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Il dottore ci osserva per qualche secondo e apre la cartella che ha in mano.

«I valori non sono cambiati e l'ascite è aumentata di poco. Ha ingerito troppo alcol e il fegato è sul filo del rasoio; ha quasi perso ogni funzione», spiega. Io, Carlos e mamma ci lanciamo un'occhiata preoccupata. «C'è la possibilità che venga colpito da encefalopatia. Potrebbe non riconoscervi e compiere più volte lo stesso gesto. Sbalzi d'umore e confusione sono i primi sintomi. Quando la cirrosi diventa scompensata non c'è più nulla da fare. Posso prescrivere un farmaco per attenuare la malattia ma, a lungo andare, non servirà più. L'encefalopatia è la botta finale».

Odio questo dottore. Odio il suo modo di parlare. Odio il finto buonismo che manifesta.

Mi isolo dalla sala d'attesa e corro fuori. Piove. Ciò non aiuta il mio umore. Resto sotto la pensilina per qualche minuto. Qualcuno mi affianca. Lando non proferisce parola. Lo guardo di sottecchi e lo sorprendo a fare lo stesso. Non ha più l'espressione dura di stamattina. Le nostre dita si sfiorano.

Non mi curo di una sua possibile reazione negativa. Lo abbraccio, bisognosa di una spalla su cui piangere.

Questo silenzio mi sta uccidendo.

Mi allontano per poterlo guardare. Trattiene il respiro quando traccio il contorno delle sue labbra con l'indice.

«Che...che stai facendo?»

«Non lo so», mi ritrovo a dire. Per un attimo dimentico Charles. «Qualunque cosa ti passi per la testa non farla», mormora.

«Mi dispiace», dico invece. «Lascia stare. Non voglio discutere proprio ora. Sei scossa. Potresti dire cose di cui ti pentirai». Allontana la mia mano dal suo viso e indietreggia fino a rientrare.

Mi siedo sulla panchina e mi prendo la testa tra le mani. Chiamo Lola. Ho bisogno di lei. La aspetto mentre la pioggia continua a battere contro l'asfalto.

«Vic, che ci fai qui sotto? Dai, entriamo!»

Lola mi afferra il braccio e mi trascina verso l'entrata. La abbraccio. Non proferisco parola; sono troppo stanca per farlo. Mio fratello ci raggiunge e saluta la mia amica con un bacio sulla guancia.

«Vic, è meglio se tu torni a casa», consiglia Carlos guardandomi negli occhi. «Lola, le fai compagnia?»

La Bionda annuisce comprensiva. «Voglio restare qui con papà», mormoro. «Sei ancora troppo scossa. Torna a casa, fatti una doccia, mangia qualcosa e riposati. Domani lo vedrai, d'accordo?» dice dolcemente mio fratello e mi abbraccia, stringendomi forte.

Lola mi prende per mano e corriamo sotto la pioggia per raggiungere la fermata dell'autobus all'uscita dell'ospedale. Una volta a Shaftesbury Avenue, è facile raggiungere casa. Siamo inzuppate d'acqua.

Presto qualcosa di pulito a Lola e va a cambiarsi mentre io accendo il riscaldamento e sfilo i vestiti bagnati per indossare un pigiama in pile. Casa è così vuota. L'occhio mi cade sulle foto con papà poste sulla cassettiera. Sono la sua preferita, mentre Carlos è quello di mamma. Una lacrima mi solca il viso e mi affretto ad asciugarla.

«Ordino una pizza?» domanda Lola uscendo dal bagno e faccio un cenno del capo.

Nella foga non ho messo nulla sotto i denti. Sono le dieci di sera e il mio stomaco non fa altro che brontolare. Il mio telefono vibra, segno di un messaggio.

"Carlos mi ha raccontato di tuo padre. Mi dispiace tanto. Come stai?"

È Charles. Decido di non rispondergli. Non ho le forze di affrontare una conversazione con lui.

Filo in salotto e accendo la televisione. Nulla può curare il mio umore. Lola si siede al mio fianco e mi fa cenno di poggiare la testa sulla sua spalla mentre le sue braccia mi circondano il busto.

Victoria // Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora