36. I'm the one, can you feel it?

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«Bisognerebbe metterle un'etichetta:"bambina fragile", eh?»

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«Bisognerebbe metterle un'etichetta:
"bambina fragile", eh?»





«Bisognerebbe metterle un'etichetta:"bambina fragile", eh?»

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🌒🌕🌘



Era mattina, in tutto il Regno Unito.
Era ora di svegliarsi dai brutti sogni, saltare giù dal letto e cominciare a fare programmi per un futuro radioso.
Ovviamente, non se vivevi a Glastonbury.

Se vivevi in quel luogo dimenticato da Dio, l'unica cosa che potevi fare era rintanarti negli incubi più belli come facevo io, proteggerti dalla pioggia con un bel paio di stivali antisesso e infilare il naso in una felpa termica, nonostante fosse ormai primavera. 
E buttare giù una bella spremuta di ottimismo e illusioni che ti sarebbe rimasta sullo stomaco per tutta la giornata.

Giocherellavo con i lacci della mia felpa osservando il soffitto con gli occhioni sgranati, con la testa perduta altrove, illudendomi che fossero il laccetto della camicia da notte che Draven aveva tirato verso di sé come se volesse vedere il tessuto cedere attorno alle mie forme.
Maledetto.
Laccetto.

«Avalon? Ci sei?»

«Eh? Cosa?»
Avevo entrambe le braccia appoggiate sopra il corpo di Gremory, che non si muoveva affatto ma era caldo e accogliente sotto delle coperte ben rimboccate.
«Sì.»

Grey era lì, sotto di me, ed era vivo.
Ero convinta che si fosse riaddormentato e che stesse dormendo da un po'.
Adesso che stava meglio volevo passare con lui tantissimo tempo.
Non volevo mai più lasciarlo solo.

Ma la vertigine come se il pavimento sprofondasse sotto ai miei piedi mi ricordava di un sonno che mi infiacchiva più del solito.
La vita di una narcolettica era questo, e nessun'altra particolare gioia rilevante, nessun entusiasmo che sprizzava dai miei pori come nelle protagoniste di quei libri che sembrano sempre fatte di anfetamine.

Sonno costante, da cui a volte finivo sopraffatta, e la paura che al passo successivo non si era più svegli per ricordarsi alcunché.

E tra le varie gioie quel giorno ero in ospedale, stringendo tra di me una copia di Jane Eyre originale del 1800.
Una di quelle da collezione che mi ero fatta comprare all'asta da uno dei curatori della nostra famiglia: era quel tipo di regalo per cui a Gremory, almeno qualche anno fa, sarebbero brillati gli occhi di portentosa meraviglia.
Adesso ne sfogliava le pagine come se facesse fatica, a immergersi di nuovo tra quelle pagine.

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