Cap.25 - Segreti, Hiroshima pt.3

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Stanza 1214, ore 00.45

Nella silenziosa semioscurità della camera appena illuminata dalle luci della città che filtravano attraverso la finestra, il condizionatore al massimo e le lenzuola affastellate in un mucchio caotico ai suoi piedi, Razen era disteso in boxer sul letto intento a giocherellare svogliatamente con l'accendino, lanciandolo in aria con la mano sinistra a intervalli regolari nel tentativo di prendere sonno e di sbrogliarsi ancora una volta dalla fitta rete dei propri pensieri.
Era evidente che anche Hanami durante quel pomeriggio avesse realizzato quanto potesse risultare incredibilmente semplice stare l'uno accanto all'altra una volta compresa del tutto la vera essenza di quel tempo passato insieme, senza la minima ombra di innaturalezza, di fatica nel dover misurare a ogni secondo qualsiasi sguardo, gesto o parola per la paura di sporgersi troppo oltre l'orlo del baratro e non avere la forza di non lasciarsi inghiottire; anche lei si era resa conto fino in fondo di quanto al di là di tutto il resto la fermezza dei loro propositi fosse indispensabile per riuscire a mantenere viva la fiamma della reciproca presenza nelle proprie esistenze, la sola cosa che contasse davvero e che avrebbe continuato a rischiarare il loro cammino sebbene condotto su strade diverse.

Sapevano già di aver preso la miglior decisione possibile, e quel giorno infine ne avevano avuto la prova.
Sembrava tutto così cristallino, così razionale, così sensato.
Così controllabile.

E poi, all'improvviso, raggiunto quell'angolo di mondo completamente al di sopra dello spazio e del tempo, si erano persi, abbagliati dall'ingenua e stupida illusione di poter sfuggire alla realtà che pochi attimi dopo si era invece abbattuta sopra entrambi come un'ascia.

Ma non era questo, ad andare avanti a tormentargli il cervello come un tarlo.

No, era la profonda, innegabile coscienza del fatto che l'unica illusione da cui si erano lasciati ingannare - sì, era certo che fosse stato lo stesso anche per lei - era proprio quella spiegazione che la loro mente aveva costruito per giustificare in qualche modo ciò che era successo: non si era trattato affatto di ricevere benevoli segnali o grazie dal destino camminando su una terra misteriosa; si era trattato solo di volontà, del disperato volere di entrambi di far sì che in quel luogo straordinario ma in tutto e per tutto terreno anche ciò che c'era tra loro potesse finalmente materializzarsi almeno in quegli istanti ignorando ogni tipo di responsabilità, ripercussione o scrupolo morale prima di nascondere sotto la sabbia e dimenticare lì quella debolezza come polvere sotto un tappeto.
Già, esatto, debolezza, perché nonostante il senso di colpa e l'incessante autocondanna - in particolare da quando avevano lasciato Tokyo - di qualunque pensiero anche solo lontanamente capace di minare la risolutezza dei loro intenti erano comunque esseri fatti di carne e sangue che erano stati sul punto di dare piena dimostrazione dei più profondi timori di Seihachi e Shinichi soprattutto riguardo quel viaggio; anzi, peggio, perché sebbene non fosse accaduto l'irreparabile quella sera avevano lasciato che la loro coscienza precipitasse in caduta libera come mai prima di allora e i loro sentimenti padroni di prendere forma con la consapevolezza di non avere la minima intenzione di confessarlo.

E diamine, se quello che c'era tra loro aveva preso forma; certo, c'erano stati altri momenti in cui aveva potuto intravederla e sentirne la presenza, ma mai in modo vivido quanto su quell'isola: come poteva dormire, quando chiudere gli occhi significava smarrirsi di nuovo nell'inebriante profumo dei capelli di lei in cui aveva affondato le dita per la prima volta, o nel primo, bramoso reclamare il suo corpo e percepirne la morbidezza dei contorni sotto i polpastrelli attraverso il tessuto leggero del vestito mentre le sue mani delicate gli afferravano impazienti la maglia solcandogli il torace, o ancora nel desiderio che gli aveva offuscato la mente cogliendolo anche nel suo sguardo, udendolo in quell'impercettibile gemito e nell'attimo di quell'impalpabile primo assaggio delle sue labbra?
Come poteva dormire, ora che aveva iniziato a conoscere davvero a cosa aveva scelto di rinunciare, ora che il dolore dietro a quella scelta era diventato quasi insostenibile come la stretta del rimorso che lo attanagliava nel sapere che pur non essendo accaduto nulla di fatto chiudere gli occhi a quel punto non significava più soltanto sognare, ma rivivere, nel non riuscire a fare a meno di pensare che se erano veramente questi gli ennesimi fardelli che sarebbe stato costretto a portare per sempre sulle spalle allora forse avrebbe dovuto alzarsi, bussare alla porta che separava le loro stanze e mandare sul serio tutto al diavolo per una notte così da non doversi addossare anche il peso perenne del rimpianto?

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