✍ Capitolo 6

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Abbiamo finito di mangiare e siamo diretti in un posto che sicuramente le piacerà, la libreria.

Grace si è seduta su una poltroncina e sta sfogliando un libro, sembra in un altro mondo, spensierata e felice, per questo non voglio disturbarla.

Prendo anche io un volume che mi interessa e inizio a soffermarmici sopra, anche se il mio sguardo prima o poi va sempre a finire su di lei.

Lascio il libro e mi dirigo verso Grace, che con lo sguardo mi sta cercando.

«Ti piace questo?» Fa segno di sì con la testa, ogni tanto quando fa così mi vien voglia di baciarla, ma allontano subito quel pensiero.

«Okay. È tuo, andiamo a pagarlo vieni» Mi prende la mano.
«Grazie non devi davvero, poi non mi merito regali di nessun genere... sai... per prima»

Abbassa lo sguardo imbarazzata. Le alzo il mento con la mano.

«Non essere timida. È un mio regalo, e te lo faccio molto volentieri se ti rende felice. Poi hai promesso, e le promesse si rispettano, giusto?» Sorride mordendosi lievemente il labbro.

Oddio.

"Non guardarle le labbra, non farlo!"

È quello che continua a ripetere la mia vocina interiore, e se non la ascoltassi finirei nei guai.

Andiamo alla cassa e pago il suo libro, e poi prendendomi per mano usciamo dalla libreria.
«Cosa ti va di fare Gri?»

Sorride quando pronuncio il suo strano soprannome. «Andare in un parco magari... sai, per parlare un po'»

Prende la sua treccia e la mette di lato, sembrando sempre più carina.

«Mi sembra un'ottima idea. Ma posso chiederti una cosa prima?»
Fa un segno di consenso con la testa.

«Perché mi stringi così forte la mano?»

Appena lo dico si infiamma e diventa tutta rossa, mollandomi la mano.

«Non ho detto che mi dai fastidio, voglio solo sapere il perchè.»

È imbarazzata ma sorridente.

«Beh... mi fa sentire un po' più al sicuro. Non lo so, mi da un senso di... sicurezza.»

oh, le riprendo la mano e lei sorride, timida.

«Andiamo. Deve esserci un parchetto da queste parti.»

Dopo una ventina di minuti, entriamo in un giardino.

Mi guardo intorno e vedo che siamo in un posto tranquillo.
Mi avvicino a una panchina e lei mi segue, guardandomi mentre mi siedo per poi sedersi accanto a me.
Sorrido non appena vedo che si stringe la mia giacca di Jeans troppo larga e lunga per il suo corpo.
Ora noto che forse le maniche del suo maglione sono troppo lunghe per le sue delicate braccia, ma poi capisco che é lei che tende a coprirsi i polsi per ciò che ha appena fatto al ristorante.

Appena ricordo quello che era successo mi sono venuti i brividi lungo la schiena e prima che me ne rendessi conto, sento che pian piano la rabbia aumenta sempre di più, stringendomi le mani in un pugno.

Grace guarda per terra, evitando il mio sguardo. Si sente imbarazzata per qualcosa?

«Vuoi sapere cosa sono le cose che ho sulla pancia, no?» La guardo negli occhi azzurri, e capisce la mia risposta.

Sono sorpreso, sbalordito dalla sua immediata domanda senza fare giri di parole. Sono contento che lei iniziasse a fidarsi di me, a raccontarmi cosa le era successo.

Questo passo che lei sta facendo é importante, sta iniziando di nuovo ad aprirsi, a lasciarsi aiutare, a togliere tutto il dolore accumulato nell'ultimo anno che era sepolto dentro il suo cuore.

Sono pronto ad ascoltarla, sarei stato sempre pronto ad aiutarla e starle vicino.

Dopo una breve pausa, inizia a raccontare.

«Tendeva a picchiarmi quando era ubriaco. Bé anche quando non lo era, ma almeno aveva un contenimento. Quando beveva no. Da quanto era marcio un giorno ha rotto una finestra a pungi, e con i pezzi di vetro se l'é presa su di me. Per poco non morivo.»

Riesco a sentire il suo corpo irrigidirsi quando smette di parlare fissando sempre le sue mani.

«E più piangevo e urlavo più rideva. Gli piaceva vedermi soffrire, contorcere sotto di lui.»

Fa un'altra pausa e cade il silenzio tra di noi. Mi limito a chiederle una domanda senza troppa esigenza.

«E gli altri graffi invece?» Cerco il suo sguardo ma nulla, non mi guarda.

«Le solite fustigate con la cintura se non facevo quello che mi diceva di fare. E le sigarette, quello é più complicato.»

É così seria quando parla di questo. Così adulta. E mi si stringe il cuore a sentire cosa le era successo. Forse sto tirando troppo la corda. Ma devo farle un'altra domanda.

«Cosa ti chiedeva di fare?» Non mi risponde subito.

«Sedermi, smetterla di urlare o di piagnucola, pulire i piatti, stare ferma, spogliarmi...» La voce le muore in gola, come quando mi aveva raccontato di cosa aveva paura.

Aveva la brutta abitudine di non raccontare mai nulla, che poi, fino in fondo, non è così terribile come abitudine. Semplicemente non voleva disturbare nessuno con i suoi problemi e dolori, preferiva lasciarli per sé, lì nel cuore senza mai tirarli fuori.
Ma ora che ci sono io, ho visto che non era una sua abitudine questa, aveva solamente bisogno di una persona che sia disposta ad ascoltarla, ed io sono quella persona.

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