4 MESI DOPO
Pov Lauren
L'aria fredda di dicembre mi colpiva il volto pallido, provocandomi parecchi brividi. Nemmeno il cappotto pesante, e la sciarpa grigia di lana potevano fare molto contro quel gelido inverno. Presi un'ulteriore boccata di fumo dalla sigaretta arrivata oramai a metà, mentre osservavo il cielo senza stelle di Los Angeles.
Le sole luci che riuscivo a vedere erano aeroplani che solcavano quell'immensità oscura.
Un tiro, e ancora un altro, e poi fino alla fine, fino a sentire le labbra più calde, i polmoni appesantirsi, e la nicotina calmare i sensi impazziti della dipendenza. Era ironico. Avevo sempre detestato i fumatori e in pochi mesi ero diventata una di loro.
La buttai distrattamente nel parcheggio deserto, prima di incamminarmi nel solito locale semivuoto, dove venivo sempre da quando ero a Los Angels.
Era strano pensare che sopra di me c'erano migliaia di stelle coperte da una coltre di luce troppo forte, luce artificiale, capace di spegnere stelle più grandi della terra.
Mi sentivo come quelle stelle, coperta da una finta luce fortissima. Copriva tutto, quella cazzo di luce. Copriva tutto ciò che c'era di vero nella mia vita.
Le luci della ribalta, le chiamavano. Le luci del palcoscenico dove ci esibivamo, mi uccidevano. Ero diventata un classico cliché vivente della cantante frustrata, dell'artista costretta a fingersi un'altra per il grande pubblico, per i fan.
Non avevo più niente da perdere, la dignità l'avevo buttata giù tante sere insieme al whisky in quel locale. L'orgoglio e la felicità di avercela fatta era sparito, insieme alla mia voglia di mettermi quella dannata maschera ogni sera ed essere la ragazza che non ero.
Per quanto non volessi cedere ancora una volta ai miei maledettissimi vizi, entrai nel vecchio locale scuro e mi sedetti al bancone ordinando il solito drink, posando la mia borsa sullo sgabello accanto al mio.
Appena finito il tour avevo preso un monolocale a Los Angeles per stare più vicina alla casa discografica, o meglio questa era la "versione ufficiale" come amava chiamarla Camila. Volevo stare lontana da Miami, dalla mia famiglia, da tutti.
Ordinai il solito drink che da mesi mi accompagnava sotto il peso dello stress, quasi ogni sera. Vodka liscia, doppia. Appena l'alcool mi invase la gola e lo stomaco, costringendomi ad arricciare il naso e stringere gli occhi per il bruciore, il suo viso mi tornò in mente. Ogni volta che mi trovavo il quel posto, anche dopo aver bevuto solo un goccio di alcool, mi veniva in mente lei, come riaffiorata dai ricordi più malinconici che avevo. Lei. I suoi movimenti, i suoi tratti cubani, i suoi grandi occhi scuri, le sue labbra morbide che premevano sulle mie, le sue ciglia bagnate di lacrime e il suo sguardo che mi guardava quella sera come se volesse registrare ogni dettaglio di me, per non osservarmi mai più.
Quella sera, quella discussione in quell'albergo non la dimenticai mai. Erano quattro mesi oramai che mi ripetevo in mente, ogni parola, ogni fotogramma di quei momenti. Ero arrivata addirittura a scrivermi le frasi che mi continuavano a tormentare la notte. Erano passati quattro mesi, ed era stato un'inferno.
Ogni mezzo che potessi utilizzare per dimenticare Camila, lo usai, senza successo, procurandomi solo una miriade di vizi incurabili. Era oramai diventata un'abitudine per me bere, più di quanto non volessi.
Già nell'ultimo mese del tour le ragazze e i manager se n'erano accorti di quanto fossi diventata strana, ma credevano fosse solo stanchezza. Camila invece, lei non si era minimamente preoccupata. Lei non mi guardava, mai, nemmeno per sbaglio. Non parlava con me, non interagiva con me, nemmeno davanti alle telecamere, quel minimo per non destare sospetto. Erano esattamente quattro mesi che mi ignorava completamente. Frasi di cortesia era tutto quello che rivolgeva, niente di più.