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POV: ETHAN

Passavo le ore fissando il soffitto. Il mio letto era completamente disfatto e le lenzuola stropicciate scoprivano il materasso. Io ero immerso in quel tessuto ruvido che detestavo sulla pelle. Ma rimanevo immobile, le braccia lungo i fianchi e le gambe dritte. Sbattevo le palpebre solo quando la vista dell'intonaco bianco iniziava a bruciare sulle cornee, e respiravo piano, pianissimo, con una fatica disarmante. Il mio petto era pesante e ogni boccata d'aria si incastrava dolorosamente tra le costole. Era passata poco più di una settimana di scuola; eppure, quel giorno non avevo intenzione di uscire di casa. Così come i giorni successivi. Non mi sarei mosso, se non per andare in bagno e per mangiare quanto basta per non morire di fame.

La mia camera era un disastro. Solo due giorni fa ogni cosa era al suo posto, ma poi è arrivata. Come un tornado.

Improvvisa e impetuosa.

Senza preavviso, è esplosa nella mia testa.

E così sono esploso anche io.

La rabbia. L'unica cosa che non mi aveva abbandonato e che non mi abbandonava mai. L'unica emozione che mi teneva in piedi. Perché la tristezza non riusciva a dominare, nella mia testa. C'era sempre, ma il bisogno di soffocarla era molto più forte. Quindi la rabbia la zittiva, soffocandola nel buio della mia testa.

E poi cresceva, cresceva sempre di più.

Fino a farmi esplodere per sgonfiare il pallone di rancore, odio e furia che si imponeva nel mio petto, impedendomi di respirare.

Dopo, quando tutto passava, quando ogni cosa era stata distrutta, quando mi sentivo ormai svuotato, il mondo diventava piatto.

Mi sentivo come se qualsiasi altra emozione mi avesse abbandonato.

Allora rimanevo inerme. A volte per ore, a volte per giorni.

E non mi importava più niente della scuola, delle persone o di me stesso.

Ero solo vuoto.

Buio.

E senso di colpa.

Qualcuno bussò alla porta chiusa a chiave.

«Non vai a scuola?» come se le importasse.

Mia madre ormai era fatta così. Le uniche frasi che ci scambiavano erano domande sulla scuola, sui voti e su cosa cucinare per cena.

Niente come stai o tutto bene.

Perché entrambi sapevamo quanto fossero inutili tutte le altre domande.

«No.» risposi secco, la voce più roca di quanto mi aspettassi. Il soffitto era illuminato da piccoli squarci di luce che penetravano dalla serranda del balcone. Li avevo guardati mentre si insinuavano lentamente, illuminando il buio. Era notte fonda quando avevo iniziato a fissare il soffitto.

Come fa il sole a sorgere ogni giorno?

«Non puoi farti bocciare di nuovo.» non risposi.

E lei non aveva bisogno di risposte.

Andavamo avanti così.

Domande e risposte sconnesse.

Discorsi senza inizio e senza fine.

Eravamo persi fuori e dentro noi stessi, troppo impegnati a sentire l'amaro sapore dell'ingiustizia della vita per ricordare come si vivesse davvero.

Quando sentii i suoi passi allontanarsi, presi un respiro profondo, piantando i denti nel labbro inferiore. Forse mi veniva da piangere o forse non chiudevo le palpebre da troppo tempo, ma gli occhi iniziarono a pizzicare

Melancholy: oltre il buioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora