Epilogo: "Esattamente come lui"

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Il giovane uomo allentò leggermente il nodo della cravatta rossa al suo collo. Si guardò bene nello specchietto retrovisore della fiammante automobile che aveva acquistato da poco: aveva un'aria leggermente nervosa, era come preoccupato. Aumentò leggermente la pressione sull'acceleratore, dando un'occhiata al costoso orologio che aveva al polso: Le 10:32.
Era la terza volta che accadeva, quel mese, e ciò lo agitava. Per la terza volta, nel bel mezzo di un'indagine, il telefono aveva squillato, interrompendo il suo lavoro. Sempre per lo stesso motivo.
Sul sedile posteriore, occupava posto un'altissima pila di fogli e documenti, molti dei quali erano racchiusi da albi, tutti con il medesimo nominativo:
"Detective James Wert."
L'uomo fermò la propria auto, parcheggiandola all'inizio di uno stretto vialetto. Si schiarì la voce, come per assumere un tono più autoritario, e scese sbattendo la portiera alle sue spalle.
Si incamminò lungo il viale, alla fine del quale si intravedeva un grosso edificio, con sopra un'insegna appena leggibile:
"Scuola media statale"

Non appena si avvicinò all'entrata, vide subito la figura di una donna massiccia, un po' in avanti con l'età, dalla faccia talmente brutta, rugosa, e ricoperta di nei, che somigliava tanto a quella di un viscido rospo. Due striminziti occhiali dalla montatura viola erano poggiati sulla punta del suo grosso naso a patata, mentre teneva incrociate le braccia davanti al petto, con un'espressione contrariata stampata in viso, e la bocca storta verso il basso.
Accanto a lei, un ragazzino minuto e mingherlino teneva il muso, guardandosi i piedi con aria imbronciata. Aveva l'aspetto di un alunno di prima, massimo seconda media.
L'uomo affrettò il passo, fino a giungere direttamente davanti ai due:
"È una vergogna." Aveva borbottato la donna con fare indignato, scuotendo la testa: "Da una famiglia prestigiosa come la vostra non mi aspetto certo simili mascalzoni, signor Wert." Continuò imperterrita.
"Thomas Dean Wert!" L'uomo aveva pronunciato il nome intero del figlio, poiché sapeva che ciò lo intimoriva. Poi si era inginocchiato alla sua altezza, sollevandogli il viso e tenendogli il mento tra le estremità di indice e pollice. Due enormi occhi dalle mille sfumature verdi si staccarono finalmente dal pavimento e presero a fissarlo, tristi. Erano talmente belli e grandi, da sembrare due biglie di vetro color speranza, di quelle che si collezionano o si usano come portafortuna.
Thomas era un bambino pallido, dai capelli neri, lisci e ben ordinati. Le centinaia di lentiggini che rendevano il suo visino ancora più vispo, erano le uniche cose che aveva ereditato dal padre, che con il tempo invece le aveva perse. Insomma, nessuno avrebbe mai detto che quel bambino fosse il figlio di James Wert;
L'uomo lo guardò severo:
"Che cosa hai combinato stavolta?" Thomas arrossì, e abbassò di nuovo lo sguardo, mordicchiandosi un labbro, mortificato.
"Sempre la stessa storia, signor Wert. Si intrufola di nascosto nell'aula di musica, senza chiedere il permesso, utilizzando gli strumenti senza alcuna autorizzazione. Se era davvero così desideroso di suonare, allora avrebbe dovuto iscriverlo a una sezione musicale!" Strillò fastidiosamente la donna, sputacchiando ovunque.
"Sono davvero desolato, le chiedo scusa." Rispose James in tono cordiale, fulminando il figlio con lo sguardo.
"La prossima volta prenderò altri provvedimenti disciplinari. Se non vuole che sia sospeso, stia più attento nell'educazione di suo figlio."
"Mi assicurerò che non accada più."
Detto ciò, l'uomo afferrò il bambino per un braccio, ma non in maniera violenta. Non sembrava volerlo picchiare, anzi, a dire la verità non sembrava nemmeno più tanto arrabbiato; lo zaino sulle spalle del ragazzino era grande almeno due volte lui, e sembrava davvero pesante. Tuttavia, si incamminò senza fiatare, in silenzio, restando sempre dietro al padre, strisciando i piedi.
Giunto all'automobile, sedette davanti, accanto al posto guida, senza cessare di avere il broncio. Cominciò ad asciugarsi in fretta le lacrime che gli erano appena sbucate dagli occhi.
"Che cosa devo fare con te?" Lo rimproverò il padre, mentre guidava.
"Papà, te lo giuro, non lo faccio apposta... è come se qualcosa, o qualcuno... mi spingesse ad entrare in quella sala." Mormorò il bambino, ancora nel vano tentativo di fermare le lacrime.
"Ancora con questa storia?" Sbottò, innervosito.
"È la verità, devi credermi!"
"Ciò non ti giustifica, anche quando. Sei un essere umano, devi imparare a controllare i tuoi impulsi. Altrimenti saresti un animale."
Il bambino si rannicchiò sul sedile, guardando fuori dal finestrino.
"Ma io...voglio suonare il pianoforte!"
L'uomo frenò leggermente, voltandosi a guardare il figlio.
"Credevo avessimo già discusso su ciò che farai quando sarai grande."
"Non voglio fare l'avvocato." Si lamentò, incrociando le braccia, "È noioso. E stupido." Borbottò.
L'uomo sospirò, esasperato, mormorando tra sé e sé:
"Sei esattamente come lui."
Parole che il bambino non riuscì a udire, da quanto furono pronunciate piano.
"Ti prego, papà." Supplicò, facendo gli occhioni dolci.

Da anni ormai, James era turbato da un sogno, un sogno ricorrente. Lo faceva quasi ogni notte: non era sempre identico, ogni volta subìva delle leggere variazioni. Il succo, però, era sempre lo stesso. Vedeva ogni notte la stessa persona, che lo chiamava:
Suo fratello Dean, scomparso ormai anni e anni prima. James non aveva mai avuto modo di scusarsi con lui, di ottenere il suo perdono, anche se col tempo si era pentito di ciò che avesse fatto. Era convinto che fosse infuriato con lui, che il suo spirito lo avrebbe tormentato per sempre;
ma ciò non accadde. Almeno, non fino a quando nacque il suo primo figlio, Thomas appunto. Anzi, Thomas Dean. Sì, perché era talmente tormentato dal pensiero di non aver ottenuto il perdono del fratello, che diede il suo nome al figlio, come per devozione, per scusarsi. Ironia della sorte, fu da quel momento che Dean iniziò a comparire nei suoi sogni, in cui pronunciava sempre la stessa identica frase:

"Io non ho potuto prendermi cura di te. Forse è questo che ti ha spinto ad odiarmi fino a quel punto. Ma ti prego, adesso prenditi cura di noi."
E poi ripeteva le ultime quattro parole all'infinito:
"Prenditi cura di noi, prenditi cura di noi, prenditi cura di noi."

In quell'istante, davanti allo sguardo supplicante del bambino, quella frase gli era tornata improvvisamente alla mente, fulminandolo. Dei brividi di freddo cominciarono a scorrere giù per la sua schiena.
Quel "noi" riecheggiava nella mente di James ogni volta che si risvegliava. Era quell'unica parola, a turbarlo, non il sogno in sé. Che cosa poteva significare? Perché Dean parlava al plurale?
Inoltre, anche un'altra cosa lo turbava enormemente: quel verde sgargiante, così acceso e luminoso, negli occhi di suo figlio.
La somiglianza con Dean era palese, anche nei lineamenti: eppure non aveva nessun legame di sangue con James, e lui non riusciva a spiegarsi come fosse possibile. Ma aldilà di ciò, c'erano sempre quegli occhi, ad essere fuori posto. Quelli di Dean erano di un colore completamente diverso;
nessuno dei suoi familiari aveva mai avuto quel colore di occhi: erano sempre stati una generazione di scuri, di olivastri. Anche la madre del bambino era una donna dai tratti somatici mediterranei. Davvero non riusciva a capire da dove provenisse quel colore, e da chi potesse averlo ereditato.
"Se ti iscrivo a lezioni di pianoforte, mi prometti"- sottolineò il tono di voce sulla parola 'prometti'- "che non mi farai più convocare dalla professoressa?"
Il volto del bambino si illuminò, come investito da un improvviso raggio di luce solare. Annuì allegramente, con un'espressione festosa scolpita sul viso.
"Ma, e ripeto, ma, tu diventerai avvocato. E non si discute."
Il sorriso a trentadue denti scomparve immediatamente dal viso del bambino, che tirò su con il naso.
"Ma per forza? Allora se ci tenevi tanto, perché non lo diventavi tu?"
James trasalì, nuovamente turbato da quella frase. Il ricordo del suo passato stava tornando per tormentarlo: aveva sempre cercato di dimenticare, e in qualche modo ci era riuscito. Aveva ricominciato da capo, aveva sposato una bellissima donna, e si era creato una famiglia. Aveva una reputazione invidiabile, così come la casa, la macchina, il lavoro. Tutto era perfetto.
Era riuscito a farlo solamente gettandosi tutto alle spalle. Ma adesso, quel passato stava bussando alla sua porta, lo stava chiamando. Stava riemergendo dall'abisso. E le opzioni erano due: scappare, i venire incontro a quel passato, in maniera amichevole.
E James aveva scelto la seconda opzione.

"Perché non ero io quello della famiglia che era destinato a questo posto." Un sorriso amaro e nostalgico si formò sul suo volto.
"Ah no? E chi era?" Il bambino sembrò incuriosirsi molto.
"Mio fratello. Sai, gli somigli tantissimo."
James aveva deciso fosse opportuno iniziare a parlargli di lui. Era il momento adatto: sapeva che Dean lo desiderava da tempo. Forse, in quella maniera sarebbe riuscito finalmente a sdebitarsi con lui. E forse, pensò, forse il suo tormento avrebbe avuto fine.
"Avevo uno zio?!" Esclamò entusiasta il bambino: "Perché non me lo hai mai detto?"
"È una lunga storia..."
"Me la racconti, me la racconti, me la racconti? Dai, dai, dai!"

James Wert non aveva mai creduto in cose come l'Aldilà, il Paradiso, la vita dopo la morte, o la reincarnazione.
Ma quel bambino, Thomas, con i suoi occhi color della speranza, lo aveva fatto ricredere.
"Posso raccontartela. Ma non
aspettarti una favola."

Staccò per un istante lo sguardo dal figlio, e guardò fuori dal finestrino. In alto, su nel cielo. Poi tornò a fissare i suoi occhi verdi:
"E va bene, Dean. Se vuoi che ti racconti la tua stessa storia, lo farò."

Thomas non capì quello che aveva detto suo padre. Ma Dean, Dean sì.
Dean aveva capito.

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