Capitolo 21

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FARON

L'istinto, non appena puntini neri spuntano nel mio campo visivo, è quello di allungare la mano dietro la schiena. Prendo la pistola e faccio fuoco a chiunque abbia appena osato colpirmi; copro Dante che cerca di tirar fuori da questa casa Eden, la bambina e Blue, fronteggiando l'uomo che è riuscito ad avanzare e a bloccare il passaggio dopo avermi colpito.
È stato un attimo, cazzo!
La mia visione periferica sinistra è compromessa solo dal sangue che cola copioso dalla ferita al di sopra del sopracciglio.
Siamo in pericolo, tutti quanti. Non c'è tempo per stilare una lista dei danni, per i piani o gli errori di valutazione. Qualsiasi movimento sbagliato potrebbe causare una perdita e non è quello che voglio. Non di nuovo. Non se posso evitarlo.
Approfittando del fatto che mi credono stordito e vulnerabile, carico l'arma, sperando di non attirare l'attenzione per il suono. Al momento opportuno mi sollevo di scatto e sparo alla spalla dell'uomo armato e nascosto dietro un passamontagna che imbraccia un fucile e sta avanzando spavaldamente, pronto ad afferrare Blue.
Il colpo va a segno. L'uomo arretra incespicando sui propri passi, molla la presa sul fucile e riesco, dopo una breve colluttazione in cui uso ogni riserva di rabbia accumulata in queste ultime settimane, a disarmarlo e a buttarlo giù.
Lo volto, lo schiaccio sul pavimento, reso scivoloso dal sangue, spingo il suo braccio dietro la schiena, in una posa innaturale e dolorosa, e al contempo vi affondo un ginocchio per tenerlo fermo.
Con la coda dell'occhio colgo un movimento. Ho le mani ancora occupate e non riesco proprio a scansarmi quando un pugno mi si abbatte dritto sulla guancia e un calcio raggiunge la mia pancia più e più volte.
«Far!»
La voce stridula di Blue mi fa voltare nella sua direzione. Capisco di avere commesso un errore non appena vengo colpito di nuovo e l'uomo che ho spinto sotto il mio peso prova a svincolarsi dalla mia morsa e a scappare.
Ma non è questo a farmi gelare il sangue. È il tizio che ha raggiunto Blue e sta provando a trascinarla fuori dall'appartamento.
Dove cazzo è il resto della squadra?
«Blue!», urlo.
Lei fende i piccoli gomiti contro le costole dell'uomo che la tiene stretta. Stanno indietreggiando verso la porta principale, la pistola puntata sulla sua tempia.
«Ferma, ragazzina», la intima a non fare cazzate e io stesso vorrei urlarle di non mettersi ulteriormente nei guai.
Afferro l'uomo che sta ancora tentando di scappare, lo riporto sotto il mio peso.
La mano sulla pistola, punto e sparo centrando il petto dell'altro prima ancora che abbia la possibilità di agire alle mie spalle.
«Far, attento!»
Un altro uomo raggiunge appena la soglia della camera da letto, riesce a far partire un colpo che per fortuna va a forare una parete. Non è ferito mortalmente, è solo svenuto a causa del dolore.
A colpirlo è stata proprio Blue, la quale, dopo essersi chissà come liberata del primo energumeno facendolo cadere dalle scale, prima gli ha sottratto la pistola e ha fatto fuoco. Non ha avuto un attimo di esitazione, ha colpito con una precisione micidiale. Come se lo avesse fatto tante volte. Come se fosse stata addestrata.
Neanche le avesse bruciato le mani, nell'immediato, lascia andare la pistola e prende a fissarsi i palmi con disgusto, prima di alzarsi e raggiungere ancora attonita Eden; quest'ultima rimasta in un angolo della cucina a proteggere Isobel.
Dante emette un grugnito, sta legando l'uomo che ha aperto il fuoco per primo e con il quale ha lottato riuscendo a bloccarlo.
«Sta' fermo, lurido figlio di puttana!», gli ringhia addosso, dandogli un pugno sulla mascella con il calcio della pistola quando l'uomo osa ribellarsi e sputargli addosso un insulto.
Quello sotto il mio ginocchio si muove. Ha puntato un pezzo di vetro sul pavimento. Schiaccio immediato la sua mano proprio sul coccio affilato facendolo urlare e provocandogli uno squarcio.
«Prevedibile e lento», schiocco la lingua tra i denti. «Adesso tu e io ci divertiamo, piccolo bastardo», sibilo a denti stretti. «Non avresti dovuto infilarti in questo palazzo come uno scarafaggio e credere di farmi fesso».
Sollevo la testa controllando la soglia. Blue, adesso tiene stretta la sua bambina. Con un braccio avvolge anche Eden.
Non dovrei, in qualche modo mi sento orgoglioso del modo in cui ha protetto entrambe e prima ancora ha difeso se stessa. Evidentemente non sa che Eden è stata addestrata con ulteriore cautela dopo gli eventi passati; anche se al momento sembra quella maggiormente scossa e presa alla sprovvista.
So che di ritorno a casa continuerà a rimuginarci sopra e a farsi le paranoie per non essere stata in grado di agire.
Ma la paura è così. Tira brutti scherzi e mira alle debolezze. Eden ha ancora una grossa ferita da far rimarginare.
«State bene?», chiedo loro.
Eden annuisce, gli occhi puntati su Dante, il quale sta facendo sollevare l'uomo ancora nascosto dietro il passamontagna.
Blue esita, stringe ancora di più la sua bambina. La mia attenzione si sposta su di lei.
Isobel è spaventata. Sta piangendo e sembra inconsolabile. Se non fossi occupato a tenere a freno il cane che ha osato metterla in pericoloso, sarebbe già tra le mie braccia.
In qualche modo, io e lei, abbiamo stabilito una tregua. Non mi fa più paura tenerla tra le braccia o darle da mangiare. Sono solo terrorizzato che possa in qualche modo farsi male a causa mia. Lei merita una vita serena. Merita di avere un'infanzia felice, insieme alla sua forte mamma.
Contraggo la mascella, abbasso gli occhi sull'uomo e lo sbatto ancora contro il pavimento. «Ringrazia che mi servi, perché saresti già dall'altra parte del mondo, in procinto di vedere il diavolo e scontare la tua pena. Sfortunatamente avrai me come giudice e ti assicuro che l'inferno a confronto sarà una passeggiata», lo minaccio, nel frattempo lo costringo a mettersi in piedi. Ed è allora che dentro questa catapecchia messa a soqquadro arriva la squadra di Dante. Tra questi c'è anche Ace, pronto a dare il suo aiuto come medico.
Si ferma davanti a Blue, le dice qualcosa mentre sfiora la testolina di Isobel. Lei gli risponde agitandosi, indicando davanti a sé, e lui annuendo si precipita verso Hudson, mentre gli altri si assicurano che non ci siano uomini in agguato o trappole installate e pronte a scattare.
Terrence si porta alla mia destra. Afferra l'uomo ammanettandolo e mi fa cenno di lasciarlo a lui.
«Col cazzo che te lo lascio prendere così!», esplodo.
Gli basta una mia occhiata per capire. Mi indica il piano di sotto e lo trasportiamo nel furgone dove legato e insieme agli altri suoi compari, non può che attendere il suo destino.
Una barella trasporta Hudson dentro l'ambulanza verso il piccolo ospedale della centrale, nella nuova base operativa istallata da Dante.
Parlo con lui per avere il diritto di interrogare a modo mio quei bastardi. Dopo un'estenuante trattativa, lui accetta, continuando a dare ordini a destra e a manca senza mai fermarsi per farsi medicare. Ha un brutto livido sullo zigomo e le nocche insanguinate.
Blue si ferma sotto il portico, gli occhi arrossati, la bambina al petto.
Mi precipito da lei. «State bene?», ripeto la domanda come un disco rotto.
«Dove lo portano?», gracchia.
«Dei medici qualificati si prenderanno cura di lui. Sei ferita?»
«No, ma Isobel... lei... è spaventata», le trema la voce. «Non riesco a calmarla. Deve sentire il mio stato di agitazione. E se avesse appena subito un trauma?»
Ignorando ogni singolo campanello d'allarme che continua a suonarmi nella testa e ogni pensiero negativo che affiora, mi sporgo, prendo la bambina e sollevandola un po', in modo da essere faccia a faccia con lei, la guardo torvo. «Scimmietta, lo sai che sei brutta quando piangi. Diventi come un'alieno ubriaco e incazzato».
Le trema ancora il labbro, ma ha smesso di piangere.
«Davvero brutta. Preferisco quando sei più una sorta di elfetta testarda pronta ad ammaliare chiunque con quegli occhioni».
La sollevo ancora di più facendola saltare e lei finalmente mi sorride. Protende le manine paffute e quando l'avvicino al petto mi si stringe addosso gorgogliando.
«Che ne dici di tranquillizzare la mamma?»
Sento un singhiozzo, mi volto e Blue mi fissa con una tristezza che non avevo ancora avuto modo di notare in quegli occhi teneri.
«Ha fiducia in te», tira sul con il naso.
Lo stomaco mi si contorce dolorosamente. Avverto una brutta tensione. So che non mi piaceranno il resto delle sue parole. Vorrei poterle non ascoltare.
«Come faremo quando non saremo più qui? Quando non ci sarai tu a prepararle la mela o a viziarla. Quando non le dirai che è bella quando sorride», le manca la voce e si tappa la bocca. Il suo viso diventa pallido, barcolla, le sue palpebre sfarfallano e i suoi occhi diventano assenti.
«Kelebek, che succede?»
Porta la mano al petto facendo una smorfia. «Non è niente», mi fa cenno di ridarle sua figlia. «Devo andare dal signor Hudson. Non posso lasciarlo solo. È colpa mia».
Fatica a parlare e sudore freddo le sta imperlando la fronte.
Non mi piace il modo in cui il labbro le sta diventando viola.
«Ace? Mi serve un medico!», urlo.
Lui corre da noi quasi lanciando la cartellina che tiene tra le mani. Ma non arriva in tempo. Blue lascia uscire un suono simile a un sibilo di dolore prima di accasciarsi a terra priva di sensi.
«Blue?»
Eden prende la bambina quando gliela passo con cautela e mi inginocchio accanto alla ragazza svenuta.
«Che cos'ha?», domando preoccupato, mentre Ace le ausculta il cuore.
«Il polso è debole. Dobbiamo portarla subito in ospedale», fischia e in breve la caricano su una seconda barella.
«Ace, che cazzo le succede?»
Si ferma di fronte a me, gli occhi spalancati. «Non lo so», ammette e sembra davvero spaventato. «Ma ci assicureremo che si riprenda».
Non so chi dei due stia tentando di calmare.
Salgo e mi siedo al suo fianco sull'ambulanza. Me ne frego se non posso o se dovrebbe esserci Ace al mio posto.
Durante il tragitto, Blue resta così immobile da sembrare morta. La mia mano sfiora la sua ma è fredda e non ricambia la stretta.
La paura si intensifica e come una stilettata mi trafigge insieme ai ricordi.
Dentro di me sto implorando il destino di non farlo di nuovo. Di non infangare la mia anima con un'altra perdita.
Solo quando raggiungiamo la sala e lei viene controllata e sedata quando ha una crisi, e sono costretto a uscire dalla stanza, mi concedo un momento per riprendermi scivolando a terra con i palmi sul viso.
Dentro la testa prende piega un solo pensiero e so che sarà la cosa giusta da fare per proteggermi. Perché non succederà di nuovo. Non può.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora