Capitolo 13

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• Capitolo 13 •

Palcoscenico



Il generale era rimasto lì dove Yoko l'aveva scacciato, tramortito ma non senza forze. Era a terra, guancia sul pavimento, sguardo perso e gola che bruciava tanto quanto gli occhi. I pugni si strinsero dopo non molto, cominciando ad affondare le unghie resistenti e non tagliate nella carne dei palmi. Le labbra si premevano tra loro sempre di più come se una avesse voluto aprire un varco nell'altra. I respiri si fecero imponenti, soffocati, strozzati e pesanti, poi, arrivarono delle lacrime che nemmeno il generale stesso si accorse stessero scendendo lungo le sue guance. Aprì leggermente la bocca, dischiuse quelle labbra sofferenti e si spostò i lunghi ciuffi di capelli dal viso, per non farli inumidire. Respirò a bocca aperta ed i suoni malinconici che ne uscirono valsero molto più di tante altre parole che avrebbe potuto. Singhiozzi inermi e soffocati riempirono quella stanza silenziosa dove c'era solamente lui che non si era mai sentito tanto solo.

Si rialzò, tentando di non pensare a quanto potesse far pena essere visto in quel modo. Si asciugò le lacrime calde con rabbia, graffiandosi il volto con la ruvida stoffa della divisa. Respirò ancora, profondamente, tirò su col naso pateticamente come fosse diventato uno stupido moccioso incapace di trattenersi inutili pianti. Si voltò e prese a camminare dritto verso la porta che conduceva all'ingresso principale per poter uscire da quel teatro di perversione. Gli pareva che i fantasmi di coloro che erano ancora vivi, stessero ancora lì coi loro tavoli, con i loro sigari e il loro oppio intenti a godersi sguaiatamente quello spettacolo di ragazze innocenti portate lì con la forza o costrette da una inadatta situazione economica. Non provò emozioni alla vista di quei fantasmi, alla vista di quelle allucinazioni, ma gli apparve davanti, sul palco, un'immagine di Yoko, col kimono che indossò quella sera, che ballava lentamente da sola, con lo sguardo triste e sofferente. Era solo tristezza, non stava soffrendo davvero. Lo sapeva perché solo lui sapeva cosa fosse il vero dolore. Solo lui poteva capire se qualcosa poteva far soffrire qualcuno o no, di certo non Yoko.

Una volta in prossimità della porta, questa si aprì dall'esterno, svelando la figura esile e servile del vice generale. L'altro fece in fretta ad assumere un portamento degno di un dittatore, di un capo di stato e fece scomparire i segni delle lacrime sul volto.

"Heizo, che ci fai qui?" disse con calma, mentre l'altro si accingeva a chiudere la porta dietro di lui.

"Ho sentito degli strani rumori mentre vegliavo sulla vostra stanza, ma non provenivano da lì, quindi mi sono accorto che non eravate a letto. Sono sceso qui per vedere cosa vi stesse accadendo, signor generale."

"Che cazzo dici, Heizo..." Sbuffò lui. "Non ti ho mai ordinato di farmi da bambinaia, e poi..." Guardò meglio l'amico che si nascondeva sotto la visiera del cappello. "Cos'è quel ghigno malefico? Di solito sono l'unico dei due che ghigna in quel modo. Sei strano Heizo e stai anche sorridendo. Che ti prende?" Lo guardò titubante.

"Non mi succede nulla, signor generale, è solo che mi è mancata una serata in vostra compagnia piena di divertimenti, non credete?"

"No, non mi importa di cosa ti manca, Heizo. Sei strano, torna al tuo posto e lasciami in pace. Stando qui non fai altro che inquietarmi, sembri posseduto. Hai bevuto, cretino?"

"No, signor generale, mio signore, sono sempre io, il vostro umile servitore Heizo. Non ho bevuto, sono solo più disinvolto del solito." Continuava a dire il giovane, con una leggera aura viola che gli copriva gli occhi e con un bagliore rosso nelle pupille: sembrava davvero posseduto da qualcosa.

Sotto mille ciliegiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora