Capitolo 3

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BLUE

8 mesi dopo...

Dicembre
5 ore prima di Natale.

Ho vaghi ricordi di mio nonno. Un giorno però disse una cosa che fino a oggi continuo a ricordare limpidamente: "Vince chi resta in piedi, chi resiste anche quando la vita si ribella e rifiuta di regalarti un po' di sole."
Fino a qualche mese fa ero convinta che la felicità prima o poi sarebbe arrivata. Mentre adesso che ne ho assaporato un pezzetto, so con certezza che è una crudele illusione, perché arriva, ma non resta mai abbastanza.
Sono così stanca. Stanca di tenere insieme i pezzi di un'esistenza che ha spigoli e armi affilate a ogni angolo. Stanca di controllare ogni cosa. Perché è impossibile. Perché non puoi prevedere quando ti verrà strappato via un altro pezzetto d'anima.
Fitte. Raggiungono il mio ventre a intervalli irregolari. Porto il palmo sulla zona appena colpita e massaggio lievemente in senso circolare.
Mi fermo.
Inspiro.
Espiro.
Ricomincio da capo.
Dopo un paio di secondi lo sento scalciare. «Oggi vuoi proprio farti sentire», sorrido e con una smorfia salgo gli ultimi scalini che mi portano dritta all'appartamento di Phoebe Munoz.
Mi trovo in uno dei quartieri più a sud. Una gang di ragazzi vestiti di tutto punto con giacchette abbinate e stereo sottobraccio, sono fermi in fondo alla strada, mentre altri camminano baldanzosi in cerca di nuovi clienti o di qualcuno con cui azzuffarsi. Il che succede spesso.
Rabbrividisco, nonostante siano sempre stati gentili e protettivi nei miei confronti. Non mi piace quando diventano molesti e non mi va di ritrovarmi ad assistere ai loro pestaggi "occasionali". Il più delle volte ne nascono dei patti e se non li rispetti o fai la spia, ne subisci le conseguenze. Meno vedi, meglio vivi. È questo che dicono tutti da queste parti.
La porta si apre prima che io possa bussare e un uomo esce fuori lanciandomi uno sguardo ammiccante, il tutto mentre si riveste e se ne va. Pochi istanti dopo, compare lei, i capelli scuri e ricci raccolti in una crocchia, coperti da un turbante, le labbra carnose, lucide, gli occhi castani sempre guardinghi, circondati da ciglia finte; quel corpo sinuoso racchiuso in un completo intimo di pizzo, a malapena coperto da una vestaglia fucsia.
«Fatti abbracciare, ragazzina», esclama con la sua voce roca da fumatrice, aprendo le braccia con un ampio sorriso dei suoi; di quelli che mi ha sempre riservato come se fossi importante.
Mi avvicino. La pancia ben visibile non è un grosso ostacolo, perché Phoebe mi avvolge perfettamente come farebbe una mamma chioccia che non vede da tempo il suo cucciolo, e massaggia con amore la mia schiena un po' dolorante, alleviando in modo inconsapevole il fastidio.
«Ho mandato Joanne a prendere qualcosa da mangiare per cena».
Un modo come un altro il suo per dire che sarà una conversazione privata e un po' lunga la nostra.
Varcata la soglia del suo minuscolo appartamento, situato proprio sopra il locale in cui ha sempre lavorato come ballerina, e di cui da un paio d'anni è una delle proprietarie, non trovo il solito caos a cui ero abituata.
Phoebe ha preso seriamente la parola riabilitazione partendo dalla pulizia del proprio ambiente. L'ultima volta stava per uscirne distrutta dopo aver perso il controllo, aver bevuto oltre l'eccesso ed essersi ritrovata in un vicolo, riempita di botte e priva di sensi.
Sapere che ha intenzione di non cedere, di non cadere di nuovo nello stesso circolo vizioso e di evitarsi altra violenza e ossa rotte, mi fa ben sperare.
Le pareti all'interno della stanza sono: due di un bianco ormai un po' ingiallito, due color pavone; il suo colore preferito. Nell'aria aleggia odore di lavanda e quella del sesso.
Phoebe, come se avesse appena intuito ogni mio pensiero, semplicemente osservando il modo in cui ho arricciato il naso, corre ad aprire la finestra. Purtroppo non è stata ugualmente rapida a nascondere la scatola di lubrificante e i preservativi aperti e sparsi. Queste cose non le creano di certo imbarazzo, nonostante ciò apprezzo l'accortezza.
Una folata fredda avvolge in fretta lo spazio circostante. Riempio i polmoni di aria pulita e quando mi chiede di accomodarmi, lo faccio senza lasciar correre troppo l'immaginazione.
Se mi ha voluta qui, dopo mesi di lontananza, deve esserci una ragione e non posso essere tanto schizzinosa dato che non sono nuova a certe cose, e non vivo di certo nel lusso per permettermi di comportarmi da snob.
«Quanto manca al parto?», indica il mio ventre gonfio.
Per istinto, adagio il palmo sul punto in cui ho percepito l'ennesimo calcio, e le sorrido come farebbe chiunque al settimo cielo. «Circa un mese».
«Sai già il sesso?»
«Lo scoprirò quando nascerà. Ho chiesto alla mia dottoressa di tenerlo per sé».
«E cosa farai quando succederà? Hai preso in considerazione ogni opzione?», mi scruta con apprensione. «L'hai fatto con giudizio?», mi incalza.
A Phoebe devo molto. Mi ha fatto da sorella maggiore, da amica, da zia, sin da quando io e mia madre abbiamo varcato la soglia del locale in cui per anni quest'ultima ha lavorato; prima di perdersi del tutto e scegliere una strada lastricata da bugie, risentimento, droga, alcol, abusi.
In qualsiasi momento della mia vita, Phoebe, a dispetto di ogni altro parente vivente, c'è stata. Quando ho scoperto di essere incinta, lei era al mio fianco, mi ha condotta in ospedale per avere la conferma e ha preso delle brochure su altre possibili soluzioni. Queste ultime, le ho buttate non appena siamo uscite dalla struttura, insieme alla possibilità di una vita "normale".
La mia non è stata una gravidanza facile. I medici non si sono mai sbilanciati a causa delle mie condizioni di salute. Ma ho sempre saputo che finché il mio corpo avrebbe retto, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Mi sono rifiutata di pensare al peggio. Ecco perché, dopo aver saputo del bambino che porto in grembo, mi sono allontanata dallo stile di vita che ero costretta ad avere per sopravvivere.
Nei mesi precedenti ho cercato di vivere serenamente la gravidanza nel mio angolo di mondo. Lontana dalla violenza. Lontana dalle persone distruttive, dalle bugie e ancora di più da una verità che a lungo andare potrebbe sgretolare ulteriormente la mia vita.
Nonostante le basse aspettative, gli sguardi carichi di pietà, gli ostacoli, non solo dal punto di vista fisico, sono riuscita a portare avanti la gravidanza, a lavorare per poter dare un futuro al mio bambino. Sto lottando per averlo.
Phoebe non è del mio stesso parere e, a distanza di mesi, non riesce ancora ad accettare la mia decisione. Ecco perché, ancora una volta, si sta informando sui miei piani. Intende dissuadermi fino all'ultimo. Ma non desisterò.
«Lo terrò. Ho messo da parte qualcosa per riuscire a prendermi cura di lui fino a quando non potrò tornare a lavorare e sarà abbastanza grande da poterlo lasciare al nido. Al momento riesco a mantenere il ritmo, ed è un bene perché quei soldi mi servono».
Phoebe si appoggia al ripiano, incrocia le braccia al petto e scuote appena la testa. «Non puoi dire sul serio. Quello che puoi fare per tuo figlio è dargli una vita migliore da quella che si prospetta», mi rimprovera. «Non puoi lasciare gli studi e ogni tuo sogno proprio adesso. Non puoi nemmeno pensare di riuscire a sopportare ore di lavoro e un figlio che con ogni probabilità un giorno ti odierà per averlo fatto vivere in mezzo alla miseria e alla violenza, anziché in una famiglia ricca».
Le sue sono parole dure. Ho passato ogni singola notte, da quando ho capito di non essere più sola e di doverlo proteggere, a scegliere tra le opzioni, e mai nessuna era indirizzata verso quella direzione.
«Non lo abbandonerò. Farò dei sacrifici...»
«Sei ancora una ragazzina, Blue. Cazzo, come puoi pensare di potercela fare quando a malapena riesci a guadagnare denaro a sufficienza per sfamarti? Guardati, sei pelle e ossa! Per non parlare del tuo problema di salute. Ogni singolo giorno è stato un rischio per te».
Un'altra contrazione mi colpisce e con una smorfia mi sistemo meglio sul divano, divaricando lievemente le gambe per trovare una posizione comoda. «Ce la posso fare, Phe», la voce mi si incrina.
Phoebe mi fissa con un misto di ammirazione, delusione e apprensione. È tipico di lei preoccuparsi, incazzarsi e giudicare. Nonostante tutto però so che lo capisce. In prima persona si è trovata nella mia stessa situazione. L'unica differenza è che le sue priorità sono sempre state altre e ha scelto la strada più semplice. All'ennesimo sbaglio commesso, ha scelto di liberarsi del problema e poi farsi inserire la spirale. Perché, anche se non lo ammette apertamente, è di questo che si tratta per lei: di rinunciare alla sua vita per prendersi cura di qualcun altro. Ha paura di non esserne all'altezza di non avere abbastanza amore.
Non sa quanto si sbaglia.
Mi ha praticamente cresciuta come una figlia e gliene sarò eternamente grata. Non sarei qui quest'oggi senza il suo aiuto e i suoi insegnamenti.
Per quanto possa comprendere il suo punto di vista però, non lo condivido. Non ho pensato a una soluzione perché quando l'ho capito, ho semplicemente accettato che ci fosse, che avrebbe fatto parte della mia vita, che sarebbe stato un pezzo di me e della notte in cui mi sono sentita non un relitto, non una spia, ma una donna. È stato un pezzetto di felicità in mezzo a una vita che emana l'odore fetido del dolore. Un regalo inaspettato, certo, ma che ho pensato di meritare.
«Non hai trovato il padre? Quel bastardo dovrebbe assumersi ogni responsabilità».
Mi piacerebbe fingere che quella notte non sia stata altro che una mera illusione, il frutto di un sogno proibito fatto dopo una brutta giornata.
Vorrei che facesse meno male la consapevolezza che io e lui non ci incontreremo mai più. È stato qualcosa di sbagliato, contorto e corrotto per la mia anima. Ma infinitamente bello. Così tanto da lasciare il segno. Un segno che avrò davanti agli occhi a ricordarmi che è stato reale.
Trattengo il fiato e non permetto alla mia mente di ritornare a quella notte. Scuoto subito la testa. Ma il ricordo è così forte da riuscire ancora a farmi lo stesso effetto: il solito formicolio invadente su ogni centimetro di pelle che ha toccato, baciato, venerato.
«Sarebbe impossibile trovarlo e mi va bene così. Non saprà mai niente. Lui è solo mio», indico la pancia.
Phoebe sospira con le mani sui fianchi. «Hai rinunciato a così tanto nella vita. Se solo mi avessi ascoltata...», sbuffa scuotendo la testa. «Ma ormai è successo», ritratta in fretta, notandomi agguerrita. «A breve sarai una ragazza madre e io non voglio che tu stia sola in quella maledetta roulotte che hai dovuto riprenderti per mettere da parte quei fottuti soldi. Dio solo sa cosa potrebbe succedere».
«Non intendo continuare a viverci, Phe. Troverò un posto carino e confortevole quando avrò altro denaro messo da parte. Al momento è tutto quello che posso permettermi».
«Casa mia è sempre a tua disposizione, lo sai. È piccola mi rendo conto, ma possiamo trovare una soluzione».
«Non vivrò con te e Joanne. Sarebbe imbarazzante alzarsi per dar da mangiare al piccolo e trovarvi a scopare come conigli in cucina», arriccio il naso.
Soppesa con attenzione il mio sguardo prima di proseguire, dando voce alle sue preoccupazioni. «Non mi piace saperti da sola. Il nostro non è un ambiente protetto. Mio cugino è disponibile. La sua famiglia è temuta. Con lui al tuo fianco, nessuno oserebbe sfiorarti con un dito».
Rabbrividisco al pensiero dei rischi che corro e di quelli che correrò una volta aver partorito. Avvolgo il ventre tra le braccia. «Non ho intenzione di sposare un uomo ricco o temuto per non avere paura. Non potrei vivere senza amore e nessuno di loro accetterebbe mio figlio. Tuo cugino, non merita questo fardello, per quanto sia dolce nei miei confronti. Ha bisogno di qualcuno da guardare senza risentimento».
Phoebe versa dell'acqua dentro la caraffa e prepara del tè.
«Amore...», dice con disgusto. «Non esiste. Non aggrapparti a questa favoletta della buonanotte. Nessuno ti salverà. Non esistono principi abbastanza fuori di testa da entrare nella vita di quelle come noi», apre la credenza per recuperare una confezione dei miei dolcetti preferiti al caramello salato e fondente.
«E per la cronaca: mio cugino stravede per te. Se solo gli dessi una possibilità, quel ragazzo sarebbe l'essere più felice su questa terra».
Ha ragione e non trovo le parole per ribattere. Abbasso solo lo sguardo sulle mie mani. «Non ti chiedo di capire o di accettare il mio pensiero. Voglio solo che se dovesse accadermi qualcosa, lui sia al sicuro».
Sentendo la mia richiesta perentoria, in parte notando i miei occhi velati di tristezza e apprensione, Phoebe molla la confezione e raggiungendomi in soggiorno, dopo essersi seduta al mio fianco, mi avvolge tra le sue braccia. «Non te lo prometto, ma ci sarò per lui o per lei, ragazzina».
Sciolgo per prima l'abbraccio. «Bene, adesso che abbiamo chiarito questo punto, dimmi la ragione per cui sono qui. So che non è della gravidanza di cui vuoi parlare».
Il bollitore si rianima e lei va a riempire due tazze. Di ritorno, appoggia tutto sul tavolo da caffè di legno. «C'è una cosa di cui a breve discuteremo. Per telefono non è stato possibile farlo perché non è mai sicuro».
Mi guardo subito intorno. Come se potessi scovare delle cimici o intravedere oltre le grate della finestra, a qualche metro di distanza, qualcuno intento a osservarci, in attesa e pronto all'agguato.
«Cosa succede?»
Adagia una mano sul mio braccio. «Ho delle brutte notizie», calcola la mia reazione prendendo ad accarezzarmi con un movimento lento, su e giù, su e giù e poi di nuovo.
Avverto una stretta allo stomaco. Trattengo il fiato, in attesa che distrugga il mondo che per mesi ho tentato di tenere in perfetto equilibrio.
«Va' al dunque, Phe», per istinto avvolgo ancora una volta il ventre con un braccio. «È per mia madre? L'hanno di nuovo arrestata? O hai saputo qualcosa su mio padre?»
Phoebe nota il mio gesto e si corruccia maggiormente. «Hector ti sta cercando», dice invece a bruciapelo. «Ieri al locale sono venuti i suoi uomini, hanno fatto delle domande su di te dopo aver fatto uscire tutti i clienti e averci fatto riunire in una delle stanze».
Alla fine l'ha capito. Ma come?
Guardo Phoebe e per un attimo mi sento stordita e smarrita. La paura mi raggiunge e rischio di dubitare persino di lei.
Come se me lo avesse appena letto da dentro, Phoebe mi stringe le mani. «Giuro sulla mia vita che non ti tradirei mai», si batte il palmo sul cuore. «Sei come una figlia per me, cazzo. Morirei per te, piuttosto».
«Allora com'è possibile che quel figlio di puttana all'improvviso si sia ricordato della mia esistenza?», balzo in piedi e comincio a fare avanti e indietro nello spazio attiguo tra il divano e un mobile in legno pieno di scomparti, oggetti e libri, sul quale sono adagiate una lampada e due candele.
«Davvero non ci arrivi? Tu meglio di chiunque altro dovresti conoscere tuo zio».
«Che altro ha fatto?», domando, notando la sua agitazione crescente.
Si morde il labbro inferiore. «Forse dovresti sederti».
Scrollo la testa. «Parla».
«Ha usato Marisol per arrivare a tua madre. Quest'ultima non sa dove ti trovi, giusto?»
Spalanco gli occhi. «Cosa? Dici sul serio? Quando è successo? E quella stronza...», una fitta prolungata mi fa emettere un lamento. Stringo i denti. Inspiro ed espiro, poi mi siedo e prendo un sorso di tè.
«Marisol non si fa viva da giorni. Ha solo lasciato un messaggio».
Phoebe arrossisce preparandosi a citare le parole che quella serpe ha avuto il coraggio di scrivere. «È difficile», stringe i denti. «Quella puttana, prima di sparire, ha rubato dalla cassa del locale. Il suo è stato un fottuto messaggio diretto. Non avrebbe mai dovuto ottenere il lavoro e avremmo dovuto licenziarla quando creava problemi», fa schioccare la lingua contro i denti di davanti assumendo una posa contrariata, tenendo i pugni chiusi sui fianchi. «È sempre stata invidiosa, non pensavo si spingesse a tanto. Hector deve averle dato più dell'incasso di una serata se ha aperto così tanto le gambe e la bocca per quel viscido».
Ignoro l'ultimo commento. «Ma lei come ha fatto a sapere?»
«Marisol ha tante qualità, Blue. Una tra queste è proprio il suo essere imprevedibile. In più si vende bene, specie se ha qualcosa di grosso da nascondere. Con il tempo riusciremo a trovare tutte le risposte. Le ragazze sanno come indagare e ti assicuro che sono già in azione. Dato che tuo zio ti sta cercando e userà qualsiasi mezzo o persona per riuscire a stanarti, ti chiedo di fare attenzione e se hai bisogno, raggiungi mio cugino. L'ho già avvisato. Hector non scatenerebbe mai una guerra con il clan dei Munoz».
Torna a sedersi accanto a me. «Quella notte, quando sei venuta da me per chiedere un posto in cui dormire, io te l'ho dato senza porti ulteriori domande. Avevo capito che qualcosa ti frullava per la testa, ma non pensavo fossi così distrutta da stuzzicare tuo zio meno di una settimana dopo. Non ho potuto impedirti di sbagliare e di metterti nei guai», ancora una volta indica la mia pancia. «Non mi hai mai detto quello che hai fatto al Firenight».
Ci sono così tante cose che non le ho raccontato, altre ho dovuto tacerle per evitare che ci andasse di mezzo. Meno sa meglio è.
Hector è furbo. Quanto ancora aspetterà prima di usare Phoebe contro di me? Ha già fatto leva su Marisol, anche se non so la ragione ad averla spinta a tradirmi per far arrivare quel bastardo a mia madre.
Il senso di pericolo continua a crescermi dentro. «Devo... andare», le dico distratta.
Phoebe intuisce ogni mio pensiero. «Non mi userà, puoi restare. Joanne sta tornando con la cena e so che non mangi da stamattina».
Nego ancora. «Non metterò nessun altro in pericolo. È un problema mio. Sono riuscita a sfuggirgli per tutti questi mesi, continuerò a farlo. Inoltre, se lo conosco, avrà posizionato i suoi uomini a ogni angolo».
Prima che possa obiettare, mi avvio alla porta.
Phoebe mi segue e quando mi volto, mi abbraccia. «Sta' attenta, bambina mia».
Con un grosso nodo alla gola, esco dal suo appartamento e infreddolita mi avvio verso casa.
In auto, cerco di scaldarmi e di non cedere al panico. «Non posso agitarmi», mi ripeto come un mantra. «Quello che devo fare è riempire una valigia e andarmene da qui», adagio la mano sul ventre. «Fagiolino, per un po' tu e la mamma vivrete come dei fuggitivi. Ma vedrai che prima o poi troverete un posto da chiamare casa», una lacrima rischia di scivolare e la trattengo. Non è ancora nato e sono già una delusione per mio figlio. «Abbiamo passato cose peggiori», aggiungo nel tentativo di darmi un po' di forza. «Hector non ci troverà e staremo bene, vedrai».

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora