𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 18

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𝙳𝚎𝚕𝚒𝚝𝚝𝚘.

ɪʀɪɴᴀ

2 novembre 2011
Las Vegas Downtown, Las Vegas
Nevada, USA
Ore: 22:18

Il passare del tempo era diventato fortuito.

Lo gustavo con la stessa sensazione con cui avrei studiato un quadro che non capivo ma a cui invano cercavo di dare un senso. Non mi piaceva riflettere troppo sulle cose che a fine giornata assumevano sempre la stessa forma che avevano al mattino e non mi piaceva esprimere la grandezza del caos che marciva nel mio petto con nessuno.

Qualche volta, uno sguardo al passato, mi permetteva di tenere la testa ben aperta sul presente, di dividere la mia vita tra la parte di me che ci stava prendendo la mano e quella che si sentiva ancora smarrita e piena di domande esattamente come la prima volta che vidi quel estraneo aspettarmi nella penombra della stanza del motel.

Vedevo sempre più da lontano quella festa e la scelta che avevo preso nel momento in cui mi sentii forte come non mai.

A quel punto era passato abbastanza tempo da farmi credere che forse era tutto finito. Che forse potevo davvero cominciare a vivere qualcosa di nuovo, qualcosa che non riguardasse più il mio sangue e la mia condanna, qualcosa che mi facesse sentire libera, di nuovo, proprio come in quei cinque anni di fuga.

La musica nel locale di Edgar smanettava i miei pensieri, li rendeva fluidi, qualcosa nel modo di torcigliare i suoni delle canzoni, confondendole tra di loro, non mi guastava.

Le serate nel suo casinò erano diventate sempre più frequenti. Mi piaceva osservarlo nel suo habitat. Mi piaceva entrare nei suoi modi di fare, di come a sua volta studiava le persone che aveva davanti. Gli bastava una sola occhiata per inquadrarle e poi non guardava più. Che fosse brillante, il padre, non aveva torto.

Giocava spesso con i suoi ospiti e non perdeva mai. Quella smorfia che io detestavo sul suo volto era la sua "poker face" e faceva affari con quella come sfiorava le fiches, delicatamente come se fossero fatti di vetro.

Eppure più informazioni raccoglievo, più lui si allontanava. Forse non gli piaceva essere compreso, forse non mi voleva nella sua testa come lui viveva nella mia, nei miei dubbi e nelle mie paure.

E poi c'era Elliot, sempre al suo fianco.

Quel ragazzo non parlava molto ma quando lo faceva gli piaceva molto scherzare o esprimere qualche sospetto. A volte mi dava l'impressione di essere un tantino paranoico. Era sempre circondato di ragazze ma non le interessavano tutte. Amava quelle sfacciate, quelle che lo guardavano dritto negli occhi e gli parlavano chiaro.

«Ne vuole un altro, signora Dutton?» la barista del locale alzò la voce per parlare sopra la musica. Era una tipa forse sui trent'anni con più tatuaggi che vestiti a coprirle il corpo e mi sorrideva sempre un po' più di quanto lo facesse con gli altri.

Le allungai il bicchiere vuoto del negroni che avevo sorseggiato e fui sul punto di dirle per l'ennesima volta di smettere di chiamarmi signora Dutton ma non ci provai nemmeno. Nessuno mi dava ascolto, nessuno osava chiamarmi per nome, solo signora Dutton, la giovane moglie di Edgar Dutton.

«Fallo più forte.» esigetti.

Il sorriso di quella si allargò dietro un cenno di capo e si mise all'opera.

«Ci raggiungi di sopra?» Elliot mi parlò all'improvviso. Si sedette con le spalle rivolte al bancone del bar e mentre gli davo una veloce occhiata, lui e il suo sguardo indagatore, prese di mira la folla che si scatenava sulla pista poco più in là.

Devotion // Famiglia e Lealtà //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora