Pov Camila
Piangevo. Piangevo forte. Ignoravo il bruciore costante agli occhi, al cuore. E piangevo. Perché ero stanca di tutto quel mondo. Un mondo che non mi capiva. Un mondo che mi disprezzava. Ero stanca di scendere a compromessi, di mentire. Di nascondere i miei sentimenti. Ero stanca di assecondare gli altri.
Voi non potete dirmi chi amare.
Lacrime, su lacrime e nella testa c'era solo una frase. Voi non potete dirmi chi amare.
Era una certezza tanto vera quanto vana. Io non ero fatta per essere indipendente. Io dovevo seguire delle regole. Chi le aveva messe non era importante. Fan, manager, mondo.
Voi non potete dirmi chi amare.
Io non ero di loro proprietà. Rivendicavo il mio diritto di essere me, e ogni lacrima era una placida richiesta che facevo al mondo di lasciarmi in pace.
Libera da tutti, da tutto. Dalle telecamere, dagli occhi indiscreti. Dagli occhi curiosi, e dagli occhi di mia madre. Io volevo solo vivere come dicevo io.
Avevo soldi e successo. Non avevo la libertà. A cosa mi sarebbe servito allora tutto quello. A cosa mi aveva portata. Avevo soldi e successo eppure mi odiavo.
Odiavo ogni singola parte di me. Ogni singolo difetto mi appariva immenso. Insormontabile. Ogni ostacolo nella mia vita perfetta, mi bloccava. Mi sentivo sbagliata. Fatta male.
Fingevo di essere una persona sicura di sé, perfetta, che non aveva mai paura di niente. Fingevo di essere sempre allegra, sempre positiva, sempre in forma. Fingevo di amare il mio ragazzo, Shawn, solo perché così gli facevo una buona pubblicità. Fingevo. Era l'unica cosa che mi usciva bene. Fingevo di vivere una vita non mia e allo stesso tempo ero io stessa a voler vivere una vita non mia. Non volevo la vita che IO mi ero destinata. Che quella parte più segreta di me, che io non riuscivo a capire, aveva deciso di impormi. Ero persa nella mia testa di pensieri contorti. Ero un difetto che andava a crescere sempre di più. Ero un cubo di Rubik che si era intrecciato da solo. Ero senza speranze. Rinchiudermi nella mia apatia era l'unico modo che avevo per innalzare un muro tra me e il mio problema più grande.
I miei problemi non consistevano in un banale ragazzo di pubblicità, o in una banale amicizia segreta. Il mio problema ero io. Quelle crisi le avevo avute per colpa mia. Il mio più grande nemico ero io stessa. E avevo così tanta paura di me che non riuscivo ad affrontarmi. Non volevo affrontarmi.
Mi accontentavo di sopravvivere e non mi immischiavo in questioni che la mia mente non avrebbe sopportato. Il mio cuore piangeva ma non riusciva a convincere la testa. Era un continua battaglia, logorante, senza fine, senza tempo. Era il dilemma di chiunque fosse stato al mondo. "Conosci te stesso" dicevano gli antichi. Non c'era niente di più difficile.
Io, chi ero? Io, cosa volevo? Io, mi amavo? Erano tutte domande a cui avevo provato a rispondere, odiando le risposte che mi ero data, e ignorandole. Gli impegni lavorativi mi tenevano occupata di giorno. Ma di notte quelle domande rifiorivano sempre. Come squali che tornavano in superficie. Piranha pronti a mangiarmi il cuore. Logorarmi l'anima. Ridurla in piccoli, minuscoli pezzettini. Avevo bisogno di un appiglio in quel mare di solitudine. Avevo bisogno di essere qualcun'altro. Ed era quello che facevo. Diventavo qualcun altro. Indossavo una maschera.
Ma il vero appiglio che stavo cercando era una mano. Una mano distesa che mi rialzasse dal fondo che avevo toccato. Una mano che mi dicesse " sono qui", solo con il suo tocco caldo. Una mano che mi salvasse. E anche quella mi ero negata. Era lì, pronta ad afferrarmi, eppure l'avevo spezzata in due. L'avevo respinta con tutta la mia forza. Ero corsa via dalla mia àncora. Anche in quest'occasione, spaventata da me stessa. Alla fine il problema ricadeva sempre lì. Era un circolo. Avevo paura di me, avevo bisogno di qualcuno, ma quel qualcuno mi faceva accrescere di più la paura, e finivo per soffrire il doppio. Come se la soluzione fosse semplice, fosse lì davanti a me, ma io fossi cieca e non riuscissi a vederla, ecco.