Capitolo 30

1K 82 14
                                    


FARON

La vita è bizzarra. Passi anni a contenere il dolore poi un giorno qualcuno ti entra dentro e te ne libera facendoti sentire nudo. E allora, allora non ti resta che ricominciare a vivere. Anche se ti fa paura. Anche se non sai come fare.
Le ho dato il potere di prendersi tutto da me senza lasciarmi nessun pezzo. Avevo il terrore che avrebbe fatto ogni cosa senza delicatezza, che avrebbe riaperto vecchie e profonde cicatrici. Non avevo considerato l'amore che avrebbe fatto entrare fino agli angoli silenziosi e bui della mia anima in tormento.
Non ricadere in una nebbia di rabbia e disperazione è la mia priorità mentre guido come un pazzo in direzione del posto in cui so che hanno portato le mie ragazze.
La verità mi è piombata addosso con tutto il suo peso consistente e le paranoie hanno preso il sopravvento lasciandomi inerme.
Non c'ero. Non c'ero quando ha scoperto di essere incinta. Non c'ero quando ha fatto la prima ecografia o quando ha conosciuto il sesso del bambino e ha scelto il nome. Non c'ero quando è nata Isobel. Non c'ero quando hanno cercato di fargli del male.
Il senso di colpa grava sul mio petto con la sua lama appuntita e intrisa di veleno.
Se penso a quello che le hanno fatto, mi sento morire. L'hanno privata di una vita senza lividi e paura. Le hanno negato l'amore, insegnandole a scappare. Li odio tutti e per questo dovranno soffrire.
La rabbia che mi striscia dentro con il suo veleno non mi è del tutto conosciuta. Qualcosa sta per scatenarsi e non ho nessuna intenzione di placare la bestia assetata di sangue.
Ci sarò da adesso. Prometto a me stesso.
«Mi spieghi come fai a saperlo?», chiede ancora una volta mio fratello, allarmato dal mio improvviso silenzio. Sa che sto meditando e che non dovrebbe darmi la possibilità di scattare. Dovrebbe fermarmi quando sono ancora in tempo.
«Si è tradito. L'ultimo magazzino lo abbiamo fatto saltare in aria e il posto più vicino in cui avrebbero potuto portarle in così poco tempo non si trova poi così distante. I luoghi in cui non abbiamo ancora messo le mani sono pochi. Devo ricordarti che l'ultima volta hai letteralmente fatto terra bruciata intorno a te?»
Dante non riesce a ribattere in un primo momento perché non ammetterà mai che il mio ragionamento non fa una piega. È abituato ad avere ragione e io gliel'ho sempre lasciato credere. Un po' come ho lasciato credere a tutti di avere un problema con l'alcol, quando in realtà ero precipitato in un disturbo da stress post-traumatico in cui l'unica via d'uscita mi veniva data proprio dall'effetto dei fiumi dell'alcol e del fumo.
Non vado fiero del mio atteggiamento durante ogni crisi. Ma se tutti hanno dato la colpa al mio essere poco sobrio penso sia dovuto proprio al fatto che ho sempre nascosto quello che realmente mi stava succedendo. Non me ne vergognavo, eppure ho dovuto lottare per uscirne. L'ho fatto anche grazie a lei.
Il giorno in cui mi ha preso per ubriacone, mi sono sentito afferrato e stretto in una tale morsa di dolore da uscirne a pezzi. Perché lei in qualche modo ha visto da cosa era provocato ogni mio malessere. Mi ha visto dentro e non ha voluto cambiarmi. Mi ha solo stretto la mano e mi ha portato lontano da ciò che mi stava corrodendo.
«Come cazzo fai a ricordare ogni posto», brontola irrequieto. «E Nolan? Hai capito dove lo tengono?»
Stringo le dita intorno al volante. Le nocche iniziano a sbiancare. Pensare a lui in questo momento è come lasciarsi infettare.
«Lui starà bene. Se la caverà. Parsival non si sarebbe neanche preso il disturbo di inseguire chi ha ottenuto le prove se lo avesse freddato. Non riesco ancora a capire perché trattenerlo tanto a lungo. Ci deve essere una spiegazione che non sia una menzogna usata per alimentare la rabbia».
«Ho pensato anch'io la stessa cosa. Ma finché non riusciremo a trovarlo, non lo sapremo. È probabile che Nolan sappia qualcosa».
Non lo contraddico. Non oso neppure assentire che nostro fratello potrebbe essere passato dal lato sbagliato. Perché ho imparato che tutto è possibile. Che non ci sono sempre vincitori o vinti. A volte pugnalare qualcuno alle spalle è l'unica salvezza in una guerra dove si tenta di sopravvivere. Nolan potrebbe essersi sentito abbandonato.
Riceve un messaggio. «È Terrence», mi fa presente continuando a scorrere la chat. «Dice che hanno inviato un'altra richiesta e che...», si blocca facendo scattare i suoi occhi verdi da me alla strada e poi di nuovo sullo schermo. «Se voglio far tornare a casa Eden e la bambina sane e salve devo portargli quello che abbiamo. Terrence pensa sia assurdo e fin troppo facile. Cole sostiene che sia un'altra trappola perché non viene menzionata Blue».
Freno e per fortuna non c'è nessuno al momento a segnalarmi di avere fatto una manovra sbagliata o di non avere avvisato il conducente alle spalle.
«Può davvero essere una trappola», afferma di seguito, prima che possa farlo io. «Terrence è riuscito a rintracciare gli uomini che ci hanno contattato. Si stanno dirigendo su un furgone verso il molo. Che cosa facciamo?»
Impreco e il gelo mi si insinua nelle vene. «Blue è rimasta da sola».
«Possiamo...»
«Devi andare al molo e portare in salvo la... la mia bambina e Eden. Io vado a riprendermi Blue», dico con poca convinzione adesso che so che lei è in pericolo e che avrà di sicuro tentato di salvare mia cognata e Isobel mettendo a rischio la propria vita. È nella sua indole immolarsi per il bene altrui.
Dante esita ancora, i pollici sopra lo schermo del cellulare. «Far, non ti mando lì da solo. Potrebbero aver escogitato il piano proprio per arrivare a questo. Hanno già ucciso nostro padre. E se facessero lo stesso anche con te?»
«Blue ha la chiave, quegli uomini no. Nessuno a parte noi lo sa. Hector non le farà del male. Ha bisogno di sapere dove tiene le prove. La riporterò a casa costi quel che costi, Di. Adesso corri dalla mia bambina. Se solo le hanno fatto qualcosa...», il pensiero arde viva ogni traccia di razionalità.
«Gliela farò pagare. Inviami la tua posizione quando sarai arrivato. A scambio avvenuto ti manderò subito la squadra».
Non so quale sia il suo piano per riuscire a fottere quegli uomini. Ma andrà bene perché lo conosco e so che non tornerà a casa senza di loro.
Annuisco e lo lascio nelle vicinanze del molo, non poi così distante dal locale in cui mi sto per dirigere.
Man mano che mi avvicino al vecchio posto che ho visto una sola volta in vita mia e per umiliare la donna che mi ha venduto, una strana sensazione mi si forma alla bocca dello stomaco.
Perché portare Blue proprio qui?
Scendo dall'auto e nascondendo le armi mi dirigo verso il retro del vecchio locale. Il tutto dopo aver inviato, come promesso, la mia posizione a mio fratello.
So che ci vorrà un po' prima che possano arrivare, ma farò il possibile per resistere.
La zona non è poi così abitata. Le finestre delle case intorno sono piene di buchi, usate da gruppi e piccoli clan per divertirsi. Un tempo però questo posto non puzzava di immondizia e piscio stantio, era vivo, i turisti brulicavano per un po' di spettacolo a basso prezzo e dell'alcol di qualità.
Mi acquatto dietro un muretto mentre la porta sgangherata si spalanca ed esce qualcuno. Un uomo, armato, sta parlando al cellulare mentre cammina avanti e indietro con fare annoiato.
È alto, ha i capelli brizzolati corti e il naso con una leggera gobba, probabilmente dovuta a una rottura avvenuta in passato.
Non si accorge di me. Continua a parlare.
«Sì, signore. È tutto pronto. Quando vedranno le fiamme accorreranno».
Fiamme?
Un altro campanello d'allarme risuona dentro di me e la voce interiore mi suggerisce di smettere di essere cauto e di agire.
Ed è quello che faccio.
Punto la pistola e avanzo mentre mi dà le spalle.
«Ho fatto quello che mi ha chiesto. Se ne starà buona e assisterà a tutto senza riuscire a muoversi», ridacchia. «Tra meno di un'ora le somministrerò la seconda dose, signore. E se lui arriverà prima dello spettacolo me ne occuperò», si volta e sbianca.
Le mie narici si dilatano. Tolgo la sicura e gli sparo. Il proiettile sibila senza fare rumore e l'uomo si accascia a terra con un tonfo mentre dall'altro lato della cornetta sento qualcun altro chiedergli cosa sia successo.
Afferro il cellulare portandolo all'orecchio.
«Cos'è stato?»
La voce è la stessa che ho riascoltato un paio di volte grazie a brevi registrazioni.
«Il rumore della morte che sta venendo a prenderti», replico riagganciando.
Dalla porta escono due uomini, ignari del loro compagno a terra e impegnati in una discussione.
Freddo il primo senza tante cerimonie, mentre il secondo mi dà del filo da torcere.
Lottiamo e finiamo a terra. Gli sottraggo la pistola, dopo aver incassato un paio di pugni in faccia, e gli sparo in fronte.
Il rumore attira altre guardie, le quali sembrano essersi posizionate all'interno del locale, in attesa.
In breve vengo circondato.
Ghigno e gli uomini che ho davanti esitano di fronte a questa mia reazione. Specie quando faccio schioccare le ossa del collo.
Sono abituati a lottare con persone che non hanno mai avuto a che fare con la violenza, inclini ad arrendersi. Adesso assaggeranno la furia di una bestia senza controllo.
Quando attaccano rispondo con ferocia. Butto a terra il primo che mi arriva alle spalle cercando di farmi sbilanciare e cadere. «Pessima mossa, codardo», sparo.
Storco il braccio dietro la schiena al secondo facendolo urlare, mentre mi volto e con la sua stessa pistola punto e mando al tappeto il terzo che ha preso la rincorsa.
Le sue ossa si spezzano come ramoscelli sotto la mia presa e dopo averlo fatto cadere gli mollo in faccia un calcio abbastanza forte da stordirlo, ponendo fine alle sue urla.
Non devo ammazzarli tutti. Alcuni mi serviranno vivi per dopo.
L'uomo rimasto tiene bassa una pistola nella mano sinistra mentre con la destra solleva uno Zippo e sorride con i suoi denti gialli e storti. «Adesso ci divertiamo».
Assottiglio gli occhi e con orrore capisco in fretta cosa sta per succedere. Ma prima che io possa anche solo avanzare, un sibilo scuote l'aria intorno a me e sento una fitta acuta. Il dolore mi avviluppa irradiandosi dal fianco. Abbasso gli occhi sulla ferita, sul sangue che sta già imbrattando parte della camicia che indosso.
«Non è il momento del rogo!», esclama una voce da lontano. «Che razza di idiota. Volevi disobbedirmi?»
Boccheggio e mi rialzo appena in tempo per sparare all'uomo con lo Zippo prima che possa replicare al bastardo che sta avanzando dopo avermi fatto colpire.
Il suo cecchino si trova nascosto in alto. Ho scorto la sua ombra e in breve sento il suo lamento quando la mia pallottola lo raggiunge.
Nel voltarmi mi ritrovo proprio davanti Hector Thorne.
«Come ci si sente?», mi chiede spavaldo.
Non cerco nemmeno di premere sulla ferita. Rimango in piedi a studiare l'uomo che ha rapito Blue e mia figlia. Rimango in piedi a prevedere le sue prossime mosse e a ponderare bene le mie.
Sto immaginando più di un modo per torturarlo. Ma non posso perdere la testa. Devo prima farlo confessare.
«Sono stato peggio», trattengo un colpo di tosse. «La mira del tuo uomo fa cagare».
Abbassa la pistola dopo averla guardata da ogni angolazione indignato. «Mai piaciuta questa merda. Ecco perché lo lascio fare agli altri», dice rinfoderando la sua arma. «Potrei ammazzare a mani nude qualcuno ma il peso di un'arma non me lo fa rizzare».
«Forse perché sei sempre stato negato. Nessuno ti ha mai detto che le armi sono per chi ha le palle di impugnarle?»
Non prende bene la mia risposta.
Ho avuto modo di studiarlo attraverso la storia della sua vita trascritta nei fascicoli. Hector Thorne non è nato ricco. Ha solo provato a fare soldi gestendo quelli degli altri. Si è insinuato come un verme fino a crearsi le sue opportunità. Ma nel profondo è sempre rimasto un uomo insicuro che al sol sentire certe battute prova ancora fastidio.
«Spero che i tuoi amici siano stati più intelligenti di te e siano corsi verso il molo».
Stringo il pugno in vita e la presa sulla mia arma. «Che vuoi farci, mi hanno sempre appassionato i luoghi con una storia», serro i denti perché il dolore a ogni minuto che passa si intensifica. Non riesco a capire se il proiettile sia uscito, ma devo resistere.
«I luoghi o le persone?», domanda.
«Lì dentro ho fatto i conti con il passato. Ma questo lo sai già. Non capisco perché portarmi proprio qui. Non avevi altri posti in cui rintanarti come un topo?»
Sussulta ma gliene do atto, non si scompone. Non cede alla mia sottile battuta.
«Ti è piaciuto farlo?»
«È stato liberatorio».
«Sai cosa non è piaciuto a me invece? Le tue mani su mia f-nipote».
Rido tetro e arriccio il naso. «Non riesci neanche a dirlo ad alta voce, cazzo».
«Non sei poi così diverso da me. O mi sbaglio?», con un sorrisetto avanza.
«Se lo avessi saputo prima di certo non mi sarei comportato come un verme. Avrei fatto in modo che tutti sapessero. Io non nascondo ciò che è mio».
Mostra i denti. «Tu non sai niente della mia famiglia».
Adesso è il mio turno di sogghignare. «Oh, so quanto serve per tenerti buono», replico. «Per non farti rivedere la luce del sole per molto tempo».
«Mi credi così stupido? Anch'io posso tenerti buono», tira fuori dalla tasca interna una scatola di fiammiferi. Indica poi lo Zippo rimasto a terra e il vecchio locale alle mie spalle. «Un vero peccato che il mio uomo non mi abbia disobbedito e non abbia acceso il fuoco», ridacchia. «Mi sarebbe piaciuto vedere la tua faccia quando si sarebbero diffuse le sue urla. Sempre ammesso che sarebbe stata in grado di farlo. Ma c'è tempo e tu sarai proprio accanto a lei. Una sfortunata coincidenza. Come immagini, ho un piano per tutto».
Non mostro alcuna reazione. Lo lascio parlare e crogiolare nella propria vendetta mentre altre idee alimentano la mia.
Mi ha fornito una conferma. Lei è qui. Non sta mentendo per ottenere quello che sta cercando tanto strenuamente. Lo avrei capito. Proprio come ho capito del pericolo che lei sta correndo mentre qui fuori i proiettili vagano, rischiando di posarsi proprio dove non dovrebbero.
«Perché l'hai fatto?»
«È sempre la stessa domanda. Perché l'hai fatto? Perché non hai difeso la tua famiglia? Perché non sei scappato?», alza il tono della voce irritato. «L'ho fatto perché lo volevo e perché non me ne fotte un cazzo di lei. È successo e avevo chiesto a quella donna di sbarazzarsene. Non l'ha fatto e allora alla sua nascita ho dovuto prendere delle misure di sicurezza. Poi le cose sono cambiate, lei è cresciuta, ha scoperto in qualche modo la verità, e quando ha ficcato il naso nei miei affari è diventata un problema. Soprattutto quando ho saputo che aveva raccolto e nascosto delle prove per farmi fuori».
Non perdo di vista l'ambiente e le sue mani. Sento sui pantaloni l'umidità del sangue che continua a sgorgare dalla ferita. La fronte mi si sta imperlando di sudore, la vista di tanto in tanto mi si sdoppia. Ho il timore di svenire e non portare a termine la mia missione.
Mi mordo il labbro per tenermi vigile e quando sento il sangue in bocca mi riscuoto. «Potevi farla nascondere dopo aver chiesto aiuto».
«Non sarebbe finita comunque».
«Davvero?»
«Vedo il tuo scetticismo, Blackwell. Ma non sai come funziona quando non sei abituato a vivere in mezzo alla merda».
Primo errore: sottovalutarmi e posizionarmi dal lato dei privilegiati.
«Se avessi fatto i compiti a casa lo sapresti che ho vissuto per strada».
Come se si fosse appena ricordato di qualcosa il suo volto si accende di divertimento. «Stavo quasi dimenticando di far unire alla nostra chiacchierata una persona a te speciale. Non ti dispiace, vero?»
Mi irrigidisco quando al suo cenno un ticchettio sommesso si diffonde in questo cortile angusto.
Per fortuna gli uomini che ho lasciato in vita sono ancora privi di sensi.
Faccio una smorfia. Forse avrei dovuto mandarli al creatore.
«Sei sempre un bell'uomo, figliolo».
Il suono della sua voce mi provoca un certo ribrezzo. Come vermi che strisciano sulla pelle. Fatico a guardarla in faccia e quando lo faccio, perché non devo mostrarmi turbato, il suo sorriso è come una coltellata.
«E tu sei sempre stata una puttana traditrice».
Non mi pento di averla chiamata in quel modo. Ha perso ogni diritto di essere mia madre quando ha preso quei soldi e ha obbligato quella vecchia a buttarmi fuori di casa.
L'unica cosa che mi stupisce è vederla con Hector.
Le sue pupille guizzano. Le narici fremono e sulle guance piene di trucco appaiono lo stesso i primi segni rossi della furia.
Ghigno e quasi arretra di fronte alla mia freddezza. «Non hai mai provato vergogna nel farti chiamare in quel modo dai tuoi clienti. Perché farlo proprio ora, Marisol», proseguo come un carro armato. «Hector di certo non sarà rimasto sorpreso. Non è qui che vi siete conosciuti?», indico il locale alle mie spalle. «Non hai aperto la bocca e le gambe per lui fino a strappargli una promessa o a spillargli dei soldi?»
Voglio radere al suolo ogni sua convinzione, ogni sua sicurezza. Voglio che si inginocchi e pianga per la sua vita, che implori per essere risparmiata. Proprio come voglio che l'uomo al suo fianco smetta di giocare e si arrenda facendomi avvicinare a Blue.
«Non hai neanche cambiato quel rossetto», la schernisco ancora. «E a quanto pare ti sei attaccata a un altro uomo che non ti amerà mai come meriti», non mi prendo nemmeno la briga di guardare Hector. Sappiamo tutti la verità.
«Neanche tu sei cambiato. Da piccolo eri arrogante e sicuro di te. Forse avrei dovuto venderti a una casa di piacere e ricavarne altro denaro».
Se pensa di ferirmi si sbaglia.
La mia reazione o meglio la mia non reazione la indispettisce.
«Hector richiama il tuo piccolo animaletto. Gli uomini devono parlare di affari e lei non è stata invitata».
«Smettila di trattarmi come se non fossi niente!», urla come un'isterica. «Non hai neanche chiesto perché mi trovo qui!»
Mi stringo nelle spalle in un gesto non curante. Anche se voglio saperlo.
«Non me ne fotte un cazzo perché sei qui», ribatto. «A meno che tu non voglia una pallottola piantata in fronte. In quel caso potrei accontentarti seduta stante».
Indietreggia quasi boccheggiando. «Io non ti ho cresciut...»
Sollevo la pistola. «Se stai per dire quello che penso ti chiedo di non umiliarti da sola. Per quel che ne so mia madre è morta nell'istante esatto in cui ha afferrato quel denaro e mi ha sbattuto fuori di casa. Tu sei solo una puttana che pensa di potermi fottere».
Hector sposta appena gli occhi da me a lei. «Vedo che avete molto su cui discutere. Ma se non vi dispiace vorrei occuparmi dei miei drammi».
Sposto la pistola e si ferma, trattiene il sospiro. «Non lo farei se fossi in te».
«Ti consiglio di non muovere un solo muscolo. Potrei far spostare quello che cerchi con un semplice schiocco delle dita», eseguo il gesto con un ghigno perfido. «Perché sì, sono io la chiave. Non Blue. Non mio fratello», proseguo. «E se pensi che sia caduto in una trappola o che abbia paura, ti sbagli di grosso».
Ho preso una decisione. Non so come andranno le cose. Blue uscirà viva da questa storia. Deve tornare dalla nostra bambina. Deve vivere. Io, io sono sacrificabile e farò il possibile per allontanare Hector e la donna al suo fianco da lei.
«Stai dicendo che per tutto questo tempo non abbiamo fatto altro che sbagliare? Andiamo, mi credi davvero uno sciocco? Quella ragazza ha fegato. Mi ha seguito e ha scoperto tutto. È lei la ragione per la quale sono arrivato a questo», indica il locale.
«In un posto che non ha nessun collegamento con lei?»
Stavolta è la donna accanto a Hector a sorridere. «È qui che ti sbagli», interviene, accendendosi una sigaretta e giocherellandoci. «Quella piccola stronza e sua madre, per anni hanno rovinato la mia vita, il mio lavoro. Poi sei arrivato tu e mi hai dato il colpo di grazia. Per un caso fortuito vi siete incontrati in quel posto e allora ho pensato, perché non portarli dove tutto ha avuto origine e toglierli di mezzo?»
Molti pezzi vanno a incastrarsi, e non solo ho un quadro completo della merda in cui mi trovo coinvolto, ma adesso so.
«Se credi che ti lascerò fare del male a Blue ti sbagli di grosso. Dovrai passare sul mio cadavere».
Lancia a terra la sigaretta e la schiaccia quando Hector la guarda storto.
Basterebbe una scintilla e salteremmo tutti per aria.
Ma so di aver insinuato un tarlo nella testa di Hector.
«Per quanto mi riguarda puoi anche tenerti la tua piccola trovatella. Io ho ottenuto quello che volevo», sollevando il mento si volta.
«Cosa hai ottenuto? Un uomo che neanche riesce ad ammettere che ha amato un'altra donna e con la quale ha avuto una figlia che nonostante tutto ha protetto fino a quando Parsival non l'ha costretto a ucciderla? Oppure hai ottenuto la mera illusione di esserti vendicata sul sottoscritto quando realmente non hai fatto niente anche se te lo hanno lasciato credere? Prendere una bambina dalla sua culla. Che gran onore, eh. Ti auguro di continuare a rincorrere i tuoi sogni e di non riuscire a realizzarli mai, lurida puttana. E di morire da sola. Possibilmente dietro le sbarre».
Prova ad avventarsi su di me. Hector l'afferra e la spinge verso il cancello facendola quasi cadere. «È ora che tu te ne vada. Ho rispettato il patto».
Rido. «Vedi? Non sei niente!»
Lei ringhia ma dopo un momento quando Hector pronuncia il suo nome in modo imperativo si allontana con un: «Non finisce qui!»
«Adesso veniamo a noi, Blackwell. Dammi quello che cerco e non farai la stessa fine della donna che ho legato e sedato lì dentro».
Mi sono stancato delle chiacchiere. Ormai gli uomini di Dante dovrebbero essere quasi arrivati. Mi auguro che al molo sia andato tutto liscio.
Premo il dito sul grilletto e gli colpisco la spalla. Hector emette un gemito di dolore e premendo la mano sulla ferita solleva il viso incredulo. «Pagherai per questo, lurido figlio di puttana. Se prima avevo in mente di farti morire insieme a lei lì dentro, adesso lo farò qui e manderò un souvenir a tuo fratello».
«Ho già pagato un caro prezzo e adesso è giunto il momento di riscuotere».
«A breve uno dei miei uomini lancerà un fiammifero. È stato un ordine piuttosto facile perché tu non sei affatto prevedibile e non potevo permetterti di averla».
Sparo un altro colpo alla sua gamba e si piega in ginocchio. Quando osa afferrare l'arma che ha riposto sparo un terzo colpo bucandogli il palmo.
Urla come un maiale, afferra il cellulare dalla tasca interna e preme il pulsante di chiamata ghignando.
Tutto il mio corpo scatta in allerta. Carico il colpo e lo tramortisco. Prima però mi assicuro che non scappi e lo lego con delle corde di fortuna che trovo in un angolo. Faccio lo stesso con gli uomini ancora vivi prima di entrare nel locale.
Qualcuno ha appiccato il fuoco. Il fumo si solleva denso e le fiamme divampano rapidamente lungo ogni trave in legno. Strappo un lembo della camicia ormai sporca di sangue e lo lego per proteggere la bocca e il naso.
Stringendo i denti, a causa del dolore, continuo a cercare.
Le fiamme lambiscono ogni singolo elemento d'arredo attempato del locale impedendomi di avanzare.
«Blue», urlo un paio di volte spalancando porte con spallate e lasciandomi colpire dal fumo denso e nero.
Entro in tre stanze, con gli occhi che bruciano e il sudore freddo, prima di trovarla.
Il mio cuore manca un battito alla vista di lei legata a un palo e priva di sensi.
Fletto le dita della mano libera mentre con l'altra tengo ancora la pistola carica. Lo faccio un paio di volte, quasi come se volessi rilasciare l'elettricità dal mio corpo. Traggo un respiro profondo e allontano ogni altro rumore per concentrarmi su di lei. In questo modo il fischio alle orecchie smette di essere insistente e la vista non vacilla permettendomi avanzare e non farmi male.
Avevano intenzione di bruciarla viva dopo aver ottenuto i documenti e di fare lo stesso con me.
Pagheranno per questo. Per averla toccata. Per averla torturata. E pagheranno lentamente fino a chiedere pietà. Quella che non riceveranno mai dal sottoscritto.
«Blue?», salgo sul palco in parte avvolto dalle fiamme. Barcollo con la vista sdoppiata dal dolore. Cado in ginocchio e la libero più in fretta che posso.
«Andiamo, Kelebek», ringhio allarmato, controllando che non abbia ferite gravi oltre ai lividi evidenti sul viso e gli arti.
«Non farmi questo, svegliati», proseguo agitato.
Le sue palpebre sfarfallano. Mi mette a fuoco e la sorpresa nei suoi occhi annebbiati si trasforma in paura nell'accorgersi di tutto il resto: le fiamme, il fumo, la mia ferita.
Qualcosa dentro di lei scatta. «Ti hanno sparato», esclama tirandosi in piedi dal mio grembo sul quale era caduta quando era ancora priva di sensi.
Solo ora mi concedo di avere un crollo. Perché non ce la faccio più. Questo era il massimo che potessi fare.
«Ascoltami, Blue. Devi riuscire a uscire da qui dentro prima che tutto crolli o si infiammi. Puoi farcela».
Lei comincia a scrollare la testa. «No, non me ne vado senza di te», afferma sollevandomi il lembo della camicia strappata e insanguinata.
Emette un verso di puro terrore di fronte al foro sanguinante, poi però si concentra e mi avverte che sta per farmi sollevare sulla schiena per controllare lo stato della ferita.
Mi sfugge un lamento, lei tira su con il naso prima di tossire e guardarsi intorno, dopo avermi fatto riabbassare.
«Okay, okay», ripete lasciandomi per un momento da solo su questo lurido palco sempre più caldo.
L'aria comincia a essere asfissiante.
Con la coda dell'occhio la vedo fare slalom fino a un tavolo. Solleva la bottiglia di alcol e torna di corsa da me. Scivola un paio di volte rischiando di farsi male ma riesce comunque a raggiungermi.
Per non inalare altro fumo solleva sul viso la benda che le avevano messo e procede ispezionando la mia ferita.
«Ti farà molto male ma devi resistere. Promettimelo, Far».
«Scappa da qui, Blue. Torna da nostra figlia».
Si rifiuta di ascoltarmi. «Mordi questo», mi mette in bocca un pezzo di legno staccatosi da un angolo. «Farà male, Far», mi avvisa.
Non appena butta l'alcol sulla ferita per poco non mi si ribaltano gli occhi dal dolore eccessivo dovuto al bruciore. Ma non urlo.
Butta altro alcol sulle sue mani, poi ficca le dita nel buco sanguinante e con un gesto secco tira fuori il proiettile.
È bellissima, con gli occhi colmi di lacrime e al contempo la concentrazione metodica che la contraddistingue. Non cerca il mio sguardo perché con ogni probabilità perderebbe lucidità e comincerebbe a tremare.
La stessa determinazione l'aiuta a rimanere concentrata fino a quando non lascia cadere a terra il pezzo di ferro, il dannato proiettile che vorrei conservasse, e che prima era incastrato nel mio corpo.
Passa la mano sulla fronte, imbrattandola di sangue e fuliggine. Ma non se ne cura. Continua a pulire la ferita. Si toglie la maglietta e dopo averla appallottolata la preme sul mio fianco.
«Far».
La sua voce è solo un sussurro smorzato dal nodo che le stringe la gola e che a stento le permette di poter respirare. Le mie dita risalgono sul suo viso e la sua mano si adagia sulla mia quando prendo ad accarezzarle la guancia rigata dalle lacrime.
Il dolore lo sento appena, perché lei sta alleviando tutto. Lo sta facendo ancora una volta senza accorgersene.
«Sono qui», mormoro trattenendo un colpo di tosse.
La sua mano lascia la mia per tornare a far pressione sul mio fianco. «Continua a parlare», mi esorta. «Parla con me, okay?»
«Mi stai torturando», sfodero un lieve sorriso. Poi tossisco e dalla bocca mi esce un fiotto di sangue.
Lei si guarda intorno abbassando la benda. «Ti torturerò per un po' e tu dovrai sopportarmi», dice mordendosi forte il labbro inferiore, forse per trattenere un singhiozzo.
Con il pollice glielo sfioro. «Sai cosa vorrei fare in questo momento?»
«Cosa?», controlla che dalla ferita non sgorghi altro sangue.
«Vorrei raccogliere tutto il tuo dolore, tutta la delusione che hai provato e tutta la rabbia che trattieni dentro e liberarmene».
«E come pensi di fare?»
Trattengo una smorfia, ma le palpebre mi sfarfallano e lei se ne accorge. «Far, continua a parlare», mi esorta perentoria.
«Proteggendoti», le palpebre si fanno pesanti.
La sua mano scatta fulminea, picchiettandomi la guancia. «E come pensi di proteggermi se ti addormenti, eh?», singhiozza, lasciando uscire la paura. «Non puoi lasciarmi così!»
Combatto l'impulso di allungare il braccio e farla stendere accanto a me. Lotto contro il mio egoismo, prendendo consapevolezza di non potermi aggrappare più a niente perché la fine sembra ormai imminente. Non posso illuderla.
La luce creata dalle fiamme pulsa a ritmo dei nostri battiti sul suo viso pallido e sporco.
Improvvisamente, il tempo rallenta insieme al mio respiro. Mi ritrovo avvolto dalle sue iridi chiare, in quella limpidezza placida. Poi il momento si infrange a causa del boato che rischia di spingerci fuori dal locale. Una delle travi cede e si schianta a terra proprio di fronte alla nostra unica via di fuga. Di seguito le bottiglie piene d'alcol disposte su una delle mensole dove prima c'era il bancone, scoppiano una dietro l'altra. I vetri si infrangono tutti spargendosi in ogni direzione.
Per istinto obbligo il mio corpo irrigidito a muoversi per proteggerla.
«Giusto», provo a sollevarmi ma lei mi ributta a terra. «Sta' fermo. Presto arriveranno i soccorsi».
«Non lo faranno, Blue. Siamo in un cazzo di incubo e l'unica cosa a cui sto pensando è quella di baciarti e tenerti con me fino al mio ultimo respiro».
Si china e mi bacia l'angolo del labbro. «Così?»
«Ho bisogno di assaggiare un altro pezzetto della tua dolcezza, lasciarmi avvolgere dal sapore della tua anima. Così potrei portarmi nell'aldilà un frammento di paradiso che faccia invidia persino ai diavoli. Perché sei la mia cosa bella. L'unica che ho. L'unica che porterò sempre appresso gelosamente».
Un brivido mi attraversa al pensiero di lasciarla e di lasciare quella piccola scimmietta da sole.
«Glielo dirai? Gli racconterai di me? Che ha avuto un padre di merda?»
Le sue labbra tremano e vorrei prendermi a schiaffi se non fossi già sul punto di abbracciare la signora morte. Ma non c'è nessun altro modo di affrontare la realtà. Non ho bisogno di indorare la pillola.
«Non sei un padre di merda», mi accarezza il viso. «E glielo dimostrerai perché tua figlia ha bisogno di te. E ci sarai».
Sento qualcosa di umido scivolarmi lungo la guancia e dal suo sussulto comprendo che sono io quello che sta piangendo. Lo sto facendo dopo mesi. Dentro di me si è sciolto qualcosa di duro e gelido.
«Sarò un padre geloso e protettivo. Una vera spina nel fianco».
Sorride. «Isobel ti sfiderà così tanto da mandarti su tutte le furie».
Ridacchio e tossisco altro sangue. La sua mano è subito pronta a ripulirmi.
«Quella scimmietta saprà quanto la amo».
Lei chiude gli occhi e accertandosi di non rendere vano il suo lavoro, mi abbraccia. «Grazie», sussurra con appena un filo di voce.
Lo sento scorrermi nelle vene, ma non esce insieme al sangue che sgorga dalla ferita. Resta impresso l'impulso di guardarla e basta. Di assorbire ancora un po' della sua bellezza e delle cose che mi fa provare, anche in mezzo al pericolo.
Vorrei spegnere tutto all'istante. Non mostrare le emozioni che mi stanno devastando l'anima come pezzi di vetro sottopelle. Ma non ci riesco, perché sento di non dover perdere l'occasione di dirle quello che provo. Di farle sapere che la sento mia.
«E tu lo saprai?»
Si scosta. «Sapere cosa?»
«Quanto ti amo».
Tira su con il naso. «Ripetilo».
Alzo gli occhi al cielo. «So già che con voi due diventerò uno zerbino».
Ridacchia e il suono mi fa rilassare e mi riscalda. «Ti amo, Blue», ripeto sospirando.
«Cosa c'è?»
La frustrazione rischia di impedirmi di cogliere l'attimo per dirle quello che penso. «Non riesco a sopportare il pensiero di perderti, Kelebek. Non così. Non ora».
Le sue narici si dilatano e una lacrima solitaria, silenziosa, le attraversa la guancia. «Allora impegnati a non lasciarmi andare. Quando senti che stai per perdermi, tienimi ancora più stretta».
«Avrei dovuto proteggerti. Te lo avevo promesso».
«L'hai fatto, Far. Lo stai facendo».
Muovo appena la testa, appesantita dalla stanchezza. «Sono arrivato tardi».
«Hai fatto il possibile per raggiungermi. Alla fine sei arrivato lo stesso».
In sottofondo sentiamo intonare le sirene. Non passa molto. La porta che si era sigillata si spalanca e in breve dei paramedici e dei vigili del fuoco ci accerchiano.
Blue emette un lamento, ansima e si ingobbisce. «Ti amo, Far», sussurra. «Non dimenticarlo».
All'improvviso chiude gli occhi, il suo viso perde colore e scivola a terra.
«Blue?», chiamo il suo nome, allarmato.
Mi sollevo e striscio accanto a lei, tenendo i denti stretti. La scuoto con delicatezza.
«NO», soffio quando non risponde. «Kelebek, svegliati!»
I suoi occhi non si aprono. Non c'è polso.
Il cuore si arresta lasciando spazio a una paura profonda e a un dolore che aumenta a dismisura torturandomi.
«Aiuto!», gracchio, sprofondando sempre più in uno strano vortice di dolore.
«NO! NO! NO! Kelebek? Andiamo, svegliati. Non farmi questo», singhiozzo e urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni. «Resta con me!», tiro su con il naso. «Ti prego, no», scuoto la testa.
I paramedici riescono a raggiungerci ed entrano in azione.
Non so quanto tempo sia passato mentre davanti ai miei occhi continuano a susseguirsi le immagini di un incubo. Quando vengo caricato su una barella provo a oppormi ma il ragazzo mi seda all'istante chiedendomi di non agitarmi, impedendomi di salvare l'amore della mia vita.
L'ultima cosa che vedo con la coda dell'occhio è il defibrillatore che le viene premuto sul petto. Poi, solo una profonda oscurità.

💛🦋

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora