BLUEPer quanto puoi tentare di essere forte, inattaccabile, di fronte al peso di certi sentimenti non puoi che arrenderti. Succede all'improvviso. Non puoi sottrarti. Non puoi neanche calcolare il modo in cui ogni cosa cambia ai tuoi occhi, mentre la realtà ti piomba addosso con il suo peso.
Sono stata stupida. Ho abbassato troppo le difese. Nel profondo so che è sbagliato volere di più. Lo so. Ma... voglio lui.
Lo voglio a tal punto da non volere nient'altro per punizione. Lo voglio e non so come dirglielo, come affrontare quell'enorme muro di cemento armato fatto di pericolo, risentimento e distacco a dividerci.
Sto provando uno strano senso di pericolo. Sospesa sull'orlo di un precipizio, con un vuoto alla pancia che si diffonde simile a una fitta spiacevole su tutto il corpo. Al contempo, questa sensazione viene sostituita da qualcos'altro. Un calore dolce mi attraversa le membra abbandonate su un materasso comodo, tra lenzuola di seta.
Le mie gambe si allungano, apro le palpebre. C'è qualcosa a impedirmi di vedere bene dove mi trovo.
È una maschera quella che porto?
Sfioro i contorni per averne una conferma e corrugo la fronte. Che strano. Non ricordo di averne indossata una nel corso della serata passata con Ace.
Un movimento attira la mia attenzione e la sensazione di prima ritorna più come una valanga spaventosa e distruttiva.
C'è un uomo sdraiato prono accanto a me. Mi circonda la vita con un braccio.
Anche lui indossa una maschera scura. Non è Ace. Riconoscerei il suo corpo. Questo è più massiccio e...
Mi avvicino per sedare la curiosità e il lieve sentore di paura che rischia di attanagliarmi. Esito e protendendo la mano sfioro il bordo di seta prima di sollevarlo.
Balzo indietro, incredula. Per poco non cado dal letto. Raggiungo la porta, la apro distratta per poter uscire in fretta e senza fare rumore.
Mi ritrovo in un corridoio. È buio e silenzioso. Non è quello della villa in cui sono ospite. C'è un odore strano nell'aria. Qualcosa di ferroso che si mescola alla polvere e ad altro di stantio. Non riesco a coglierne le sfumature precise, perché prima che possa cercare un indizio del luogo in cui mi trovo, vengo afferrata.
Per istinto porto la mano verso il grembo. Raggelo nel sentire il rigonfiamento e reagisco. Incespico e riesco a fermare l'uomo nascosto dal passamontagna che mi ha appena attaccata.
L'istinto mi dice di andare avanti. Se in un primo momento muovo un solo passo verso quella direzione, in seguito mi rifiuto e scappo. Scendo in fretta una rampa di scale e raggiungo un'auto sgangherata.
Le mie mani tremolanti aprono la portiera, entro nell'abitacolo chiedendo scusa al proprietario e mi ritrovo a guidare per delle strade che non conosco. A un certo punto ho il telefono in mano ma non ricordo di averlo preso per contattare qualcuno. Una fitta al basso ventre mi fa urlare di dolore. Abbasso lo sguardo e con sgomento fisso la macchia di sangue che si espande. La mia priorità non è più scappare, diventa il bambino che ho in grembo.
Ferma a un incrocio attendo il verde. Quando scatta premo sull'acceleratore. Due fari, un clacson che suona, una frenata e un boato assordante.
Poi il buio.
Mi risveglio sgomenta, coperta da un sudore freddo che raggiunge le mie ossa mentre la poca luce dell'alba attraversa le tapparelle. C'è un lungo attimo, direi quasi interminabile, in cui non riesco a riordinare i pensieri, a capire se sto ancora sognando, se riuscirò a recuperare il fiato che sembra essermisi impigliato nei polmoni. So dove sono, non è casa mia. Io non ne ho una.
Il cuore continua a martellarmi nel petto, ma dopo appena pochi secondi in cui i miei occhi si adattano e ispezionano la camera in cui mi trovo, come artigli che si ritirano, la paura scivola lentamente in un minuscolo angolo.
Passo il palmo sulla nuca, raccolgo i capelli sfuggiti alla presa dell'elastico e prendo un lungo respiro.
Piano, le mie pulsazioni ritornano alla normalità. Ed è quello che mi serve per scostare il lenzuolo, appoggiare i piedi sul pavimento e alzarmi.
Raggiungo in fretta la culla della mia bambina, controllo che stia bene.
Avvertendo una forte nausea, corro in bagno.
Trascinandomi di fronte allo specchio, posto al di sopra del lavandino, dopo aver vomitato un liquido disgustoso color melma, mi osservo. «Non avresti dovuto bere così tanto», rimprovero me stessa sciacquandomi i polsi e il viso. «Ecco cosa succede». Recupero lo spazzolino dal bicchiere e mi lavo i denti.
Sentendomi meno tesa, con il baby-monitor dietro, scendo al piano di sotto.
In cucina trovo Ace. Se ne sta seduto su uno sgabello, con i gomiti sul ripiano e la testa tra le mani.
Si muove appena per controllare, quando avverte la mia presenza, abbassa le braccia e dopo averle incrociate vi appoggia il mento.
«Hai un aspetto orribile».
«Disse la ragazza con i postumi».
Sorrido. Prendo due tazze e le riempio di caffè passandogliene subito una. «Non hai tutti i torti. Stai male?»
«Ho solo avuto qualche pensiero per la testa».
Bevo un sorso di caffè. La miscela amara mi aiuta a svegliarmi. Ne prendo un altro prima di abbandonare la tazza sul ripiano per preparare dei pancake a entrambi.
Ace segue i miei movimenti. Non gli è sfuggito il fatto che abbia rinunciato al caffè. Per fortuna non ha posto nessuna domanda.
«Spero nulla di grave».
«E tu? Come mai sei sveglia a quest'ora?»
Rigiro i pancake. «Ho avuto un incubo».
Solleva la testa. «Vuoi parlarne?»
«Niente che non si possa risolvere con una colazione a base di zuccheri», gli porgo il piatto, prendendo posto accanto a lui. Azzanno subito i pancake, leccando deliziata lo sciroppo d'acero dalla forchetta.
«Grazie», dice tra un boccone e l'altro.
«È il minimo che io possa fare».
Sta già negando. «Non è stato un dovere», replica.
Gioco con le briciole nel piatto. «Davvero?», mi ritrovo a chiedere con scetticismo.
Allontana il piatto vuoto e mi prende entrambe le mani. Tenendole tra le sue, mi guarda negli occhi, cercando un contatto in grado di trasmettermi quanto sia serio e sincero.
«Mi sono divertito. Non lo facevo da tanto e... tu mi hai fatto bene, Blue».
Le sue parole fanno strizzare il mio cuore. Vengo colpita, e so che dovrei dire qualcosa, ma non riesco a togliermi dalla mente il modo in cui mentre stavo con lui i miei occhi si spostavano costantemente altrove per cercare qualcun altro.
Non sarebbe giusto, mi suggerisce la vocina dentro la mia testa. Per una volta sono d'accordo.
Stringo le sue dita. «Ma non sono quello che cerchi o che meriti», spezzo il contatto scivolando giù dallo sgabello. C'è un po' di amarezza nel mio tono, per quanto sia una triste e crudele verità che con il tempo imparerò ad accettare.
«Lo dice la tua testa o il tuo cuore?»
Tolgo i piatti cominciando a lavarli per tenere le mani impegnate. Ace si sposta al mio fianco e mi aiuta, in attesa di una mia risposta.
«Non lo so», ammetto. «Non voglio ferirti in ogni caso e non voglio star male quando ti accorgerai che non vado bene perché non... appartengo a tutto questo».
«Nessun rancore», mi sorride dandomi una lieve spallata. «Ho riflettuto su questo mentre me ne stavo qui», confessa.
Sento la pelle sulle guance prendere fuoco. «Mi dispiace».
«Non preoccuparti. Ci sarò sempre per te», promette, e so che le sue non saranno mai parole dettate dalla foga del momento. Gli credo e lo abbraccio lasciando gocciolare ovunque il sapone.
Ce ne freghiamo entrambi continuando a tenerci stretti l'un l'altra.
«Ti amo, lo sai?»
Sollevo il viso e rido insieme a lui, intuendo il suo sarcasmo, spingendolo. «Che cretino! Dovevi almeno inginocchiarti».
Qualcuno si schiarisce la gola e ci voltiamo entrambi verso la fonte del rumore.
Ogni fibra del mio corpo si tende. Ace lo percepisce e mi stringe ancora di più a sé.
«Non pensavo foste svegli a quest'ora, piccioncini», esclama Cole con un ampio sorriso.
Ad avermi freddata sul posto non è stato di certo Cole, ci sono altri occhi e uno sguardo talmente freddo da farmelo percepire su ogni centimetro di pelle.
«Ehi», saluto sciogliendo l'abbraccio da Ace. Adagio la spugna sul bordo del lavandino e dopo essermi asciugata le mani raggiungo Cole, lo abbraccio.
«È stato esilarante», mi sussurra all'orecchio.
«Me ne rendo conto», affermo con imbarazzo. «Comunque, che ci fai qui?»
«Hanno deciso di tenermi sotto sorveglianza tutti insieme», si limita a spiegare con una scrollata di spalle. «Inoltre, pensavo di poterti aiutare».
«Certo. Ma ti avviso, posiziona anche solo una cartella nel posto sbagliato o mettiti a discutere sui miei metodi e ti butto fuori a calci nel culo».
Cole mi sfida con quei suoi occhi furbi mentre continua a sorridere. Strofinandosi le mani gira intorno al bancone e comincia a raccogliere gli snack. «Direi che sono pronto, hai bisogno di un attimo con il tuo uomo per scambiarvi qualche altra parola melensa o possiamo andare?»
Lo spingo e lui ridacchia. «Cammina!», gli ordino. Guardo Ace. «Tornerò in ospedale. Oggi avviserò il direttore».
Si mantiene a distanza da Faron, il quale a sua volta non ha smesso di controllare Cole.
«Bene, organizzo qualcosa per stasera? Ti va?»
«Fantastico, mi piacerebbe unirmi a voi», replica in fretta Cole, inserendosi nella nostra conversazione con un certo entusiasmo. «Magari Faron può...»
«Scordalo», lo supera quest'ultimo portandosi dietro la mia tazza piena di caffè. «E ricordati che ti tengo d'occhio», ringhia minaccioso uscendo dalla stanza.
Nel suo tono era implicito il messaggio.
Cole stringe ancora al petto gli snack. «Volevo solo passare una serata diversa. Mi annoio terribilmente».
«Puoi venire con noi», accetta Ace.
Cole sembra stupito ma non commenta e si limita a uscire anche lui dalla stanza.
«È stato...»
«Non succederà più», dice con fermezza, Ace. «Passo a prendervi per cena».
Rimasta sola, non mi resta che prendere un profondo respiro, controllare Isobel e mettermi al lavoro.
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Brutal - Come graffio sull'anima
AcciónPaura. Incubi. Dolore. Questo è il mio nuovo mondo. Questo è quello che ho da offrire a chi mi sta intorno, insieme a macerie e distruzione. Nessuno troverebbe un'anima più nera e corrotta della mia. Macchiata e marchiata a fuoco dal destino. All'...