𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 36

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𝙲𝚊𝚜𝚊.

ɪʀɪɴᴀ

Un fratello.

Non uno qualunque, non per metà.

Un fratello, sangue del mio sangue, osservava il torpore che aveva devitalizzato il mio corpo e la mia mente. Chiunque al mio posto avrebbe smentito quelle parole, chiunque al mio posto avrebbe rinunciato a dar ragione a quel fatto. Ma non io. Io gli occhi di quel ragazzo li conoscevo, il suo guardo criptico e dalle ombre malinconiche non avevano bisogno di un accertamento. Il suo viso aveva le stesse fattezze dell'uomo che avevo sempre prediletto e mai conosciuto. Aveva le stesse labbra, gli stessi capelli, lo stesso naso, persino la stessa espressione macchiata di ira.

Non trovai le parole per esprimere i miei pensieri. La rivelazione di mia madre, su ciò che era veramente successo anni prima che io nascessi, sul vero problema che era sempre stato alla base di una crepa che si era allargata fino a formare una disfatta mi stava ancora sfottendo dentro.

Un fratello non era ancora un fatto da lasciar passare nella mia testa.

Lì per lì sarei rimasta inerme a non dire nulla. Sarei rimasta a cercare sempre più familiarità con il volto di quel ragazzo, fino a trovarne i difetti che aveva anche l'uomo a cui assomigliava. L'avrei fatto ancor prima di conoscerlo ma trovai la forza di alzarmi e gettare la spugna.

Diedi loro le spalle mentre il mio passo ancora sicuro avanzava verso le due porte, dove Markus, Elliot e Edgar avevano assistito a quell'ultima parte. «Sentitevi come a casa vostra qui. Nessuno vi darà fastidio qui.» mormorai pacata sebbene dentro tutta la mia integrità crollava ancora una volta come una piramide di carta.

Non avevo più la forza di provare odio, né rabbia, né repulsione. Mentalmente mi rimpicciolii fino a diventarne uno spettro e così camminai sentendomi invisibile a tutti i presenti.

Raggiunsi la stanza dove per la prima volta mi ero permessa di fidarmi di Edgar e lì crollai.

Un dolore allucinante allo stomaco mi fece piegare in due. Non riuscii più a reggere quella crudeltà e mi lasciai andare. Gattonai sul pavimento fino al giroletto e mi chiusi in una posizione fatale dando le spalle al letto.

Quante volte avevo gestito quella sensazione di essere sul punto di disintegrarmi eppure non riuscivo ancora a dominare quella caduta. Sprofondavo e lo facevo sempre con troppa facilità.

Un tocco improvviso sul capo mi pietrificò.

«Irina.»

La voce di Edgar mi colpì in un punto ancora fragile. Il cuore. E mi vergognai a farmi vedere di nuovo debole. A farmi vedere per quella che non volevo e non ho mai voluto essere, una donna incapace di reggere il dolore.

Mi strinsi ancora di più, nascondendo il volto. «No, sto bene.» gracchiai. Il nodo alla gola mi stava negando l'aria. «Sto bene, sto bene.» ripetei fino a perdere controllo del mio respiro. Accelerò e non riuscii più a tranquillizzarmi.

Edgar provò a disfare le mie braccia, provò a prendere il mio volto tra le sue mani per incontrare i miei occhi, ma io non volevo. «Non mi toccare, Edgar.» frignai, «Perché non ha fatto niente?» gli chiesi, «Che razza di uomo se ne sta con le mani in mano di fronte una cosa simile?», piansi amaramente ogni parola, ogni sillaba che usciva dalla mia gola e quando non riuscii più a starmene inerme alzai il capo e guardai finalmente Edgar, «Che Idiota!» gli urlai in faccia.

Lui rimase calmo, inginocchiato di fronte a me, allungò di nuovo le mani e cercò di abbracciarmi. La prima volta glielo negai severamente. «No, vattene!» gridai ma lui non mi diede ascolto, «Lasciami.» ripetei ma lui insistette, mi attirò a sé e mi strinse con la forza. «Lasciami.» gli sussurrai un'ultima volta eppure trovai conforto tra le sue braccia e mi feci piccola, sciogliendomi tanto da ritrovare i pezzi smarriti della mia coscienza. «Edgar.» piansi con un filo di voce quando la realtà tornò a prendere forma.

Devotion // Famiglia e Lealtà //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora