Capitolo 5

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BLUE

È difficile affrontare la vita quando ti senti perso, senza una speranza e una destinazione o un posto in cui poter stare a tuo agio, finalmente a casa.
Se non sei forte abbastanza da reagire, da rialzarti nonostante i lividi e le botte, il senso di impotenza rischia di divorarti, un pezzo per volta, fino a consumarti del tutto. Fino a ridurti a solo un misero brandello incapace di ricucirsi.
«Caffè? Magari le riscaldo altro latte per la bambina?»
Scrollo la testa alla domanda della donna che si è avvicinata al tavolo dove me ne sto seduta ormai da una quindicina di minuti. «No, siamo a posto così, la ringrazio», con diffidenza cerco di non fissarla troppo per non darle modo di continuare a sostare a poca distanza, e a osservarmi con la coda dell'occhio a ogni movimento neanche fossi sul punto di derubare qualcuno in pieno giorno.
Dopo essermi recata a una farmacia e aver comprato il latte alla bambina, perché il mio non è sufficiente, quando sono entrata in questa affollata tavola calda per chiedere se potessero riscaldarle il biberon già pronto, rendendomi conto che non lo avrebbero fatto senza prima aver effettuato un'ordinazione, ho contato gli ultimi dollari che avevo in tasca e li ho spesi per un misero muffin alla vaniglia; l'unico pasto che potessi pagarmi.
Imbarazzata, umiliata e con le lacrime agli occhi, abbasso la testa continuando a imboccare Isobel; ignara del dolore che mi provoca non poterle offrire di più.
Ma vedere ogni giorno nei suoi occhi la dolcezza e quel senso di appagamento che solo i neonati hanno, mi aiuta ad andare avanti. Perché è lei la mia unica ragione di vita. La mia cura alla solitudine. A quel vuoto che mi si è formato dentro e che non riesco più a colmare.
La cullo e le offro gli ultimi sorsi del latte, prima di sostituire la tettarella con il suo ciuccio.
Mentalmente sto calcolando tra quanto riuscirò a comprarle una culla e dei vestiti nuovi.
Isobel cresce a vista d'occhio. È una bambina sana di costituzione; la cosa che in parte temevo di più data la mia condizione di salute. Almeno questo tratto gliel'ho risparmiato e mi va bene così; anche se non saprà mai di aver ereditato molto da qualcun altro.
Asciugo la lacrima che sfugge al mio controllo e mordo appena il muffin, ma ricordando di non avere qualcosa da mettere sotto i denti per cena, seppur riluttante perché in questo modo dovrò attendere ancora molte ore, sopportando i crampi della fame durante il turno di lavoro, richiamo la donna.
Dal nostro arrivo abbiamo avuto molti sguardi puntati addosso. La cosa comincia a darmi sui nervi, specie perché alcuni dei clienti non se ne sono ancora andati e non hanno neanche ordinato del cibo. Sui loro tavoli ci sono infatti solo tazze di caffè e giornali arrotolati. Sembrano discutere tra loro, ma li sento i loro occhi scivolarmi con discrezione sulla pelle.
«Senta, può incartarmelo? Grazie», controllo la porta, quasi impaziente di trovarmi fuori.
«Certo. Arrivo fra un momento».
La donna prende il piattino con il muffin, si sposta in cucina e quando torna al mio tavolo, la busta che tiene in mano sembra pesare il doppio. Capisco in fretta perché e mi sento umiliata. È così evidente?
Cerco di mantenermi composta. «Oh, io non ho ordi...»
«Qualcuno ha pagato questo pranzo per lei, lo prenda», mi sorride affabile.
«Davvero?», la mia voce risulta un po' stridula e la sorpresa deve essere ben evidente dal mio volto. Schiarisco la gola con un colpetto di tosse, nascondendo la sorpresa e l'imbarazzo. «Potrebbe ringraziarlo da parte mia?»
«Certo. Le auguro una buona giornata e torni a trovarci».
Sta per tornare in cucina, ma a un tratto, come se stesse discorrendo con se stessa, ci ripensa, e tornando sui suoi passi si ferma a poca distanza da me. Pulisce le mani sul grembiule come se fosse nervosa. «Senta, so che non sono affari miei... il fatto è che so riconoscere una madre single quando ne vedo una. Io... lo sono stata e non ho potuto fare a meno di notare il suo impegno nel crescere la sua bambina. Ciò però non dovrebbe spingerla a mangiare poco o a trascurasi», si morde il labbro, continuando a storcere le dita che ora tiene in grembo, fino a farle sbiancare.
Avvampo. Non credevo di essermi trascurata così tanto. Quando mi guardo allo specchio nel mio minuscolo bagno, vedo la solita ragazza di sempre: minuta, pallida e sfinita. Ma quando esco, cerco quasi sempre di mascherare qualsiasi tipo di emozione. Oggi penso di non essere riuscita a farlo perché ho perso il mio primo lavoro. Quello come cassiera in un negozio di abbigliamento.
Mi trovavo davvero a mio agio lì dentro. Il figlio del proprietario però, nonché nuovo capo, spinto dalla libido, ha deciso di scaricarmi per la sua nuova fiamma, letteralmente una Barbie alla quale ha chiesto di accettare il posto dietro il bancone proprio di fronte alla sottoscritta. Inutile dire che sono uscita sconfitta, amareggiata e di pessimo umore da lì dentro, e senza neanche un: "Grazie per il lavoro che ha svolto per noi, signorina Thorne. Ci dispiace licenziarla senza preavviso".
Non posso neanche pretendere i soldi degli straordinari o fargli causa perché non ero ancora in regola. Quel bastardo ha continuato a tenermi in prova per mesi. Presumo siano stati i miei rifiuti continui a farlo agire in questo modo.
«Mi scusi, devo sembrarle disperata», replico controllando di aver preso tutto, portando una ciocca di capelli, sfuggita dalla presa del fermaglio, dietro l'orecchio. «Non è la mia giornata fortunata. Ho perso il lavoro e... mi scusi. Probabilmente non le interesserà conoscere i miei problemi», scrollo la testa e smetto di parlare veloce mangiandomi le parole. «Sto cercando di dirle che solitamente non sono così», mi indico un po' sulla difensiva.
La donna assottiglia le palpebre. Le lunghe ciglia coperte dal mascara sfarfallano appena. Deglutisce e indica la cucina. «Se ha bisogno, potrebbe lavorare qui. Si è giusto liberato un posto stamattina. Non offriamo un salario alto perché si tratta di un turno di poche ore, dalle nove alle undici di sera circa, da coprire tre volte a settimana. Penso che questo possa aiutarla in qualche modo e aiutare anche noi. È così difficile trovare qualcuno senza prima avere vagliato delle candidature. Sarà in compagnia di una collega e potrà tenere la bambina in una stanza di fianco alla cucina. Mi premurerò che sia sistemata per accoglierla», sorride. «Che ne dice? Potrebbe interessarle?»
La gola continua a stringersi e deglutisco a fatica tutta la saliva che mi si è accumulata in bocca. «Io... non so che dire», mi trema la voce e gli occhi cominciano a bruciare. «Quando posso iniziare?», un sorriso mi sfugge insieme a un singhiozzo che soffoco schiarendomi la gola.
«Anche da domani se per lei va bene».
Se non tenessi Isobel al petto, abbraccerei questa donna e bacerei i suoi piedi. Mi scuserei persino per aver dubitato di lei. «Sì», dico in parte stordita perché il lavoro non piomba mai così di colpo senza un colloquio o un attento esame sul giornale.
Qualcuno lassù ci sta aiutando e non posso gettare alle ortiche la possibilità.
Sophie, come leggo dal cartellino sulla divisa della donna di fronte a me, il mio nuovo capo, mi sorride e posa la sua mano curata, nonostante sia piena di segni dovuti al lavoro e all'età, sulla mia spalla. «Allora a domani. Nove di sera in punto», mi sorride.
«Grazie, davvero!»
«Ringrazia questa piccolina. Se non avesse avuto bisogno del latte riscaldato non avresti mai ammesso di avere bisogno di aiuto», cerca il mio nome.
«Mi chiamo Blue e mi dia pure del tu».
«Che bel nome. Blue, torna a casa e riposati. Il turno di domani ti metterà a dura prova. Solitamente il locale si affolla a quell'ora. Se puoi passa un po' prima per firmare dei documenti e ritirare la tua divisa».
Comprendo parte della sua preoccupazione, ma non posso di certo dirle, oltre all'intenzione di voler ricominciare a studiare, che per mantenerci svolgo circa due lavori, a volte anche tre al giorno. Molti dei quali sottopagati e in condizioni pessime o con orari disumani.
Non voglio che qualcuno si preoccupi per me, anche se non succede, dato che non ho nessuno. Mi importa solo che mia figlia stia bene e abbia tutto ciò che le serve.
«Lo farò», mento. «A domani. Ancora grazie per l'opportunità».
Isobel si agita un po' e la posiziono meglio sul marsupio girandola in modo tale che veda il mondo. Muove subito le piccole gambette e le braccia sotto la sua tuta a tenerla al caldo.
Sophie mi apre la porta. «Ciao Blue, ciao piccolina!», saluta la bambina la quale sorride e si sbrodola. Per fortuna ho un altro cambio nella borsa.
A una certa distanza dalla tavola calda, lontana da occhi indiscreti, mi concedo un breve momento di tristezza. Ma mi è utile a lasciare uscire tutta la rabbia per lo stronzo che mi ha licenziata.
Controllando l'ora e mi dirigo verso la lavanderia del signor Kim. Un uomo burbero, autoritario, con il mono ciglio che tiene appositamente dritto con il gel, il quale, oltre a odorare di pino silvestre, odia profondamente i ritardatari e chi non sa stirare bene tutto quello che arriva dai clienti ricchi più affezionati, e dall'hotel lussuoso di fronte al suo buco vintage con cui ha un contratto solido.
L'unica nota positiva è che posso tenermi Isobel nello stanzino in cui lavoro. Il signor Kim ha persino aggiunto in un angolo un cesto con dei morbidi cuscini tutto per lei; questo dopo essersi assicurato che la bambina non avrebbe in alcun modo interferito con il mio lavoro piangendo. Finora non è mai successo. Una fortuna.
Arrivo in orario, vado a cambiarmi nello spogliatoio in fondo al corridoio dalle pareti color verde vomito indossando la divisa, saluto le mie tre colleghe e con Isobel in braccio ci spostiamo nel nostro minuscolo cubo già pieno zeppo di tovaglie, lenzuola e asciugamani da lavare, stirare e rattoppare.
Adagio Isobel nella cesta. La culla improvvisata a lei sembra piacere. In breve, aiutata dal calore e dal vapore del ferro da stiro e dal rumore della lavatrice in azione si addormenta e per le cinque ore successive riesco a portare a termine il mio lavoro.
Il trillo della campanella segna la fine del turno alle diciannove e trenta spaccate. Adagio tutto sul carrello e riprendendo la bambina, adesso sveglia e affamata, prima vado a togliermi l'orribile divisa grigia, poi mi dirigo verso il bancone dove il signor Kim attende con una cartellina sottobraccio e delle buste bianche impilate l'una sull'altra, con i nostri salari giornalieri, appoggiate sul ripiano.
«Ottimo lavoro, Blue. Ecco a te», mi porge dapprima la cartellina per firmare.
Il signor Kim è un uomo furbo. Sa che in questo modo tutela se stesso, perché la firma apportata indica l'accettazione del pagamento, qualsiasi somma ci sia all'interno della busta, non la fine effettiva del turno che può variare dalle cinque alle otto ore; questo in base ai turni dovuti a vari fattori.
Sbircio dentro la busta non appena ce l'ho tra le mani, ma ho bisogno di contare tre volte le tre misere banconote, prima di rendermi conto di non essere stata pagata come avrei dovuto. Il problema è che non posso neanche protestare.
«Qualche problema?», domanda ghignando e leccandosi quelle labbra sottili e quasi sempre screpolate che al momento vorrei prendere a pugni.
«No, le auguro una buona serata signor Kim», e che i soldi che ruba a noi povere ragazze sfruttate per ore le possano prendere fuoco tra le mani.
Arrabbiata, infilo la busta nella borsa e mi dirigo fuori dalla lavanderia.
Si è fatto buio e per arrivare a casa mi tocca camminare a piedi per circa otto isolati. Non posso permettermi nessun mezzo e sgranchirmi un po' non mi dispiace; be', questo quando le temperature lo permettono e per strada non c'è nessuno.
Copro la bambina con la copertina e mi affretto a raggiungere il minuscolo appartamento che sono riuscita ad affittare dal signor Hudson, il quale ha accettato i pochi spiccoli che posso permettermi con i vari lavori, con l'unica condizione che gli pulisca l'appartamento almeno due volte a settimana, e gli cucini la cena ogni sera prima delle otto. Un buon compromesso che non potevo rifiutare, non se non volevo vivere sotto un ponte. A esser sincera non mi dispiace. A volte a inizio del mese finge di dimenticare la mensilità dell'affitto in una busta dentro la mia cassetta postale o mi fa trovare dietro la porta qualche regalo costoso per mia figlia. Lo fa quando nota che non abbiamo un granché con noi.
Il signor Hudson è un uomo attento ai dettagli e inizio ad affezionarmi ai suoi modi.
La bambina si agita. «Shhh, stiamo arrivando a casa, piccola. Resisti ancora un po'. Dopo aver cucinato la cena al signor Hudson, andremo a farci un bel bagnetto caldo, ti darò la pappa e poi finalmente dormiremo», le sfioro il nasino all'insù e la fossetta sulla guancia e lei finalmente mi sorride di riflesso. «Certo che giocheremo a farci le coccole. Ti strapazzer...».
«Bene bene, chi abbiamo qua?»
Il sangue mi si gela e per istinto stringo Isobel al petto mordendomi la lingua per impedirmi di urlare dalla paura e causarle qualche trauma.
Sollevo la testa rivolgendo cauta la mia attenzione alla figura comparsa nel vicolo che stavo attraversando in fretta proprio per non incappare in nessun teppista. Li conosco tutti e non hanno mai avuto brutte intenzioni. Sono sempre stati cordiali nei nostri confronti. Qualcuno si è persino assicurato che arrivassimo a casa sane e salve. Eccetto uno.
Di fronte a me c'è il peggiore. Crede di essere il protettore del quartiere. In realtà è solo un maniaco che riesce a derubare persino le vecchiette mentre camminano per strada per andare a messa. Ho sentito dire che ha costretto molte donne a fargli qualche servizio in uno dei vicoli vicini.
Scontroso e inetto, Dix, mi fissa con un sorrisetto sbilenco.
«Ehi», mantengo la calma. «Sai che non si dovrebbe mai apparire in questo modo? Qualcuno potrebbe spruzzarti in faccia dello spray al peperoncino o avere un'arma», butto lì le varie opzioni.
È già successo di incontrarci. So come trattare con lui. Ma stasera sembra piuttosto su di giri e non mi piace il sorrisetto che continua a mantenere sulle labbra. Non sono neanche sicura di avere con me qualcosa che possa fermarlo, nel caso in cui la situazione dovesse degenerare.
«Cosa hai nella borsa?», la indica, tenendo una matita tra due dita come se fosse una sigaretta.
Porta sempre dietro un taccuino dove annota le vendite e i pagamenti ricevuti. Lo scorgo nella tasca posteriore.
«Il cibo e i pannolini per la mia bambina. Te l'ho già detto, Dix, sono povera in canna. Pensi che vivrei qui altrimenti? Ti invito a cena quando posso, ma oggi mi hanno licenziata e non posso offrirti niente. A parte questo», gli porgo la busta con il pranzo che mi hanno offerto. «Devi solo riscaldarlo per qualche minuto».
Mi fissa con quell'aria da saputello gettando a terra il sacchetto dopo averlo strappato dalla mia presa. Con le mani ficcate nelle tasche dei jeans sdruciti, lecca il labbro inferiore. «È fine mese. Sai che non me la bevo più la storia della povera "ragazzina madre". Non accetto neanche una cena come pagamento. Voglio i miei soldi», afferma passando sopra la busta con i piedi. «O vuoi che chiami i miei amici per unirsi alla festa?»
Vorrei tanto arretrare, ma sarebbe come mettermi in fronte un bersaglio. E vorrei al contempo urlargli di avere più rispetto per il cibo e per le persone.
Mi guardo intorno. Siamo soli. Nessuno sta passeggiando, non ci sono ronde al momento. C'è solo lui a farmi paura, perché continua a fissarmi in un modo che mi fa salire la nausea. Ha escogitato tutto? Sapeva che saremmo passate di qui?
«Non sto mentendo, Dix. E hai appena fatto a pezzi la mia cena».
«Allora non ti costa niente farmi guardare cosa c'è nella tua borsa».
Inspiro lentamente. Mi ricordo di non dovermi agitare per il cuore e per non spaventare la bambina. «Vuoi davvero toccare il latte di mia figlia con quelle mani sporche di grasso?»
Qualcosa lo sta irritando. È irrequieto. Così, provo un altro approccio. «Qualcosa non va, Dix?»
Si riscuote dopo una breve esitazione. «Dammi quella borsa, zuccherino, e non ti farò male».
Affronto quelle iridi arrossate. «Non posso».
«Non... puoi», ripete le mie parole meditabondo.
All'improvviso, con uno scatto deciso, prova ad avventarsi su di me per raggiungere la borsa. Sollevo il pugno e lo colpisco sul mento riuscendo a scappare verso casa.
Sento la sua imprecazione alle mie spalle. «Sai cosa succede se ti prendo? Ti sbatto contro il primo muro di mattoni che trovo, ti scopo, poi mi occupo della tua bambina!»
La minaccia è sufficiente a farmi aumentare il passo. So che è un grosso rischio. Potrei non arrivare in tempo sulla rampa, aprire il portone e poi nascondermi in casa del signor Hudson. Di lui hanno tutti paura. Compreso Dix.
«Mi hai sentito? Ti ficcherò il cazzo in ogni buco possibile e poi...»
Vengo strattonata. Urlo e proteggo mia figlia con tutto il mio corpo.
Il manico della borsa si strappa e il contenuto rischia di volare in ogni dove.
Non mi arrendo. Con una spallata spingo Dix, e tenendo la borsetta sottobraccio, torno alla mia corsa.
«Lurida cagna! So quanto vali. Hai persino una taglia sulla testa. Credevi di poterti nascondere per sempre?»
Cosa significa?
La mia esitazione è sufficiente. Mi raggiunge, mi blocca per un polso, mi fa voltare con una certa forza e mi dà uno schiaffo abbastanza deciso da spaccarmi il labbro e crearmi un livido sulla guancia.
Lo fisso in cagnesco, pronta comunque a lottare nonostante sia a terra, con un dolore lancinante al fondoschiena a causa della caduta e Isobel incolume tra le mie braccia, seppur spaventata.
I miei occhi corrono lungo l'asfalto, si posano sulla borsa a pochi passi. «No», sussulto. «No, no, no», provo ad alzarmi e a raggiungerla ma Dix è più veloce.
«Cosa mi nascondevi, eh?», solleva la busta sbattendola sul palmo della mano. «Ecco! Ecco cosa!», mi fissa in modo brutale, come se volesse davvero mettere in atto le minacce che mi ha elencato durante l'inseguimento. «Non sono tanti... ma li inserirò come un acconto nel mio taccuino, zuccherino».
Isobel piange e provo a consolarla mentre tengo d'occhio i miei soldi, il suo cibo, i suoi pannolini e Dix, euforico per aver vinto.
«Ti prego, non farlo. È da tutto il giorno che lavoro per quei soldi».
«Adesso mi implori?», inarca un sopracciglio, intascando la busta. «Dovevi pensarci quando ti ho offerto la mia protezione, lurida puttanella. Ti sei messa contro l'uomo sbagliato. Adesso che so della taglia, penso proprio che ne approfitterò per tenerti buona, altrimenti ti venderò e incasserò tutto quel denaro in una volta. Vali un mucchio di quattrini per essere senza una famiglia».
«Quale taglia? Di cosa diavolo parli? Io non ho nessuna taglia sulla testa!», ribatto affannata. Il petto inizia a farmi male.
Lascia cadere la mia borsa a terra. «Hai ancora il coraggio di mentire? Adesso ti faccio vedere io», mi si avvicina, rapido. «Sai, penso proprio che mi prenderò un primo assaggio!»
Arretro tenendo al petto Isobel, pronta a ucciderlo a mani nude se solo osa sfiorarla. Riesce a farmi cadere con una spinta. A darmi un calcio, colpendo appena con la punta del suo stivale il mio fianco. Si inginocchia e mentre scalcio per allontanarlo, mi tira giù i pantaloni.
La sua mano però non mi raggiunge di nuovo per schiacciarmi a terra, toccarmi e violentarmi, perché il suo corpo dapprima viene sollevato per la nuca, poi stramazza come quello di una bambola di pezza sul fianco di un cassonetto. Un colpo ben assestato, un altro, uno scricchiolio orribile che si propaga come lo scoppio di un palloncino. Infine, solo un rantolo prima del silenzio.
Un uomo ha appena messo Dix al tappeto. Non riesco a vederlo in volto, percepisco una forte rabbia trattenuta a stento e ben visibile dalle sue spalle ampie e rigide. Quel ringhio fuoriuscito dalla sua bocca prima del colpo...
Scorgo solo qualcosa di pericoloso nella curva della mascella sfiorata dalla luce tremula del lampione. Quest'uomo emana un'aura carica di elettricità. È predatorio, proprio come uno di quegli animali che si nascondono fino al momento opportuno per attaccare. Hanno la pazienza e una forza tale da ridurre al minimo la possibilità di sfuggirgli e salvarsi.
«Stai bene?»
La mia testa scatta di lato, sollevo il viso percorrendo due gambe muscolose contenute in un paio di jeans cargo, fino a raggiungere i due occhioni grandi che mi fissano preoccupati. Con una mano protesa mi sta porgendo il suo aiuto.
Annuisco priva di voce di fronte al ragazzo che ha tanto l'aspetto di un militare. Non accetto l'aiuto e mi rialzo da sola riallacciando i pantaloni. Nel medesimo istante mi rendo conto che sono ben due gli uomini che si stanno occupando di Dix.
«È... morto?»
«Si sentirà un po' stordito quando si sveglierà. Avrà una brutta sorpresa ad attenderlo questo è certo», afferma rilassato, forse anche un po' divertito. «Non crucciarti per lui».
Il secondo tizio ha legato Dix come un salame e lo ha appena caricato in spalla neanche fosse fatto di piuma, mentre l'altro controlla ogni angolo con maniacale attenzione.
«Dove lo state portando?», balbetto quasi.
Sono nuovi nel quartiere? Hanno la minima idea dell'impatto delle loro azioni su tutta la zona? Domani sarà un delirio.
Osservo i loro indumenti e deduco di no. Indossano abiti costosi e non hanno l'aspetto dei teppisti che si aggirano qui intorno.
«In un posto dove non si approfitterà più di nessuna ragazza», afferma con aria cupa.
Rabbrividisco e recupero in fretta la borsetta, imprecando mentalmente per aver perso quel denaro e per il dolore che sento ruggire dal mio petto. Dovrò chiedere un prestito al signor Hudson e questo mi fa già sentire male al pensiero.
Nel vicolo si sentono dei passi, poi l'uomo che continua a guardarsi intorno torna con qualcosa in mano. Una busta bianca. Me la porge. «Questa dev'essere tua. Quel farabutto l'aveva infilata in mezzo alle mutande. Se pensava che ti avrebbe costretta a riottenerla come immagino, si sbagliava di grosso».
«Faremo in modo che non abbia più tanta voglia di toccare una donna».
«Grazie?», più che una risposta mi esce come una domanda.
Isobel singhiozza agitandosi. Il militare si abbassa a guardarla, piega la testa di lato, scruta con attenzione mia figlia e le sorride. Un sorriso gentile. Gli si arricciano gli angoli degli occhi. «È tutto okay, piccoletta. Tu e la tua mamma siete al sicuro ora».
Come se lo avesse capito, Isobel dapprima sbadiglia come un cucciolo di leone, poi gli sorride ed emette persino un verso stridulo protendendosi verso di lui.
Il ragazzo per poco non si scioglie ma è l'altro, a metri di distanza, appoggiato al SUV nero a richiamarlo all'ordine con un fischio e una sigaretta accesa tra le dita. «Non ho tutta la notte, cazzo», sbraita.
Il militare, raddrizza le spalle e mi tende la mano. «Terrence», si presenta.
Insicura gliela stringo. «Blue e lei è Isobel».
«Nigel», indica l'altro con gli occhiali e l'aria seria. «Quello appoggiato all'auto con il pepe nel culo invece è Faron».
«Grazie ancora per l'aiuto a tutti e tre», i miei occhi corrono verso il SUV, curiosi di vedere il viso dell'uomo dal nome particolare che ha impedito a Dix di farmi male. Ma è impossibile a causa della penombra.
Dal punto in cui mi trovo posso solo constatare che è alto e muscoloso. Molto elegante. Ancora una volta mi domando a quale zona della città appartengano questi sconosciuti.
Terrence mi scruta attentamente. «Vivi qui?»
«Ho ancora qualche isolato da percorrere». Controllo l'ora e mi accorgo di essere in ritardo di ben venti minuti, di avere dei minuscoli tagli sul palmo della mano e le maniche macchiate di sangue.
Il signor Hudson odia cenare dopo il suo programma preferito.
Merda.
«Possiamo darti uno strappo».
Nota nell'immediato la mia diffidenza. «Non abbiamo cattive intenzioni, Blue, e quel tizio se ne starà buono nel bagagliaio. In quanto a Faron, be', non morde».
«Non è necessario. Da qui penso di poter raggiungere casa senza problemi. Grazie ancora. Scusate ma devo proprio andare ora. Spero di incontrarvi per ringraziarvi come si deve».
Nigel prova a dire qualcosa ma sto già scappando da loro con una strana sensazione dentro, la quale mi tormenta fino all'appartamento del signor Hudson.
«Dove eri fi...», non appena mi vede, non commenta, spalanca la porta facendosi passare. Mi fa sedere su una sedia nella sala da pranzo, prende Isobel dal marsupio mettendola sul divano, circondandola di cuscini, e di seguito si occupa delle ferite che ho al labbro e alle mani andando a recuperare la ventiquattrore dal suo minuscolo ufficio.
Il signor Hudson è un medico affetto da un grave disturbo di rabbia repressa, per il divorzio con la moglie che ritiene ingrata e una traditrice seriale, che lo ha costretto a essere allontanato dall'ospedale e mandato in terapia. Mi racconta spesso le sue avventure nei reparti e i suoi casi più difficili. So che gli manca salvare vite, rendersi utile. È un po' come Dottor House.
«Te la sei vista brutta stasera, eh?», scuote la testa. «Te l'ho detto che questo non è un quartiere per una come te», sospira.
«Mi dispiace. Non sono riuscita a cucinarle le sue cosce di pollo fritte previste dal menu di oggi prima del programma».
Scrolla la mano. «Il programma oggi è stato un fiasco. Che ne dici se ordiniamo una pizza?»
Rimango sorpresa. Non ha cenato e mi stava aspettando? Oppure ancora una volta sta avendo pietà di me?
A volte sa proprio essere un altro uomo.
Prende il telefono e ordina direttamente dall'app della pizzeria italiana che si trova all'angolo della strada; una delle tante applicazioni che gli ho scaricato per momenti come questi o quando ha voglia di qualcosa di diverso.
Dopo avere chiesto il permesso, vado in bagno, cambio il pannolino a Isobel e mi sciacquo il viso e le braccia facendo attenzione ai due punti e al livido sul labbro.
Quando usciamo dal bagno, la pizza è appena arrivata e con mia enorme sorpresa ci sono ben due cartoni enormi sul ripiano della cucina, due confezioni di patatine fritte, bibite e persino un dolce.
Hudson si piazza sulla poltrona, sistema il tavolino pieghevole sulle ginocchia, una birra e la sua pizza alla diavola sopra ed è pronto. Recupera il telecomando e mi fa cenno di raggiungerlo. «Forza, mostriciattolo, abbiamo un gioco a quiz da vincere».
Con una mano intrattengo Isobel, impegnata a mettere in bocca il suo giochino di gomma e con l'altra apro il cartone, grata per il pasto che spero di poter ricambiare all'uomo che con il suo strano atteggiamento mi sta aiutando più di quanto lui possa sapere o immaginare. Con la mente però raggiungo un altro uomo, quello che mi ha salvata da Dix, colui che dopo aver fatto un gesto tanto importante non ha voluto i miei ringraziamenti e si è tenuto a debita distanza da me e mia figlia.
Chi era? Perché ha reagito in quel modo?

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Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora