Capitolo 19

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BLUE 

Non dovrebbe importarmi così tanto quello che è appena accaduto in giardino. Ogni singolo frammento di quegli istanti però mi si è appiccicato in testa come zucchero caramellato e non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione di impotenza che ho percepito prima di prendere in mano la situazione e agire.
Isobel piagnucola. Stanno iniziando a crescerle i denti e, ovviamente, non sa come altro dirmelo che sta soffrendo.
«Lo so, piccolina, lo so. Vedrai che passerà anche questa. Chiederò a Eden di frullarti una bella mela fresca. Che ne dici di provarla dopo? Abbiamo già capito che odi le carote. Anche se sono certa che un giorno le apprezzerai perché fanno bene».
Le cambio il pannolino, le faccio indossare un body con Stitch disegnato sopra e mi volto, pronta per raggiungere il piano di sotto e trovare un modo per andarmene.
Lo trovo appoggiato alla porta, le gambe incrociate, la testa lievemente inclinata come quella di un avvoltoio particolarmente incuriosito e gli occhi fissi su di me.
È stanco e lo nasconde. Sembra averlo fatto tante volte. Forse lo fa da una vita. Ma a me non sfuggono i dettagli: gli occhi cerchiati, le guance incavate e quel modo di ingobbirsi lievemente quando crede di non essere visto.
Vorrei poter alleviare questa sua stanchezza. Al contempo non voglio correre il rischio di risultare ridicola.
«Se sei qui per farmi notare che sono una madre single che a stento regge il ritmo, puoi anche risparmiare il fiato. Ne sono ben consapevole».
Le parole escono piccate dalla mia bocca e non c'è modo di fermarle. Il mio è un meccanismo di difesa.
«E per la cronaca, non sono stata violentata. Quando ho scoperto di essere incinta è stata una sorpresa, certo, non lo nego, ma è stata una mia scelta tenerla e l'ho fatto con convinzione. Avere una persona al mio fianco non è mai rientrato tra le mie priorità e sto bene così. Non ho bisogno di un uomo per prendermi cura di mia figlia».
In silenzio, si stacca dalla soglia e in poche falcate è davanti a me. Mi prende Isobel dalle braccia e la bambina si adagia comoda su di lui, con la testa contro il suo petto.
Si è cambiato. Indossa una maglietta nera a maniche corte e jeans scuri. I suoi capelli castani dai riflessi sabbia bagnata sono umidi, come se fosse appena uscito dalla doccia e non avesse avuto la possibilità di asciugarsi come si deve per potermi raggiungere.
Seppur illusorio, il pensiero mi regala una carezza sul petto; ancora scosso dal tumulto vissuto.
A dire il vero è anche come se non avesse fatto quasi a pezzi un altro uomo.
«Non sono qui per questo».
«Allora per cosa?», rilego i capelli per tenere le mani impegnate e non starmene lì a fissarlo, correndo il rischio di perdere il senno. «Per farmi sentire a disagio solo perché ho scherzato su certe cose che a te fanno male? Per la cronaca: non lo sapevo. Io non so niente sul tuo conto. Non puoi reagire in quel modo ogni volta che qualcuno dice qualcosa che a te non piace».
«Volevo accertarmi che stessi bene».
Isobel si lamenta con dei versetti, tenendo il dito in bocca. Lui la culla in modo del tutto naturale. Non si accorge nemmeno di averla sistemata nel suo modo preferito, né del modo protettivo con il quale fa attenzione a muoversi. Neanche fosse lui il reale problema.
«Non c'è ragione per cui tu debba preoccuparti».
«Ti sei ferita».
«Succede quando ci sono dei cocci rotti per terra e ci cadi accidentalmente sopra», minimizzo.
La sua testa si muove da destra verso sinistra in uno scatto. Quasi a voler scacciare un pensiero irruente. «No. Non dovrebbe. Non a causa mia», contrae un muscolo della mascella.
Sofferenza. In lui è così tanta da avvolgerlo quasi come un bozzo di nebbia, fitta e altamente velenosa. Se la trascina appresso, apparentemente senza sforzo. Ma è evidente la fatica, il dolore e quel vuoto che lo spingono a condurre un'esistenza fatta di rischio, priva di ogni minima certezza, e nella più totale solitudine.
Accanto a essa, c'è il senso di colpa che tenta invano di non provare e di non sfoderare mantenendo quell'aria un po' altezzosa.
«Hai chiarito con Ace?»
La rigidità delle sue spalle mi dà la sua risposta.
Mi avvicino e provo a riprendere Isobel. Non voglio che sia spinto dal bisogno di chiedere scusa.
Trattengo il fiato.
Non dovrebbe sfiorarmi con così tanta tenerezza, né spingere il mio cuore a un simile sforzo. Sentirlo battere così forte, mi provoca paura. Mi fa persino arrabbiare. Perché dovrei proteggere me stessa. Stare lontana da lui. Lui che non dovrebbe affatto piacermi, né attirarmi con quei suoi modi contrastanti che creano una gran confusione nella mia testa e nel mio stomaco.
Non dovrei permettergli un così grande potere su di me. Anche se in questo istante, non vorrei far altro che sostare ancora davanti a lui per poter vedere il modo in cui i suoi occhi mi si incidono addosso, sentire il tocco caldo delle sue dita, magari incatenarle tra le mie.
Invece, mi lascio toccare la guancia, il labbro inferiore. Mi lascio trascinare ancora dall'illusoria sensazione di essere nel posto giusto.
Ma come arriva, ben presto si afferma la dura verità. Quella che mi fa irrigidire.
«Non ti importa vero? Quello che provo... per te non conta», esclamo con voce un po' più stridula di quanto vorrei.
Una linea marcata si forma all'angolo della sua bocca. Quasi impreparato a questa mia reazione.
«Non starò al tuo gioco. Non inizieremo un'altra discussione. Sai bene quello che penso. L'ho chiarito anche prima di fronte a tutti».
Chissà per quale assurda ragione vorrei digrignare i denti e ribellarmi ancora. Mi sposto e mi volto dandogli le spalle per riuscire a recuperare un po' del respiro che mi ha tolto senza saperlo.
«Allora lasciami andare», dico con un filo di voce.
Occupa tutto lo spazio, spingendo il mio battito cardiaco verso un picco di instabilità.
La mia pelle prende a formicolare al passaggio delle sue dita che scivolano verso la mia nuca fino ad assicurarsi in una presa che manda segnali contrastanti al mio corpo, soprattutto alla ragione.
«No», replica semplicemente.
«N-no?»
I suoi polpastrelli premono e il mio corpo si avvicina al suo lasciandosi avvolgere dal calore e dall'odore che non andrà via neanche dopo essermi sfregata la pelle.
Apro e richiudo più volte la bocca, incapace di esprimere quello che sento. Poi però prendo coraggio, un breve respiro e adagio la mano sul suo braccio. Il contatto risveglia la mia pelle. «Ti sbagli sul tuo conto».
Inarca un sopracciglio e mi sorride mesto. «Non illuderti raccontandoti delle bugie, niente è in grado di togliere la macchia che ho dentro. La verità è che sono un'anima corrotta, sporca, piena di graffi. Sono un buco nero e se non vuoi precipitarci dentro, dovrai tenerti alla larga», scuote la testa, spostando la mia mano dal suo braccio per premerla forte contro il suo petto.
Sussulto e trattengo il fiato. Non ha ancora finito.
«Non sono un principe, Blue. Sono il cattivo della storia. Non esiste lieto fine per me».
Mi rifiuto di credere alle sue parole cariche di disprezzo verso se stesso. «I cattivi erano buoni un tempo. Chiunque ha il diritto a una seconda possibilità».
Lascia andare la mia mano, conducendo la sua verso la mia guancia. Con il pollice mi regala una carezza, mentre i suoi occhi creano un varco e altri brividi si insinuano sottopelle. «Sei così buona, Kelebek. Così ingenua. A un diavolo non è mai concesso il paradiso».
Gli afferro il polso. «Allora morirò di speranza all'inferno, perché mi rifiuto di credere che tu possa arrenderti tanto facilmente».
La sua espressione muta. I suoi occhi si fanno vacui e le labbra si stringono in una linea dura. Abbassa il viso, mi bacia una guancia, poi mi volta le spalle e si allontana dicendo: «Non mi sono arreso. Sono solo sceso a patti e sto pagando per i miei errori». Di seguito, indica mia figlia. «Penso io a lei. Sono sicuro che abbiamo qualcosa di fresco da dare a questa scimmietta per non farle sentire dolore alle gengive e che le piaccia. Ti aspettiamo di sotto, Kelebek».
Fisso le sue spalle fino a quando non scompare dalla stanza. Allora cado giù, in ginocchio e mi abbraccio.
Rimango così per qualche minuto, a pensare che è assurdo e impossibile essere attratta da due persone diverse. Due uomini che hanno poche cose in comune e tante ombre da scacciare.
Sentendo dei passi lungo il corridoio, mi ricompongo e attendo.
Ace entra in punta di piedi dentro la stanza. Mi si avvicina cauto, si inginocchia davanti a me e infine mi avvolge in un breve abbraccio.
«Potevi farti molto male».
«Non è successo. Andiamo avanti?»
Mi agguanta una guancia. «Solo se mi perdoni».
Se solo fosse così facile, come premere un dannato pulsante e fingere che niente abbia scalfito il tuo cuore.
«Lo farò quando avrai chiarito con Faron e smesso di stuzzicarlo».
Storce il labbro, riluttante al pensiero. «Al momento non è un qualcosa di fattibile, piccola Blue».
Premo i palmi contro il suo petto.
Anche lui deve essersi fatto una doccia. Provo a non farmi abbindolare dal suo odore o da altri dettagli. «Perché? Ace, quello che avete fatto è stato sconsiderato e orribile».
«Prima bisogna risolvere altre questioni più urgenti».
«Quali?»
«Non sarò io a rivelartele. A tal proposito, dovremmo scendere. Sono salito anche per questo. Dopo quello che è appena successo, Dante è più che pronto a parlare con te e a renderti partecipe della situazione».
«Avrebbe dovuto farlo sin dal principio», replico aspramente e con del risentimento.
Pur essendo delusa dalle evasive risposte di Ace, provo ad andare. Lui mi ferma circondando un braccio intorno al mio addome, mi fa indietreggiare contro il suo petto, poi mi volta per avvolgermi in un altro abbraccio.
«Non succederà più».
«Potrei segnalarti alle risorse umane. Chissà cosa direbbero le arpie quando uscirà allo scoperto la verità», lancio la battuta per smorzare la tensione.
Le sue spalle si abbassano, continua a tenermi a sé. «Qui non siamo al lavoro».
Un miscuglio di sensazioni si dibattono dentro di me.
Premo le mani sulla sua schiena, mentre la guancia mi affonda sul suo petto ampio.
«Ace?»
«Sì?»
«Non voglio che mia figlia viva con la costante paura di poter assistere a cose del genere».
Il pensiero che possa vivere in mezzo a simili minacce, mi spaventa.
Inspira di scatto. L'espressione come quella di chi ha ricevuto un pugno all'improvviso. «Non lo permetteremo».
«Non puoi prometterlo».
«Non posso nemmeno non provarci», solleva la mano fasciata. «Questo è stato un monito».
Gli sfioro le dita. «È stato stupido da parte tua».
«Faron è una bomba a orologeria. Il suo dolore sarà la nostra condanna. Ho solo fatto in modo che quel mostro uscisse prima di provocargli ulteriori danni». 
«Be', la prossima volta assicurati che quel mostro non abbia voglia di farti a pezzi», replico, nascondendo l'ammirazione.
L'angolo del labbro gli si solleva. Abbassa la testa e io mi ritrovo ad alzare la mia. Sento il suo fiato caldo sulle mie labbra e le schiudo, mentre il tum tum frenetico del mio cuore si fa insistente.
Ace chiude gli occhi tenendo la fronte sulla mia prima di scostarsi per premerci un bacio. «Dimmi che non ho perso una possibilità», mormora perentorio.
«Il tuo punteggio si è abbassato».
«Farò in modo di recuperare quei punti».
Mi piace la sua sicurezza.
I suoi pollici mi sfiorano le guance. Mi avvicina a sé e i nostri corpi si sfiorano.
Freme e quando penso che stia per baciarmi, si tira indietro, lasciandomi addosso un retrogusto dolce e al contempo amaro.
«Nel frattempo non cacciarti nei guai».
Mi lascia sola.
Sospiro appoggiandomi alla parete più vicina per non permettere alle mie ginocchia di cedere. Massaggio il petto e mi ricompongo per raggiungere tutti gli altri.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora