Capitolo V

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Lavai a mano l'abito macchiato di sangue. Il sapone non era profumato, aveva solo uno strano ed indifferente odore. Ne indossai un altro, semplice ed umile come quello precedente. Poi salii in cucina e mi diedi da fare per portare le pietanze a tavola. Ma io non mangiai, avevo lo stomaco chiuso e la fame mi era totalmente passata. Come avrei potuto ingerire anche solo un chicco di pasta dopo aver assistito ad una tale scena? La nausea si rivoltava nel mio stomaco, facendomi mancare il respiro.

Di solito a noi schiavi erano riservati gli scarti del pranzo e della cena o, se non rimaneva nulla, avanzi e cibo da discount.

«Un altro po' di roast beef, Eloise» disse Catherine. Quella sera indossava un vestito color senape, che si fermava sopra il ginocchio e aveva un'ampia scollatura a cerchio. Le donava in maniera impeccabile, conferendole un'aria da vera nobile. Catherine, d'altronde, aveva una bellezza e una sensualità fuori dalle righe, che la rendevano irresistibile agli occhi di chiunque posasse lo sguardo su di lei, sulle sue forme sinuose, ma eleganti e sui suoi fluenti e luminosi boccoli d'oro.
Subito tornai a prendere dell'altra carne e la depositai nel suo piatto.

«Altri piselli, signorina?» domandai. Mi urtava chiamare signorina e signorino ragazzi della mia stessa età, o su di lì. Ma se non l'avessi fatto, mi avrebbero punita. Ed io temevo ogni loro punizione.

«Ho percaso detto di volere altri piselli?» sbottò alquanto infastidita, con tono saccente e nervoso. Fui costretta a mordermi il labbro inferiore a sangue per trattenermi dal risponderle male.

«Chiedo scusa» sussurrai soltanto, girando i tacchi. Ma qualcuno mi richiamò.

«Eloise.»
Il modo in cui pronunciavano il mio nome, me lo faceva detestare. Nella loro voce percepivo disprezzo, riluttanza, forse odio.

«Sì, mia signora?» era stata Agatha, impeccabile in un tailleur rosa confetto, con tanto di tacchi a punta perlati. I suoi vestiti erano magnifici e che suo marito fosse a casa, oppure no, lei era sempre ben preparata, agghindata e vestita di tutto punto.

«Apri del buon vino e portalo qui, scendi giù in cantina, lì c'è quello buono» annuii col capo e feci un leggero inchino, ma nella mia mente pensavo ad altro.

La cantina non mi piaceva, era un luogo buio e freddo, totalmente impolverato e pieno di topi, che non ti permettevano nemmeno di poggiare i piedi a terra.
Detestavo quella stanza della Villa, era in assoluto la peggiore, con la sua puzza di muffa ed escrementi di animali. Una volta ero stata costretta a ripulirla da cima a fondo, nei giorni successivi gli incubi non mi avevano permesso di dormire.

«E che non ti venga in mente di mandare Bernadette, voglio che vada tu» chiarì prima che io fossi lontana. La padrona conosceva bene i miei punti deboli e faceva di tutto per rendermi la vita un inferno.

Le posate che battevano sui piatti vuoti, i denti che masticavano il cibo con foga, l'acqua che cadeva nei bicchieri: erano questi i rumori che provenivano dall'enorme sala da pranzo. Un tavolo immenso, di legno di ciliegio, ricoperto da una tovaglia di tessuto pregiato importata direttamente dall'India, enormi lampadari d'oro e cristallo e un grande televisore a plasma. Tutto un immenso spreco di denaro. Mi chiedevo cosa se ne facessero di tanto lusso, se a mancare era poi una cosa importantissima: l'affetto familiare. Non udivo mai una risata, una parola affettuosa, un discorso sensato tra mamma e figli. Tutto ciò che, invece, io avevo sempre sognato. Mi sarebbe bastata una piccola ed umile casa di legno, una mamma, un papà, dei fratelli e tanto amore.

Mi allontanai cauta ripercorrendo i corridoi e mi rimproverai mentalmente: se non volevo che la padrona si infuriasse, dovevo fare in fretta. Eppure, come al solito, mi ero persa nei miei utopistici ed illusori pensieri.

Eloise - Figlia di una schiavaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora