Capitolo 18 - Domande

666 14 0
                                    


Ramona provò per l'ennesima volta ad avviare la chiamata, ma la solita voce registrata la informò che il telefono era spento. I messaggi che le aveva inviato non erano stati letti, quelli delle ultime ore non erano nemmeno arrivati. Nessun aggiornamento dai social. Deja, che di norma postava senza vergogna le peggio stronzate, da giovedì era come scomparsa.

Se all'inizio la cosa l'aveva fatta incazzare, ora iniziava a essere preoccupata. Deja non era una che spariva di punto in bianco, che mollava il lavoro senza spiegazioni. Non era una testa matta come lei. Non più, almeno.

Andando avanti e indietro lungo il marciapiede, Ramona guardò verso le finestre di casa di Deja e avviò di nuovo la chiamata, mormorando un'incitazione a rispondere.

Quando la voce registrata si ripeté monotona, le imprecò contro e ficcò il cellulare in tasca.

Non voleva essere costretta a fare quel passo, ma era troppo in pensiero per restare lì a non fare niente. Come una condannata al patibolo, attraversò la strada e si avvicinò al portone.

«Lo faccio solo perché non mi ha lasciato altra scelta» si confidò Ramona con la campanelliera, prima di suonare.

L'appartamento di Deja era sempre stato off limits da quando, sei anni prima, lei, Jack e Gaia si erano trasferiti in quel vecchio palazzone, dopo che la madre se ne era andata.

Un bel giorno di maggio, Imma – diminutivo di Immacolata – aveva fatto i bagagli e aveva tolto il disturbo. Nessuna spiegazione, solo un biglietto. Deja non le aveva mai detto cosa ci fosse scritto, ma non importava: non si lasciano tre figli con un cazzo di biglietto.

Era stato un bel casino, lo ricordava bene. Il padre era morto due anni prima in un brutto incidente sul lavoro. Erano rimasti soli e all'epoca solo Jack era maggiorenne. Deja aveva perso l'ultimo mese di scuola, era scomparsa per quasi tutta l'estate e quando si erano riviste era cambiata. Era cresciuta troppo velocemente. Era arrabbiata e ferita, ma aveva fatto tutto quello che doveva. Jack era maggiorenne solo sulla carta e c'era una zia che teoricamente avrebbe dovuto occuparsi di loro, ma era sulle spalle di Deja che si era retta la famiglia.

Poi le cose piano piano erano migliorate, o forse il termine giusto era assestate. La loro vita si era assestata su un nuovo livello. Deja aveva lasciato la scuola e si era trovata un lavoro. Anche Jack, da coglione nullafacente, era diventato un coglione con un lavoro. Ci provava almeno, faceva quello che poteva per aiutare Deja, ma il suo problema era che era sempre stato un coglione.

Una voce metallica gracchiò qualcosa.

«Sono Mona. Apri» rispose, urlando contro il citofono.

Con uno scatto la porta si aprì. La osservò per qualche secondo, come se si accingesse a varcare un confine tra ciò che conosceva e l'ignoto.

«Ma che cazzo!» brontolò allungando la mano e spingendo la porta a vetri.

L'ascensore era rotto così si fece a piedi i quattro piani di scale, sbuffando e imprecando contro Deja e la sua bella pensata di tenere spento il cellulare.

Arrivata alla porta la trovò socchiusa. Come per il portone d'ingresso, esitò a compiere il gesto di aprirla, ma questa volta qualcuno lo fece per lei.

«Ciao, Mona» la salutò Gaia.

«Ehi» sollevò il mento Ramona come cenno di saluto, e allungò lo sguardo dentro l'appartamento per non restare a fissare la ragazzina.

Era un bel pezzo che non vedeva la sorella minore di Deja e trovarsela davanti trasformata da bambina all'abbozzo della donna che sarebbe diventata l'aveva messa a disagio. Si somigliavano molto le due sorelle.

D.D.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora