𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 1

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𝙻'𝚒𝚛𝚘𝚗𝚒𝚊 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚜𝚘𝚛𝚝𝚎
ɪʀɪɴᴀ

23 settembre 2011
SweetChic
El Cajon, Contea di San Diego,
California, USA
Ore: 4:25

All'origine di ogni mio pensiero mi piaceva percorrere e ripercorrere, ancora e ancora, ciò che restava del passato. Era come ripetere un numero, una data, un evento per paura che questo andasse perso per sempre. Non mi era chiara la vera ragione per cui lo facevo eppure non tardavo mai spolverare certi frammenti.

Riuscivo, giorno e notte, in qualche modo, a rimettermi nei panni di quella ragazza, a seguire con i suoi occhi le foglie dell'albero di quercia, a rivedere quei due corvi farsi guerra accanto alle lapidi e mi sembrava tutto irreparabilmente privo di sentimento. Ogni cosa di quei ricordi pareva molto, molto lontano dal toccarmi e avevo ragione di credere che il vero motivo per cui ero così indifferente a quei sentimenti era il dolore. Un dolore che non ero mai riuscita ad esprimere. L'avevo rintanato, l'avevo conservato dietro un ammasso di domande che offuscavano tutto.

Eppure mi domandavo spesso, come sarebbe stato quel dolore.

Come l'avrei provato?

E ancora di più volevo sapere perché tra tutti i ricordi che rievocavo, alcuni cominciavano a sbiadire più degli altri, eppure erano proprio quegli che dovevano restare.

Quella stanza colma di estranei, per esempio, era uno di quei ricordi che, piano piano, si stava eliminando.

Era come tutti quei Fagarò mi stessero abbandonando una seconda volta e, sotto sotto, sentii che era un sollevo, dopo tutto, dimenticarli, sentii che –

«Ragazzina

Sentii che una volta lasciati tutti dietro, racchiusi nel loro stesso tetro mondo, sarei stata libera, libera per davvero.

«Ragazzina

La libertà aveva il suo fascino in fondo. Ero diventata un individuo solo, tanto solo, e qualcosa di quel sentimento mi piaceva, mi piaceva avere il controllo di ciò che in passato mi era stato tolto, mi piaceva pensare che era più facile disintegrarsi di colpo e nessuno se ne sarebbe accorto.

«Ragazzina, sto parlando con te! Sei sorda?»

L'ultimo acquisto di Sharon, batté le mani sul bancone del bar, mi rivolse uno sguardo colmo di rabbia da sotto un cespuglio di ciglia finte e sbuffò spazientita. Sembrava una ragazzina intrappolata nel corpo di una donna.

La guardai a stento e mostrai ben poco interesse nei suoi riguardi. «Che vuoi?» le chiesi svogliata, cercando di non fiatare troppo e di lasciare più occhiate ai bicchieri di cristallo che non brillavano mai abbastanza nonostante la mia minuziosa pulizia.

Per di più, detestavo l'odore che c'era in quel posto, tra le false righe di angoli illuminati da luci a led scadenti che facevano venire mal di testa.

Ripugnante da provocarmi brividi quel fetore. Mi dava la nausea, non riuscivo in nessun modo a farmelo andare bene.

Mi schifava di più tollerare la consapevolezza di sapere in che cosa consisteva una tale miscela tanto acre da imbrattarmi persino i pensieri.

Sudore, fetore di uomini arrapati, alcol, donne sporche di sguardi affamati e infine un pizzico di disperazione, disperazione di non poter sperperare i propri soldi sulle puttane giuste.

«Devi dire a quella stronza di Sharon di licenziare Frank! Mi hai capito?» sbraitò tanto da far uscire schizzi di saliva da quelle labbra screpolate. «Non intervenne mai! Lascia sempre che quei porci mi tocchino!» inveì, continuando a sputare qua e là.

Devotion // Famiglia e Lealtà //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora