccia.
Eden mi porge un bicchiere d'acqua.
«Blue, parlami».
«Quell'uomo, è mio zio», sussurro. «Ero arrabbiata con lui quella notte. Non riesco a ricordare il perché», dico agitata. «Dentro quel soggiorno... c'era...», deglutisco a fatica. Strizzo gli occhi per non indirizzarli verso l'altra foto, sul volto della donna. «C'era tanto sangue. C'erano...», non riesco più a parlare.
Cole mi accarezza la schiena. «Sssh, non devi affrontarlo proprio ora se non vuoi».
Mi aggrappo alla sua maglietta. «Un uomo mi aspettava, mi avevano attirata lì dentro con una chiamata da parte di... lei. La sua voce», singhiozzo. Indico il registratore. «L'ho portato con me mentre scappavo».
Dante si è già messo in moto. Afferrando il registratore e la cassetta, si sposta verso uno dei computer. Recupera il cellulare e fa partire una chiamata. «Terry, scendi!», riaggancia. Il suo è un ordine.
Pochi minuti dopo Terrence fa il suo ingresso, con delle occhiaie evidenti su quel viso sempre spensierato e dolce. Indossa anche lui una tuta.
«Perché mi hai svegliato? Qual è l'emergenza?», domanda confuso guardandosi intorno.
Dante gli indica il registratore. «Voglio che recuperi e ascolti questo nastro. Trascrivi tutto. E vedi se riesci a riesumare questo cellulare».
Terrence mi lancia un'occhiata, mi si avvicina. «Tutto bene? Dov'è Faron?»
Cole si irrigidisce. «Pensa a fare il tuo lavoro. Di Blue mi occupo io».
Dante guarda ancora gli oggetti disposti sulla superficie. Sta elaborando un piano.
«Va' da lui», mi consiglia. «Hai bisogno di allontanarti e non voglio che senti. Potrebbe farti star male».
Mi sollevo e con un'andatura claudicante esco dalla stanza andando alla ricerca di Faron.
Controllo in ogni singola stanza. Di lui non c'è traccia.
Mi sto per arrendere quando intravedo una figura seduta e assorta sotto la tettoia di uno dei balconi.
Il temporale si è allontanato, ma le temperature sono scese di netto.
Faron Blackwell è divorato dalla rabbia. Lui tenta di tenerla a bada, sedandola con qualche goccia di soddisfazione. Ma non è mai abbastanza. Non lo è. E rischia di accumularne troppa fino a farsi male.
«Ehi».
La mia voce flebile lo raggiunge e noto il cambiamento nella sua postura, nei suoi occhi foschi. È come se lo stessi tirando fuori da quel posto buio che rischia di inghiottirlo offrendogli un po' di sole.
«Non voglio parlare», mi avverte.
«Non ti va di dirmi proprio niente?», oso affrontarlo con calma.
«Non credo di essere in grado al momento».
I miei occhi volano dai suoi pugni chiusi agli occhi, le mie mani scattano e lo costringono a rilassare la presa. Lentamente, le nostre dita, si intrecciano.
«Allora se non ti dispiace starò qui, ascolterò il tuo silenzio».
Libera una mano dalla stretta per potermi avvolgere una coperta sulle spalle, e con un braccio intorno al fondoschiena mi avvicina a sé premendo le labbra sulla mia tempia.
«Meglio allora se ti copro, così non prendi freddo mentre ti godi il mio silenzio».
Restiamo così. Io, ad ascoltare il suo cuore. Lui, i miei sospiri.
A un tratto non riesco più a sostenere questa situazione. Unisco le mani in preghiera. «Far, so che sei arrabbiato. Ma ti scongiuro, non tenermi all'oscuro. Se sai qualcosa, aiutami. Sto brancolando nel buio e ho paura. Ho paura di aver fatto qualcosa di irreparabile o di avere commesso uno stupido errore. Ho paura di essere sola».
«Cosa ti fa pensare di essere tu quella che ha sbagliato?», chiede, abbassandomi le mani.
«Ho una lunga lista di azioni che lo dimostrano. Sono scappata».
Mi preme la guancia sulla tempia. «Eri piccola e spaventata, Blue».
«Avrei potuto fare di più», la mia voce diventa stridula. «Invece continuo a non avere tutti i ricordi per incastrarli tra loro. So solo che ero arrabbiata con lui e che se chiudo gli occhi potrei risentire frammenti del giorno dell'incidente. È tutto alla rinfusa».
Mi passa la monetina. Forse lo fa per distrarmi. «Ne avevo una identica».
La stringo nella mano. «Davvero?»
«Non so come tu l'abbia avuta ma credo sia proprio la mia».
«Oh...», sussulto e sfiorando i bordi vengo colpita da un flash della mia mano che l'afferra da un comodino. «Credo di essere stata io a prenderla. Non... è del tutto nitido il ricordo», gliela passo. «Penso sia giusto che torni al suo proprietario».
Mi indica il quaderno. «Quello è una sorta di diario. Sicura di volere che lo legga?»
Mi stringo nelle spalle. «Ho provato a tradurlo. Mi sono arresa dopo dei tentativi. Non ricordo di averlo scritto, anche se è chiaramente la mia scrittura. Ho sempre avuto il vizio di mettere le mie iniziali in posti nascosti nelle pagine», gliene indico alcune. Guardo poi la maschera. «Perché l'hai presa?»
«Mi ha ricordato una notte», afferma sfiorandone i contorni.
Inarco un sopracciglio. «Una notte bella o brutta?»
«È stata la notte in cui sono tornato a respirare. Forse il destino mi ha persino regalato qualcosa di unico».
Mi stringo nel suo abbraccio, tentando di non ingelosirmi. «Vuoi parlarne adesso?»
«No, non è il momento».
«Per te o per me?»
«Stavolta per entrambi. Fammi inquadrare meglio la situazione e poi ne riparliamo».
«Mi stai liquidando?», non riesco a nascondere il tono risentito.
«Sto solo provando a fare le cose bene una volta tanto».
Mi bacia la testa e quando sollevo il viso e gli sfioro le labbra lui non si tira indietro.
«Rientriamo, fa fresco».
Lo trattengo. «Mi dirai tutto?»
«Sì».
«Niente bugie o omissioni».
«Mi sembra giusto».
Mi trattiene sulla soglia della vetrata quando sono io a procedere. «Promettimi una cosa, Kelebek».
Mi sollevo sulle punte e mi prendo un bacio. «Non vado da nessuna parte».
Preme la fronte sulla mia. «E farai attenzione?»
Perché è come se ci stessimo dicendo addio?
Gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Promesso».
Le sue labbra si abbattono sulle mie talmente in fretta, che non ho il tempo di prendere anche solo un respiro. Il suo odore mi avvolge e lo sento giusto, così come sento adatto ogni muscolo del suo glorioso corpo a contatto con il mio.
Io e lui combaciamo. Siamo pezzi che si incastrano anche se il mondo è fatto di schegge alla rinfusa.
«Kelebek, un momento», blocca il mio polso avvicinandomi a sé. «Non sono bravo in tante cose, specie in situazioni in cui viene richiesto un certo sforzo emotivo», si schiarisce la gola, come se le parole non riuscissero a uscire perché qualcosa gli impedisce di farlo.
Stringe appena la presa sul mio polso, si abbassa e chiude per una manciata di secondi gli occhi. «Sto cercando di scusarmi con te, per prima. Non avrei mai dovuto reagire in quel modo, né alzare la voce».
Libero la mano e la adagio sul suo petto. Contemplo un punto imprecisato mentre il suo calore attira il mio corpo. Ed è così che comprendo e inizio ad avere paura.
Non ho mai avuto un posto perché non avevo ancora avuto modo di fermarmi e sentirmi a casa. Faron non è il mio centro, è il punto in cui mi sono fermata e ho smesso di voler scappare, di volermene andare.
Provo qualcosa di forte per lui.
«Rientriamo», gli dico con un filo di voce.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora