Mi sentivo esausta nel profondo, come se ogni cellula del mio corpo stesse lentamente spegnendosi. Ogni movimento era un tormento sottile, ogni respiro una fatica. Sdraiata tra le coperte, pallida e tremante, osservavo Voldemort in piedi accanto al letto, e per la prima volta vidi nei suoi occhi un'ombra che somigliava alla paura.
Era una paura muta, contenuta, ma viva. Il suo volto, di solito impenetrabile, era rigido, contratto in una tensione che non tentava nemmeno di nascondere. I suoi occhi si muovevano sul mio viso come se cercassero una risposta che nemmeno la magia poteva offrire.
«Mi dispiace,» sussurrai, la voce appena udibile, spezzata dal dolore e dalla debolezza. «Mi dispiace di metterti in questa situazione.»
Lui si chinò lentamente, prese la mia mano tra le sue — fredde, forti — e per un attimo non disse nulla. Ma lo sguardo che mi rivolse bruciava.
«Non devi scusarti,» disse infine, con quella voce bassa, scura, che in altri tempi incuteva timore e ora portava con sé una strana dolcezza. «La tua vita... è ciò che conta. Non c'è altro.»
Avvertii una stretta nel petto che non aveva nulla a che fare con la malattia. Era gratitudine. Era amore. Eppure il mio corpo cedeva, poco a poco, e mi sentivo come se stessi annegando in una calma opprimente.
Voldemort si alzò appena per aggiustarmi le coperte, con un gesto sorprendentemente attento, come se temesse che potessi rompermici dentro.
Mi avvicinai a lui con le ultime forze rimaste, cercando il suo calore, il suo respiro vicino al mio. Appoggiai la testa contro il suo petto, e lui mi strinse con un'intensità misurata, come se stesse lottando contro la possibilità di perdermi.
«Abbiamo superato prove peggiori,» mormorò. «E lo faremo di nuovo. Io non ti lascerò.»
Chiusi gli occhi, sentendo la stanchezza travolgermi come una marea lenta ma inarrestabile. Ma c'era lui. La sua voce, il suo tocco, il suo cuore che batteva ancora accanto al mio.
Mi svegliai di colpo, il respiro spezzato da un'angoscia che non riuscivo a spiegare. Le lenzuola erano umide di sudore, la gola stretta come da una mano invisibile. Mi portai una mano al petto, tentando di calmare il battito irregolare del cuore. Accanto a me, Voldemort dormiva ancora, immobile come una statua scolpita nel buio, il volto stranamente disteso, privo di ombre o tormenti.
Mi sollevai appena, cercando di trovare sollievo nella penombra della stanza, ma i pensieri bui si agitavano sotto la superficie della mia calma apparente. Quando mi mossi, lui si destò piano. I suoi occhi si aprirono senza fretta, puntandomi con quella calma inquietante che lo caratterizzava, ma stavolta c'era qualcosa in più: una lieve increspatura di preoccupazione.
«Ti sei agitata nel sonno,» mormorò, la voce roca di chi si sveglia ma già vigile. «Come stai?»
Esitai un istante. Avrei voluto mentire con grazia, coprire la mia fragilità sotto parole rassicuranti. Tentai un sorriso, uno di quelli che speravo potesse ingannarlo. «Sto meglio,» dissi, anche se il tremito nella mia voce mi tradiva.
Lui mi osservò in silenzio, come se stesse leggendo ogni piccola incrinatura della mia maschera. Il suo sguardo era fermo, penetrante, e sapevo di non poterlo ingannare.
«Ti preoccupi troppo,» aggiunsi con tono dolce, cercando di allentare la tensione, ma sapevo che le mie parole non bastavano.
Lui non rispose subito. Si sollevò leggermente, portandosi più vicino, e mi sfiorò il viso con un tocco sorprendentemente lieve. «Non è preoccupazione, è lucidità,» disse infine. «Sei malata, e io non voglio perdere ciò che è mio.»
Il tono era crudo, ma in quelle parole c'era una verità scomoda che mi scaldava e mi feriva allo stesso tempo. Mi lasciai ricadere contro il cuscino, chiudendo gli occhi un momento. «Allora... resta con me. Solo per un po'.»
Lui rimase accanto a me, in silenzio, mentre l'oscurità della notte sembrava allontanarsi, anche se solo per un attimo.
Orion tremava leggermente mentre si sforzava di mantenere la bacchetta sollevata. Le mani sudate, le spalle rigide per lo sforzo e l'ansia. Davanti a lui, Voldemort lo fissava con occhi gelidi, inesorabili.
«Concentrati!» tuonò la voce del Signore Oscuro, rimbombando tra le pareti della sala d'addestramento. «Questo non è un gioco. La debolezza non è ammessa. Non nel mio sangue.»
Il ragazzo deglutì a fatica, cercando di reprimere le lacrime. Le parole del padre erano lame, e ogni errore sembrava un fallimento imperdonabile. Raddrizzò la schiena e ripeté l'incantesimo con voce tremante, cercando di non cedere alla frustrazione.
Io assistevo in silenzio, stringendo le mani davanti a me mentre lo guardavo lottare. Ogni fibra del mio corpo urlava di intervenire. Quando Voldemort si voltò per un istante, mi avvicinai a Orion, chinandomi accanto a lui con dolcezza.
«Va bene così,» mormorai, sfiorandogli la spalla con una carezza leggera. «Stai facendo del tuo meglio, amore mio. E questo, per me, è già un successo.»
Lui abbassò la bacchetta e mi guardò, gli occhi stanchi e colmi di vergogna. «Ma papà non è mai contento,» sussurrò, il viso tirato dallo sforzo e dalla delusione. «Non importa quanto ci provi.»
Il mio cuore si spezzò un po'. Lo tirai a me, stringendolo forte. «Lo so,» dissi piano, posando il mento tra i suoi capelli neri. «Ma tu non sei tuo padre. E io ti amo per quello che sei, non per quello che lui pretende tu sia.»
Lo sentii respirare più lentamente, il suo piccolo corpo rilassarsi contro il mio. Per un istante, il mondo sembrò lontano. La guerra, le pretese, l'ombra opprimente del padre... tutto sparì.
Voldemort si voltò di scatto, il mantello scuro che si agitava come un'ombra viva dietro di lui. I suoi occhi si posarono su di me, duri come pietra. «Che cosa stai facendo?» chiese con voce fredda, controllata ma carica di minaccia.
Mi alzai lentamente, lasciando che Orion si nascondesse dietro di me, come se il mio corpo potesse ancora proteggerlo da quel gelo. «Sto confortando nostro figlio,» risposi con voce ferma, cercando di mantenere la calma anche se il cuore mi martellava nel petto.
«Indebolendolo, vuoi dire,» ribatté lui, avanzando di un passo. «Gli stai insegnando che fallire va bene, che la pietà lo salverà. Ma il mondo non è fatto per i deboli.»
«No,» replicai con forza, senza arretrare. «Gli sto insegnando che è umano. Che l'amore non è una debolezza, ma una forza. E che essere tuo figlio non significa dover essere una macchina.»
I suoi occhi si strinsero, due fenditure di rabbia trattenuta. «Stai mettendo in discussione il mio modo di educarlo?»
«Sì!» esplosi, incapace di trattenermi oltre. «Perché se continua così, un giorno lo perderai. Non perché sarà sconfitto dai suoi nemici, ma perché sarà svuotato dentro. Perché non avrà mai sentito di essere abbastanza per suo padre.»
Il silenzio cadde come un colpo di frusta nella stanza.
Orion tremava dietro di me, e io sentivo il fuoco montarmi in gola. Voldemort mi fissava come se non mi avesse mai vista prima, e in quel momento capii che avevo toccato un punto che non voleva affrontare.
Dopo lunghi istanti, parlò. La sua voce era un sussurro letale. «Togliti di mezzo.»
«No,» dissi con un filo di voce, ma abbastanza forte da fargli capire che non mi sarei mossa. «Non questa volta.»
I suoi occhi si posarono su Orion. Per un attimo, vidi qualcosa vacillare nel suo sguardo — forse collera, forse esitazione. Poi si voltò senza dire altro, uscendo dalla stanza in silenzio, il mantello che si trascinava come una condanna.
Mi inginocchiai accanto a Orion, sentendo le lacrime scivolare silenziose sulle mie guance. «Va tutto bene, amore mio,» sussurrai. «Mamma è qui. Sempre.»

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Sotto il Regno delle Tenebre
FanfictionIris, figlia di Lucius e Narcissa Malfoy, è stata costretta a sposare il Signore Oscuro, Voldemort. Tra intrighi, tradimenti e oscure magie, Iris cerca di trovare la sua strada mentre affronta le sfide della famiglia e del potere, fino alla tragica...