Odiavo le giornate di orientamento. Per me non aveva alcun senso che ci imbottigliassero tutti dentro autobus e che ci trasportassero di peso, come grandi sacchi di patate, in giro verso la maggior parte delle università del luogo. Avevo trovato stupido questo processo già dalla prima volta in cui era scattato: in terza media.
Insomma, chi di noi sa che cosa vuole davvero a tredici miseri anni? Io, personalmente, non lo sapevo; avevo difatti scelto la mia scuola in base alle ore settimanali di matematica stabilite nell'orario scolastico. Avevo scartato così il liceo scientifico e anche il liceo classico, optando per un liceo delle scienze umane. Certamente avrei dovuto impegnarmi in altro, tipo sulla filosofia o sulla psicologia e la sociologia, ma di sicuro non avrei frequentato dieci ore di matematica settimanali.
Piuttosto il suicidio.
Altre mie compagne avevano scelto basandosi sulla decisione dell'altra, della propria migliore amica. Pur di non separarsi e di non frequentare una nuova scuola da sole, alcune si erano avventurate verso licei troppo complessi, avevano incontrato professoresse isteriche afflitte da continua sindrome premestruale e professori nevrotici in astinenza da sesso; alla fine la loro si era rivelata una pessima scelta e avevano fatto dietrofront, cercando un liceo più adatto.
Solo alcuni avevano avuto fin da subito le idee chiare: Jack-Matita-Umana, per esempio, anche lui aveva solo tredici anni quando aveva deciso che il liceo artistico sarebbe stata la sua casa per i prossimi cinque anni, ma ci si era trovato benissimo, perché era un artista nato; Melanie-Calcolatrice era un genio matematico e tutti le avevano consigliato di iscriversi al liceo scientifico, ma lei aveva una passione per la cosmesi e alla fine aveva optato per un professionale, com'era giusto che facesse, dal momento che era una che seguiva il cuore e mai il cervello.
E ora l'università. Adesso avremmo dovuto avere le idee più chiare, ma a me questi incontri continuavano ad apparire futili: per molti miei compagni erano uno spasso, un bel salto di sei ore di studio.
Quanto mi sarebbe piaciuto poterla vedere come loro. Invece no, me ne stavo lì, sul pullman, con la testa poggiata allo schienale del sedile, le braccia incrociate e gli occhi chiusi, a pensare che se solo avessi deciso di starmene a casa quel giorno, probabilmente in quel momento avrei sgranocchiato cereali e bevuto latte caldo seduta sul divano.
Ormai era fatta: mi consolava il fatto che si trattava solo di sei misere ore e poi sarei finalmente tornata a casa, libri in mano e cuffiette alle orecchie.Il pullman ci accompagnò presso tre diversi plessi: Wellneck University, Jordan University e Boolstock University. La prima si presentò in maniera pessima: un enorme palazzo pericolante con molte finestre, sette delle quali, all'ultimo piano, erano prive di vetro e riparate alla bell'e meglio con del cellophane; il cancello cigolava, le mura d'entrata erano grigie e scrostate e perfino la segretaria all'entrata dell'edificio si scusò con imbarazzo per quell'accoglienza già sgradevole. La maggior parte di noi era perplessa mentre camminava per i corridoi di quella casa degli orrori travestita da edificio pubblico, ma alla fine riuscimmo a distrarci grazie ad una lezione di filosofia molto frizzante tenuta al quarto piano e non ci pensammo più. La seconda università invece mi fece ridere per tutto il tempo della visita: impeccabile, assolutamente perfetta, gli studenti sembravano essere stati selezionati più per il loro aspetto che per le loro doti intellettuali, tutti belli, educati, posati, leccaculo figli di papà.
Non avevo varcato la soglia dell'edificio per essere antipatica e scontrosa, ma più camminavo per i corridoi di quel palazzo più il desiderio di sputare addosso a quei perfettini del cavolo si faceva strada lungo il mio corpo. Non so cosa o chi riuscì a trattenermi, forse la lezione di trigonometria al primo piano, forse la mia insegnante che ci faceva da guida, sulle cui parole cercai attentamente di focalizzare la mia attenzione per non rischiare di cedere agli istinti. Ad ogni modo, alla fine del "tour" avrei tanto voluto battermi il cinque da sola poiché ero stata in grado di tenermi a bada e di non spargere tracce di DNA per tutto l'edificio.
Troppo esagerato, dite?
La terza, la Boolstock University, all'apparenza mi sembrò la migliore. Quando arrivammo ai cancelli, questi si aprirono automaticamente senza che vi fosse bisogno di suonare in segreteria o roba simile e l'autista poté parcheggiare liberamente. All'entrata trovammo un uomo di mezz'età, un uomo che però sembrava sentirsi ragazzo dentro: portava jeans scuri, una camicia chiara e una polo blu, e parlava in modo svelto e concitante, come se non volesse perdere troppo tempo in chiacchiere, ma piuttosto darci la possibilità di visitare l'edificio quanto più possibile.
«Mi chiamo Riccardo e questo edificio è di mia proprietà. Penso che l'istruzione sia la base su cui costruire la nostra intera vita. Annaffiate sempre i vostri cervelli con le parole dei libri, non lasciate che ciò che avete dentro appassisca, siete il futuro di questo mondo e siete qui per fare in modo che sia migliore. Fate sì che la cultura di cui oggi fate parte sia arricchita anche dalla vostra esperienza e date al mondo un pezzetto della vostra anima, come gli uomini del passato hanno fatto con la loro. Non ho più niente da dirvi, ragazzi. Adesso spargetevi per l'edificio e curiosate in ogni angolo, voglio che abbiate le idee chiare su tutto ciò che ho da offrirvi».
Gli annuimmo in segno di cortesia e ci dileguammo.
Io gli feci perfino un sorriso.
Quell'uomo dall'abbigliamento casual e non troppo formale mi trasmetteva un senso di fiducia, di sicurezza. Come se ci si potesse realmente fidare di ciò che stava dicendo, indipendentemente dal fatto che ciò che diceva fosse giusto o meno.
M'incamminai lungo un corridoio stretto e silenzioso. Ogni sette metri vi era una nuova porta, ed io dedussi che le aule lì dentro dovevano essere davvero grandi se tra una porta e un'altra vi era tutto quello spazio. Si alternavano porte più piccole sulle quali albergavano tavolette in acciaio con su scritto WC e altre sulle quali vi erano delle icone abbastanza eloquenti, come quelle di una scopa o un un secchiello.
Ero molto indecisa: con i piedi piantati sul pavimento, avevo da poco sorpassato un'aula e davanti a me, ai metri prestabiliti di distanza, vi era un'altra porta. Non avevo idea di quale lezione si stesse tenendo nell'una o nell'altra stanza, così mi guardai un attimo intorno, mi morsi il labbro con indecisione, strinsi i pungi e alla fine optai per la porta a pochi metri da me. Sospirai, esitai un attimo col pugno chiuso davanti alla porta, poi battei le nocche un paio di volte finché qualcuno dall'interno non rispose 'avanti'.
Abbassai la maniglia in ottone ed aprii la porta, accennando un sorriso verso la cattedra a qualunque insegnate vi fosse seduto dietro.
«Prego, signorina, lei è...?», l'insegnante, un uomo sulla cinquantina dall'incolta barbetta sul mento e le lenti sul naso, ricambiò il sorriso e protese la mano bianca di gesso verso di me. L'osservai leggermente, dirigendomi verso di lui a passo lento mentre i miei occhi tradivano nervosismo e scattavano qui e là tra le file di sedili, da un paio di occhi ad un altro; gli strinsi la mano fredda e ruvida e battei le palpebre un paio di volte.
«Ally Telesco», sussurrai, evitando accuratamente di pronunciare il mio imbarazzante secondo nome, «sono in visita con il liceo di S. Collins». Gli occhi del professore si illuminarono come se si fosse improvvisamente ricordato che quel giorno ci sarebbero stati degli studenti in visita.
«Ah, sì sì! La S. Collins! Prego, signorina Telesco, si accomodi pure dove le pare. La cosa importante è che stia in silenzio e faccia come se fosse invisibile. Per il resto, può anche prendere appunti se vuole!», gli scappò una piccola risata rauca ed io non potei che rispondere con un sorriso gentile, sebbene non del tutto sincero.
L'aula cadde in un silenzio imbarazzante, tutti gli occhi erano fissi su di me, sulla mia maglietta stropicciata, su i miei jeans poco attillati, sulle mie scarpe coi lacci consumati.
Mi sentivo giudicata, era come se potessi sentire i loro pensieri provenire da ogni angolo - "ma com'è vestita?", "ma a che epoca è rimasta, questa?", "mia sorella veste decisamente più alla moda, e ha solo otto anni", "ha davvero bisogno d'aiuto" -, ma fortunatamente non durò molto. Non appena presi posto tra i sedili più alti in modo da sfuggire ai troppi sguardi indiscreti, l'insegnate si schiarì la gola e tornò a parlare, e tutti ripresero a scrivere o a concentrarsi su di lui.
Osservai la lavagna, leggendo a fior di labbra ciò che vi era scritto: l'inconscio.
Ero capitata in un'aula di psicologia, che fortuna! Potevo seguire una lezione di cui probabilmente sapevo già qualcosa, dal momento che provenivo da un indirizzo psico-pedagogico. Accavallai una gamba e tirai fuori dalla borsa un block-notes e una penna, intenzionata a non perdermi neanche una parola di ciò che sarebbe stato detto di lì a poco.
«Come tutti sappiamo Freud era contro la corrente del positivismo, per cui, mentre gran parte dei colti pensava che tutto sia sotto il nostro preciso controllo, Freud portava avanti il pensiero secondo cui nulla di tutto ciò che ci sembra di controllare, in realtà, è sotto il nostro comando. E' proprio di questo che voglio parlarvi oggi: Freud riteneva che ciò che mostriamo di essere, le nostre azioni e le nostre reazioni, non sono altro che la punta dell'iceberg del nostro essere, la parte più visibile di noi stessi, ma che sotto tutta questa grande facciata vivesse il quid. Quel qualcosa in più che ci rende diversi da qualsiasi altra specie, animale o chicchessia. Non me ne starò qui a parlare per ore di ciò che il Signor Tutto-è-sesso-Freud pensava, perché voglio sentire le vostre idee in proposito. Vi ho assegnato un testo due settimane fa e spero che l'abbiate letto tutto, perché dalla lettura di quest'opera molte delle vostre idee potrebbero aver maturato».
Una mano svettò verso il cielo ed io, dall'ultima fila, mi sporsi un po' più avanti per vedere di chi si trattava: era una ragazzina dai capelli a caschetto neri, dalla voce e dall'accento mi sembrò provenire dalla Corea.
«Secondo il mio parere è sbagliato dire che non possiamo controllare proprio nulla. La maggior parte delle nostre azioni è controllato da no, non siamo in balia dell' inconscio. Questo quid è una parte di noi, ma non il totale».
Vidi l'insegnante sorridere.
«Giusta osservazione, signorina Yang. Questo è l'aspetto che più il signor Jerome Bruner criticò a Freud. Egli aveva ragione quando diceva che dentro di noi abita questo grande ammasso di ghiaccio e che il nostro corpo non è altro che la sua vetta più alta e visibile, ma aveva torto quando diceva che l'inconscio siamo noi, perché a quel punto saremmo nuovamente posti sullo stesso piano degli animali, e non lo siamo, giusto signorina Yang?».
«No».
«No, infatti».
L'aula si riempì di silenzio e il mio cuore pompò adrenalina. Tutti quei discorsi, quei dibattiti che di certo al liceo non puoi permetterti di affrontare, mi affascinavano. Giunsi le mani sul ripiano in legno di fronte a me e scrissi in cima alla pagina del mio blocchetto 'Freud - inconscio - una parte del tutto e non il tutto di noi' .
«Ma vi sarà sicuramente capitato di dire qualcosa e di confondere i termini, giusto? Di dire una cosa al posto di un'altra, o di scrivere una parola anziché ciò che volevate scrivere davvero. A chi non è mai capitato di chiamare qualcuno col nome di qualcun altro?», chiese il professore, accomodandosi dietro la sua scrivania e posando le mani in grembo.
«Lapsus Freudiano», esclamò qualcuno dalle prime file. Tentai di capire da dove provenisse la voce e a chi appartenesse, ma voltandomi verso la fonte del suono troppe teste offuscarono la mia visuale. L'unica cosa che riuscii a notare fu un ciuffo che svettava verso il cielo di un colore non troppo scuro, per il resto niente.
Esatto, signorina Atson. Deduco che lei abbia letto "Psicopatologia della vita quotidiana"».
«Lei assegna, io eseguo», disse la ragazza dalla voce familiare, e la sua risposta suscitò un piccolo riso generale compreso quello del professore.
«Per chiunque non l'abbia ancora letto, e so per certo che c'è gente che non l'ha fatto, non è vero signor Allen?», un ragazzo a due file di distanza da me rise, e nascose il viso tra le mani, «consiglio vivamente di farlo, perché solo così potrete capire appieno ciò che vi spiegherò da questa lezione in poi».
Il professore fece un attimo di silenzio ed io appuntai accanto alle altre parole sul blocchetto la parola "lapsus freudiano".
«Secondo la teoria freudiana nei lapsus si manifesta un conflitto tra le nostre intenzioni coscienti e le tendenze inconsce che, così facendo, determinano una momentanea perdita di controllo sulla coscienza, lasciando scorgere il desiderio inconscio. Questo fa sì che, anziché dire ciò che dovremmo, le parole giuste ci sfuggono ed esclamiamo tutt'altro. Ovviamente, però, non esiste solo questo tipo di lapsus: qualcuno sa ricordarmi gli altri e il nome di questo che ho menzionato?».
Un ragazzo, seduto di fronte a me, sollevò una mano in cui impugnava una bic.
«Quello che ha descritto finora è il lapsus linguae, professore», rispose. L'insegnante annuì: «e gli altri?», chiese con nonchalance.
Il ragazzo bruno di fronte a me si grattò la nuca, imbarazzato, e rise: «Adesso mi chiede troppo, prof».
Quest'ultimo, che sembrava un uomo molto bonario e simpatico, rispose con un sorriso che scatenò quello di tutti gli altri e scosse la testa, ma poi qualcun altro sollevò la mano per rispondere e mi resi conto che si trattava di nuovo di quella ragazza di cui non riuscivo ad individuare il viso.
Il professore le concesse la parola con un cenno della testa e lei cominciò a parlare.
«Lapsus calami, scrivere una parola al posto di un'altra. Lapsus memoriae, ovvero dimenticare una determinata parola e avere l'impressione di averla in mente o, come diciamo solitamente, 'sulla punta della lingua', e poi c'è il lapsus manus, ovvero compiere un gesto errato della mano, anche nello scrivere».
«Giusto, Atson, giusto!», il professore sembrava contento della risposta di quella ragazza, come se fosse felice che almeno qualcuno dimostrasse sano interesse per gli argomenti trattati.
«Ciò che mi chiedo, prof...».
«No, ti prego Atson, sei andata così bene finora, non dirne una delle tue!», il professore cercò di trattenere una risata, ma tutti gli altri cominciarono a ridere prima di sentire cosa avesse da dire. Corrucciai la fronte, curiosa, e tesi le orecchie verso di lei.
«No, davvero, sono curiosa. Non è che esiste una specie di... lapsus della sessualità, o roba del genere che si possa accorpare al lapsus linguae?»
Il professore si passò la mano sugli occhi, come se fosse stanco, ma continuava a sorridere.
«Dove vuole arrivare, signorina Atson?».
«Il fatto è che l'altra sera, durante il mio turno notturno, una ragazza si è avvicinata al bancone del mio bar e mi ha chiesto un caffè. Era davvero una bellissima ragazza e ammetto che non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, così mi sono ritrovata a farle il caffè mentre studiavo ogni suo dettaglio. Ad un certo punto, invece di chiederle "vuoi dello zucchero?" le ho chiesto "vuoi che ti zuccheri?"».
La classe scoppiò in una risata generale e il professore si coprì la bocca con una mano, tentando di non far notare che la battuta aveva divertito anche lui.
Anche la ragazza rideva, ma continuò il suo racconto: «Lei mi ha chiesto "come?", ed io ho scosso la testa e le ho risposto con un bel "niente", ma la brutta figura l'ho fatta comunque! Ecco, mi chiedevo se questo si può considerare sempre un lapsus linguae o si tratta di altro!».
La campanella suonò in quell'istante e il professore smise di ridere sommessamente per dire: «Facciamo che le rispondo solo se la prossima volta mi porta una relazione sul testo che a quanto pare è stata l'unica ad aver letto!».
Intravidi la ragazza fare una specie di cenno da militare, poi si alzò, sistemò tutti i suoi appunti nella cartella ed uscì fuori dall'aula.
Ero un po' sconvolta per come la lezione si era conclusa: non mi sarei mai aspettata che un professore di università accettasse delle simili battute nella sua classe, ma da ciò che avevo visto lui sembrava conoscere molto bene i modi di fare di quella ragazza, per questo molto probabilmente aveva preso alla leggera le sue parole.
L'unica cosa che mi sconvolse fu che quella ragazza stava parlando di un'altra donna, aveva fatto delle battute a sfondo sessuale su quest'ultima, ma questo non aveva scosso nessuno... né gli altri ragazzi né il professore, che comunque apparteneva ad un'altra generazione e avrebbe potuto "risentirne" in qualche modo.
In quel momento diversi punti interrogativi affiorarono nella mia mente, ma decretai che metterli a tacere fosse la cosa migliore, se non volevo restare incastrata tra gli alunni della lezione successiva che stavano già entrando in aula.
Raccolsi la mia roba e uscii dall'aula in fretta, mettendomi la borsa in spalla.
Avrei tanto voluto beccare qualcuno della classe precedente per chiedere alcune informazioni in più riguardo i corsi, le materie specifiche, i prof, gli orari, la retta... Ma in un attimo sembrarono essersi dileguati in massa - forse lì non funzionava come al liceo, forse anche un piccolo ritardo tra un cambio d'aula e l'altro era soggetto a punizione -, ragion per cui non mi restò che uscire fuori tra uno sbuffo e l'altro e trascinarmi verso qualche altra parte dell'edificio.
«Buh!».
Ma che diavolo...?
Sobbalzai, il cuore per un attimo sembrò esplodermi in gola e fu come se anche lui si stesse prendendo gioco di me. Mi posai una mano sul cuore nel tentativo di calmarmi e al contempo lanciai un'occhiata omicida alla mia destra.
Ciuffo non troppo scuro che svettava verso il cielo, alta più di me di un bel po', occhi grigio-azzurri, sorriso strafottente sulle labbra, mani in tasca e penna dietro l'orecchio.
La barista.
La squadrai per bene; non volevo peccare di ipocrisia dicendo di essermi fatta una buona idea di lei fin dall'inizio, quindi il mio cervello non appena la vide elaborò un unico pensiero: non mi sarei mai aspettata che una come lei frequentasse le lezioni universitarie.
"Mai giudicare un libro dalla copertina", dicono, ma dovevo ammettere che io, nei suoi confronti, avevo fatto tutto l'opposto. In un'ora appena, qualche sera prima - forse per antipatia, nervosismo o collera -, avevo pensato che fosse un'arrogante senza arte né parte, una di quelle spocchiose che pensano che la vita prima o poi si renderà conto di quanto grandiose esse siano e per questo le premierà, senza che loro debbano fare alcun sforzo. Insomma, non l'avevo per niente catalogata come una possibile universitaria.
E mi ero sbagliata.
Mi morsi il labbro inferiore per un attimo, come se mi sentissi un po' stupida per aver ragionato in maniera tanto avventata, poi tornai a guardarla male.
Insomma, avevo sbagliato a giudicarla un'ignorante troppo sicura di sé senza conoscerla, ma ciò non toglieva che mi aveva appena fatto venire un principio di infarto!
«Ehm... ciao, ragazza-che-speravo-di-non-incontrare-mai-più».
Scossi la testa e la sorpassai, ma sentii i suoi passi farmi seguito.
«Sì, il tuo "addio" dell'altra sera è stato piuttosto eloquente, ma sai come si dice no? Più vuoi toglierti qualcosa di torno, più te la ritrovi in mezzo alle scatole».
Ridacchiò e poi si mise al mio fianco, camminando con entrambe le mani dietro la testa.
Continuai a camminare come se niente fosse.
«Sarò sincera, non mi sarei mai aspettata di rivederti qui».
«Ho la faccia di una che vuole zappare la terra tutta la vita? Senza offesa per gli zappatori, ma sono qui perché mi interessa la cultura».
Annuì piano al mio fianco con tanto di "aaaah", ed io, per un attimo, mi sentii presa in giro. Mi fermai nel bel mezzo del corridoio e la guardai bieca. «"Sarò sincera"», le feci il verso, «neanche io mi sarei mai aspettata di trovarti in un posto del genere. Ma mi sa che tra me e te corre una grande differenza: io so quando è meglio evitare di mettere a disagio qualcuno».
Feci spallucce e mi sentii improvvisamente acida e velenosa, ma fino a qualche istante prima ero stata educata e non era servito: dovevo rispondere ad armi pari.
Ripresi a camminare e lei, alle mie spalle, continuò a ridere.
«Tra me e te corre anche un'altra differenza, Nana: io prendo la vita molto più alla leggera di te».
«Sì, ho notato», sospirai.
«Non è che ti ha morso qualche insetto velenoso o che so io, vero?».
«Non è che hai qualche lezione da seguire o che so io, vero?».
Rise sommessamente, poi frugò nella borsa e tirò fuori un pacchetto di gomme da masticare, infilandone una in bocca.
«No», bofonchiò, «per tua sfortuna per oggi le mie lezioni sono finite, Nana».
Strinsi i pugni e chiusi gli occhi, fermandomi improvvisamente.
«Deve essere una gran bella dote naturale, la tua: sei qui da meno di dieci minuti e mi stai già mandando al manicomio».
Si mise di fronte a me e mi porse il pacco di gomme, invitandomi implicitamente a prenderne una.
«Sei tu che sei troppo suscettibile, Nana».
Roteai gli occhi e non le risposi, poi allungai una mano, timida, ed afferrai una chewingum, masticandola nervosamente.
Calò un silenzio imbarazzante in cui io non seppi più cosa dire e lei, evidentemente, era troppo impegnata a perforarmi il cranio con lo sguardo per proferire parola.
«Allora... L'altra sera mi aspettavo di vederti in discoteca, ma mi hai dato buca. Il che è strano, sai?, perché nessuno mi ha mai dato buca finora».
Aggrottai le sopracciglia e strinsi il manico della tracolla per mantenere la calma.
«Beh, mi dispiace aver ferito il tuo ego sproporzionato, ma si dà il caso che avessi di meglio da fare che passare del tempo a farmi insultare da te», volsi lo sguardo altrove.
Forse stavo infierendo troppo? Forse in fondo voleva soltanto fare amicizia. Magari mi trovava simpatica e io la stavo solo trattando male... Ma perché insultarmi e prendersi gioco di me? Che fosse il suo modo "particolare" di attaccare bottone? Beh, in ogni caso, mi stava antipatica. Non era il modo giusto per ottenere la mia simpatia.
La guardai per un attimo negli occhi e la vidi in difficoltà, come se non si aspettasse quella risposta, poi sembrò riprendersi. Immediatamente il suo sguardo mutò, divenne un po' più distante; abbozzò un sorriso ancor più strafottente e arrogante di quelli sfoggiati precedentemente, poi colmò la distanza tra di noi e accostò le labbra al mio orecchio destro, sussurrando: «Io ottengo sempre quello che voglio, Nana. Mi hai dato buca la prima volta, ma farò in modo in che non si ripeta di nuovo».
Mi irrigidii, fissando un punto oltre le sue spalle, trattenendo il respiro e sentendomi arrossire; si allontanò da me senza guardarmi negli occhi neanche per un attimo, mentre io la osservavo andare via in direzione del portone d'entrata.
Col cervello sottosopra mi ritrovai ad analizzare i suoi blue-jeans stretti al polpaccio e le solite sneakers ai piedi, la camminata convinta di chi sa il fatto suo, la borsa che ondeggiava piena di libri e fogli...
Allungò una mano oltre la testa e mosse le dita, abbozzando un saluto.
«Ci vediamo presto, Nana».
Uscì fuori dal portone, e solo quando questo si chiuse con un grosso fragore alle sue spalle sobbalzai e tornai alla realtà, come uno strappo forte all'altezza dell'ombelico.
Finalmente ero fuori dalla sua portata.
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Give me your hands and save me
RomanceAlly era un uccellino chiuso in gabbia che sbatteva le ali frenetico, smanioso di uscir fuori e godersi i raggi del sole e l'aria fresca sulle piume. Avrebbe tanto voluto possedere le chiavi della sua gabbia, ma nessuno, tranne sua madre, le aveva i...