Edoardo Ricciardi

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Edoardo Ricciardi, fin dal primo istante, ebbe il sospetto che Elisa fosse solo un'allucinazione, la rappresentazione dei suoi più reconditi desideri, frutto della sua follia o della sua mente malata.
Dopo aver ascoltato attentamente le parole di quella donna e aver letto quel biglietto da visita, si convinse a seguirla.
Seppur nel dubbio che quell'esperienza e quella donna non fossero reali, decise di assecondare il suo istinto.
Forse aveva la possibilità di rivedere sua figlia e restare con lei per sempre?!
Ormai da troppo tempo cercava di trovare invano delle risposte, probabilmente quella era l'unica occasione per ottenerle.
In fondo non aveva nulla da perdere e se quella storia si sarebbe rivelata un'illusione, un fuoco di paglia, sarebbe tornato semplicemente alla vita di tutti i giorni, con una nuova e grande delusione ma niente di più, ormai nulla poteva scalfirlo, nulla poteva peggiorare la sua già infelice esistenza.
Così quella mattina si svegliò presto, fuori era ancora buio.
Si fece la barba e la doccia, si infilò un pantalone blu di velluto a costine, una camicia celeste a tinta unita, sopra mise un maglioncino blu di lana e ai piedi delle scarpe sportive.
Quella mattina il clima era particolarmente rigido, quindi indossò il cappotto, il cappello e una sciarpa di lana.
Per poter uscire dalla clinica con la documentazione necessaria, ci sarebbero voluti troppi giorni e lui non poteva più aspettare, così decise di fuggire di nascosto.
Sarebbe tornato in serata e nessuno se ne sarebbe accorto. Infatti, accadeva di frequente che rimanesse fuori nel giardino della clinica all'ora di pranzo perché amava mangiare seduto sulla sua panchina immersa nel verde, quindi nessuno avrebbe notato la sua assenza in mensa.
Ormai, dopo tanti anni, aveva imparato a memoria gli spostamenti di tutto il personale: l'orario del cambio turno, l'ingresso dei fornitori, l'accesso dei visitatori, la pulizia delle stanze.
Così, approfittando della scarsa luce poco prima dell'alba, si diresse furtivamente verso il cancello di uscita. Si appostò dietro un'enorme siepe, si nascose accuratamente in attesa del camioncino che solitamente a quell'ora trasportava del materiale per la clinica.
Non appena il veicolo oltrepassò il cancello d'ingresso, attese qualche istante e poi corse verso l'uscita.
La clinica non adottava particolari misure di sicurezza. I pazienti che si trovavano lì erano dei veri privilegiati. Più che di una clinica psichiatrica, si trattava infatti di un centro di accoglienza per pazienti con problemi psichiatrici, spesso dei casi irrecuperabili che non avevano più nessuno al mondo a occuparsi di loro.
Questa era stata la volontà della donna che l'aveva fondata, assicurare un futuro a suo figlio e a tutte le persone che per un motivo qualsiasi si ritrovavano malate e sole.
Per molti pazienti quel luogo rappresentava tutta la loro vita; ricevevano un'assistenza continua da parte del medico che veniva loro assegnato e con il quale si creava un clima di fiducia e rispetto; potevano dedicarsi indifferentemente a ognuna delle attività organizzate nella struttura e spesso, dalla condivisione quotidiana, nascevano delle amicizie sincere. Nessuno aveva interesse a fuggire da lì, perché la vita nella clinica era tutto ciò che era rimasto a molti di loro.
Con il passare del tempo però i finanziamenti si erano ridotti, quindi per entrare nella clinica non bastava più solo il giudizio positivo di una commissione, appositamente costituita, che studiava il caso clinico, l'esistenza e la storia di ogni paziente, ma era necessario anche un contributo da parte degli stessi pazienti.
Si trattava spesso di persone benestanti, senza parenti o eredi e senza alcuna prospettiva futura. La clinica restituiva loro una vita, un'esistenza dignitosa, ma soprattutto rappresentava una speranza nel futuro.
Nonostante i pazienti godessero della più ampia libertà, vi erano anche delle regole rigide da rispettare. Non era possibile saltare i pasti e uno solo dei due pasti poteva essere consumato in solitudine, ciò non solo per ragioni di salute ma perché il pasto rappresentava un momento di incontro, di scambio e di condivisione tra gli stessi pazienti e con il personale della clinica che aveva il dovere di mangiare in mensa.
Ogni paziente poteva scegliere un'attività, ma una volta scelta doveva dedicarvisi con dedizione e cura, raggiungendo dei risultati apprezzabili, ovviamente in base alle condizioni personali e capacità di ognuno. L'attività scelta poteva essere successivamente variata ma solo una volta l'anno per garantire una certa continuità ai fini del raggiungimento degli obiettivi stabiliti all'inizio dell'anno.
I risultati delle attività, ad esempio del cucito, dell'uncinetto, della pittura o della cucina, venivano poi distribuiti tra gli stessi pazienti che creavano una sorta di comunità di scambio, oppure venduti ai mercatini.
Un'eventuale fuga avrebbe significato una rinuncia definitiva alla clinica e il signor Ricciardi era consapevole del rischio che avrebbe corso fuggendo di nascosto.
Tuttavia questa volta non aveva alternative, qualcosa lo spinse a credere a quella donna, forse l'ultima e più alta espressione della sua pazzia. 
Sarebbe tornato verso le sette e trenta, orario in cui c'era il cambio del personale in turno e sarebbe riuscito a rientrare indisturbato nella clinica.
Il taxi lo aspettava sulla via principale, all'operatore telefonico del servizio aveva dato come punto di riferimento il primo distributore sulla strada.
<<Buongiorno signore, dove andiamo?>>
<<Mi porti a casa per favore>>

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ci siamo... realtà o mera illusione?
Ma in fondo, è davvero questo che conta?
Vedremo...

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