Le settimane successive furono bellissime e indimenticabili.
A parte i primi tre giorni, in cui Mya non fece altro che rassicurarmi sui miei risultati finali, la Volvo di proprietà di John divenne totalmente nostra. Mya mi accompagnò al mare, al parco, a fare un pic nic, a vedere un sacco di film al cinema e perfino a teatro. Prendemmo in giro gli attori famosi, i presunti difetti fisici e tutti i ritocchi con cui avevano modificato i loro corpi già sfatti solo per mantenerli più giovani. Scoprii un talento particolare di Mya, la quale sapeva imitare alla perfezione molti dei loro vizi e tic, cose che non avevo mai notato ma che, successivamente, ebbi modo di riscontrare. Wow, quella ragazza era davvero una brava osservatrice!
Facemmo l'amore altre tre volte, una volta nel suo appartamento, un'altra volta nuovamente al mare e la terza in camera mia, in un weekend in cui mia madre e mio padre furono invitati in una casa di campagna di proprietà di parenti paterni.
Mi sentii alquanto ribelle; non dissi ai miei genitori che avrei invitato Mya a dormire da me, non inventai nemmeno un'altra scusa, dissi solo che avrei ordinato una pizza e che avrei visto un film strappalacrime. Tutto fuorché la verità, quindi.
Ogni volta che i nostri corpi si toccarono di nuovo, qualcosa di diverso sembrò esplodere tra di noi. Man mano che la nostra pelle e i nostri arti presero confidenza non ci fu più bisogno di parlarsi per capire le esigenze dell'altra, poiché gli occhi bastavano a dire tutto. I suoi mi dicevano esattamente tutto ciò di cui aveva bisogno e il mio corpo, a quanto pareva, parlava già abbastanza bene.
Mi bastava uno sguardo, un gesto, una carezza, un movimento in più per farle capire.
Guardammo spesso la tv a casa mia, poi mi beccai l'influenza e lei si prese cura di me, portandomi dolcetti e medicine fino ai piedi del mio letto per evitare di farmi alzare. Mia madre non la guardava sempre benissimo; a volte avevo l'impressione che la stesse squadrando a fondo per capire quali fossero le sue vere intenzioni, altre volte invece sembrava assolutamente tranquilla, come se non si preoccupasse affatto della presenza di Mya al mio fianco. Non riuscivo a capire se ero io quella paranoica o se invece la beccavo davvero, a volte, in momenti in cui le faceva la radiografia per capire chi fosse e come fosse fatta.
Beh, non m'importava. Finché non faceva un'altra delle sue scenate o non si impegnava a far parlare la sua ignoranza, per me i suoi silenzi inquisitori andavano più che bene.
La seconda settimana di giugno fummo impegnate totalmente nel riallestimento del locale di John; non era il mio lavoro e non dovevo nemmeno farlo per forza, ma mi annoiavo a poltrire sul divano e poi io e Mya, così, avremmo passato dell'ulteriore tempo insieme!
Inutile dire che ne combinammo di tutti i colori: avvolsi Mya più e più volte nei festoni colorati da festa, lei mi macchiò spesso con le nuove bibite analcoliche comprate per i minorenni che venivano a ballare alle serate – qualcosa dal gusto quanto più possibile simile alla roba alcolica che di solito pretendevano nonostante sapessero che fosse vietato vendere dell'alcol ai più giovani -, disse che doveva pur testare su qualcuno quelle bevande nuove... mi sentii in diritto di detestarla in quei momenti e lasciai cadere sul pavimento il secchio con l'acqua sporca con cui avevamo pulito la sala, rendendo tutto di nuovo un gran porcile.
Mi rincorse ovunque fino a farmi cadere e alla fine restammo sul pavimento a ridere come due sciocche per una buona manciata di minuti, i fianchi che facevano troppo male per rialzarsi, le scarpe umide e scivolose e l'acqua fin dentro i vestiti.
Mya era la ventata fresca d'aria che mi ci voleva per cambiare la mia vita, per renderla migliore.
Bella come il prato verde del parco durante i nostri pomeriggi d'estate, bella come il mare di sera quando ci sedevamo in riva all'acqua per bagnarci le gambe, bella come le stelle e il cielo di notte, bella come quei meravigliosi giorni passati a ridere, tra baci e carezze nascoste, tra sguardi che chiedono di restare e occhi che rispondono che non c'è nemmeno da chiederlo.
Non avrei mai pensato che una come lei potesse essere una ragazza da lettere romantiche, e invece durante il periodo in cui mi ammalai me ne scrisse una ogni giorno, descrivendomi per filo e per segno tutto quello che adorava di me o tutto quello che invece la mandava in bestia dei miei comportamenti. Scoprii che, come il resto delle cose, aveva osservato anche me molto bene, poiché si era accorta di cose, di gesti, di movimenti abitudinari – come i tic degli attori famosi, d'altronde – che io invece avevo sempre ignorato o di cui al massimo non mi ero curata.
Quei giorni erano volati proprio grazie all'attesa smaniosa di leggere quelle lettere; le ore si erano consumate, tra film e attese, sperando di ricevere presto altre parole con cui bearmi e ben presto la febbre era passata e così anche la tosse, il naso chiuso e la debolezza. Ero tornata più forte di prima!
Quel pomeriggio mi dedicai alle faccende di casa, aiutai mia madre a sistemare il giardino e insieme demmo una rastrellata anche ai cespugli e alle foglie sul davanti. Decisi di modificare perfino camera mia; lasciai l'armadio lì dov'era, ma sistemai il letto sotto la finestra e la scrivania dal lato opposto della stanza, accanto alla porta. Così ebbi improvvisamente più spazio per appendere le foto che mi interessavano, per ulteriori mensole su cui posare tutto ciò che più mi piaceva.
Un rumore familiare, come di qualcuno che bussa, provenne dalla porta di camera mia e mi apprestai ad aprirla.
Mia madre se ne stava in piedi accanto alla parete destra della porta, gli occhi seri e il viso combattuto. Aggrottai le sopracciglia, preoccupata.
Cosa c'era che non andava, adesso? Fino a qualche ora prima avevamo chiacchierato del più e del meno in giardino, dei vicini e delle loro abitudini strambe, degli orari di lavoro di papà, della casa, delle amiche, perché sembrava improvvisamente così... distante?
«Posso parlarti un momento?», cominciò, i capelli rossastri un po' mossi, il vestito estivo macchiato di verde.
Ingoiai l'enorme nodo che mi si era formato in gola, facendole cenno d'avanzare.
Andò a sedersi sul mio letto e si guardò intorno, tastando il materasso con le mani.
«Cambiamenti?», chiese, indicando la nuova disposizione delle cose con gli occhi. Il suo sorriso tirato non mi convinceva per niente.
Feci spallucce.
«Mi ero stancata di vedere la stanza sempre nello stesso modo. A volte cambiare fa bene».
«Anche cambiare se stessi fa bene, è cambiare la propria morale che non fa bene affatto. Come un timorato di Dio che improvvisamente perde o modifica i suoi ideali e crede che l'omicidio sia legale. O come un bravo ragazzo che non ha mai visto nemmeno una bustina di coca e viene trascinato dal lato sbagliato della vita, finché non viene convinto che spacciare sia una cosa giusta...»
«Non capisco dove vuoi arrivare», le mani presero a sudarmi e seppi per certo di essere in agitazione. Le sue metafore, con cui amava tanto parlare, erano il preludio della tempesta, qualcosa che poteva colpire molto più forte del previsto. Il gancio destro che avrebbe steso il pugile.
Allargò le braccia.
«Da nessuna parte, Ally. Voglio solo dire che è giusto tenersi stretta la propria morale, non cambiare ciò che si è solo perché qualcuno ci convince a farlo».
Incrociai le braccia al petto, in difesa.
«Di chi stai parlando?», la interrogai, quasi sicura che stesse parlando di me.
Sospirò, guardandosi le mani come un'anima in pena.
A me faceva pena e basta, ma nel senso negativo del termine.
«Ho dovuto frugare nel tuo telefonino per togliermi qualche dubbio e...»
«Cosa?! Mamma! Sei impazzita per caso?! Quella è la mia privacy! Non puoi frugare tra le mie cose senza permesso!»
«Senza permesso? Questa casa appartiene a me e a tuo padre, Ally, tu sei nostra figlia, sei minorenne ed ubbidisci alle nostre regole! Se tua madre è preoccupata per te e tu smetti improvvisamente di parlarle e di condurre la vita che conducevi prima, è più che normale che lei si preoccupi! Avevo tutto il diritto di guardare tra i tuoi messaggi!»
«Ah, questa casa appartiene a voi ed io, essendo la figlia, sarei soltanto un ospite la cui privacy può essere violata da chiunque poiché insignificante?!»
«Non ho detto questo», fece seria, cercando una tregua che non poteva innescare.
«Invece hai detto proprio questo! Non è assolutamente una cosa corretta! Se vuoi sapere qualcosa è me che devi cercare, non il mio cellulare!».
Corrugò la fronte e si alzò, parandosi di fronte a me. Persi un po' della mia risolutezza e indietreggiai di un passo.
«Non posso parlare con te perché tu hai smesso di dirmi la verità! Mi menti, inventi delle cose assurde e me le spacci per vere, sei diventata una bugiarda!», gesticolò frenetica, una grossa vena le pulsava sulla fronte.
Boccheggiai, guardandola incredula.
«Io non sono una bugiarda».
«Ah, no?! Mi hai detto che Mya è fidanzata da un sacco di tempo con un ragazzo più grande di lei ed è una bugia palese! Mya è lesbica!».
Quelle tre parole mi risuonarono come l'eco di una valanga pronta a seppellirmi in un solo istante. Non riuscii a far altro se non a guardarla negli occhi, il sangue mi si gelò nelle vene e tutto il calore che credevo di avere in corpo sembrò abbandonarlo in una frazione di secondo.
Scossi la testa incredula, cercando di farle capire che fosse completamente fuori strada, ma lei incrociò le braccia al petto e mi guardò furiosa.
«Ho visto i messaggi che ti manda, sai? Non sono dei semplici messaggi amichevoli. Io non ho mai detto di amare un'amica. Né un'amica ha mai detto di amarmi».
Cercai una via di fuga, lo specchio meno scivoloso su cui arrampicarmi. Sapere che aveva letto i miei messaggi era una sensazione talmente orribile e disgustosa che non riuscivo nemmeno a reagire. Ero interdetta, avevo subito una violenza senza nemmeno saperlo e mi sentivo come chi, in una scazzottata, viene tenuto per le spalle da due bulli mentre il terzo colpisce: inerme, non potevo e non avevo potuto fare niente per fermare tutto quello che avevo subito e che stavo subendo anche in quel momento.
Avevo la nausea, dovevo vomitare...
«Guarda che ti stai sbagliando per l'ennesima volta. Tutte le ragazze di oggi si inviano messaggi simili, l'unico motivo per cui non ne hai mai trovati di uguali da parte di altri mittenti è perché non ho mai avuto delle amiche importanti come Mya prima di oggi», cercai di essere pacifista, di abbassare i toni con cui quella conversazione sembrava essersi alterata più del dovuto.
Mi guardò bieca, come se non l'avessi convinta quasi per nulla. Quel "quasi" però mi rincuorava. Conoscevo i suoi occhi e conoscevo lei, sapevo che ingannarla era quasi sempre impossibile, ma non lo era prendere tempo.
Certo, col senno di poi anche prendere tempo mi spaventava, perché sapevo che sarei arrivata ad un punto in cui non ne avrei avuto più e quello sarebbe stato il momento della verità.
«Io non ti credo. Voglio che tu smetta di frequentarla».
Strabuzzai gli occhi, allarmata; scattai in avanti, come a volerla prendere per le braccia, come a volerla scuotere e farla tornare in sé. No, no, no, non poteva privarmi di Mya. Era come privare un pesce dell'acqua o un uomo dell'aria.
«Cosa?! No! Mya è la mia migliore amica, da quando viviamo qui è stata l'unica persona realmente interessata a conoscermi, l'unica che ad oggi mi conosca davvero ed accetti i miei pregi e i miei difetti! Non ha fatto niente di male, non puoi allontanarla ingiustamente!».
Sentivo la disperazione montare dentro, avvertii improvvisamente che se solo mi avesse negato la sua presenza avrei fatto di tutto, follie e assurdità, per disubbidire e riuscire a frequentarla ancora, a viverla ancora, a non lasciarla scappare.
Gli occhi punsero, pronti a piangere e a scoppiare così come il mio cuore. Non potevo farmi vedere debole però, altrimenti le avrei dato le conferme di cui aveva bisogno.
In quel momento la cosa giusta da fare era farsi vedere dispiaciute, scandalizzate al punto giusto e disposte a fare la qualsiasi per confutare ogni prova avesse dalla sua parte per affermare ciò che stava dicendo.
«E che mi dici di quelle ragazze che ti accompagnavano sempre in discoteca all'inizio dell'anno?», abbozzò, ma nemmeno lei era così convinta.
Strinsi le braccia al petto – un gesto che mi permise di contenere per un attimo anche la paura – e la guardai di sottecchi, scuotendo la testa.
«Sai anche tu che non sono davvero mie amiche. Mi usavano solo per gli strappi a casa a fine serata, non gliene fregava niente di me».
«Allora perché continuavi ad uscirci?», m'interrogò, distraendosi per un attimo.
Gliene fui grata.
«Perché volevo essere una ragazza normale...», ammisi, abbassando lo sguardo e optando per la verità. Avevo già detto troppe bugie, salvarmi in calcio d'angolo con la sincerità non avrebbe guastato affatto. D'altronde lei era molto brava a scovarmi.
«Tu sei una ragazza normalissima, Ally. Sei speciale e bellissima, hai un carattere perfetto e hai tante qualità che ti elevano al di sopra di moltissime altre teste adolescenziali che ti circondano. Ma non saresti normale se fossi omosessuale, l'omosessualità non è una cosa normale, il nostro Dio non l'accetta e tu non devi entrare a far parte di questo circolo maledetto», concluse con voce melensa, le labbra strette, la mascella contratta, le mani chiuse in grembo e la schiena eretta come chi sa di avere il coltello dalla parte del manico ed utilizza tutto il suo potere al meglio, sfruttandolo finché può. Era piena di odio, di disprezzo... Mi feriva. Sapevo di essere parte del circolo di cui parlava e no, non mi faceva male perché dopo mesi e settimane di confusione, dopo tanti giorni di agonia spesi a pensare di fare la scelta giusta, io avevo finalmente deciso di far parte di quel mondo, del mondo di Mya e di tutte quelle che erano come lei, e non mi pesava perché mi trovavo meglio di quanto mi fossi mai trovata nel mondo che tutti definivano "normale" solo perché coperto dalla campana di vetro protettiva delle convenzioni.
Io ero uscita fuori da quest'ultime, mi ero beccata lo scherno da parte di Linda, Sam e Meg, le cattive voci sparse da Scarlett, avevo rischiato di perdere i voti che tanto mi ero sudata, ma non ero stata disposta ad allontanarmi da quel mondo che con tanta fatica ero riuscita a trovare e ad accettare come mio. Un mondo di cui sentivo di far parte.
Sì... Decisamente, sapere che se avesse scoperto ciò che ero mi avrebbe considerata maledetta perché parte del "circolo maledetto" mi faceva davvero tanto male. Non come un coltello che infligge un colpo, ma come una lama sottile che continua a strisciarti sulla pelle, ti mette i brividi e ti provoca delle continue abrasioni, ti spaventa e ti fa male, ma non va via, resta lì e continua a strisciare aspettando che tu prenda un'altra decisione. Solo in quel caso si allontanerà da te.
«Okay», risposi semplicemente all'improvviso. Mi ero persa nei miei pensieri e mi ero persa pure il resto del discorso.
Sembrò rasserenarsi; il suo viso si distese, le guance tornarono lisce, prive di grinze nervose, il colorito acceso ridivenne roseo e infine sospirò, riservandomi un ultima, lunga occhiata.
Sapevo cosa stava per fare, conoscevo quello sguardo da: "non dimenticare che nonostante il male che ti procuro, tutto ciò che faccio lo faccio per te", difatti non arrivò a tardare anche il famoso bacio di Giuda con cui mi sporcò, per l'ennesima volta, la fronte, prima di uscire a grandi falcate fuori dalla mia camera.
Rimasi immobile al centro della camera, il cuore che ancora ballava frenetico nel petto, lo stomaco sottosopra e un sacco di punti interrogativi sulla testa. Mi sedetti ai piedi del letto e mi presi la testa tra le mani: con quell' "okay" le avevo dato le conferme di cui aveva bisogno? E cioè che la mia vita stava davvero tendendo ad avvicinarsi a quel lato della spiaggia? Ed io, sotto suo ordine, avevo accettato di allontanarmene con quella parola breve e concisa? Potevo ancora frequentare Mya o mi era proibito?
Il telefono squillò prepotente su una mensola semi-vuota, posto adatto per inserire gli ultimi peluche rimasti.
Rivolsi lo sguardo verso l'oggetto vibrante, lo guardai come si può guardare una bomba pronta ad esplodere della quale ci si è accorti solo all'ultimo stante; se avessi letto il suo nome sullo schermo avrei saputo rispondere? O dopo quella discussione così spaventosa avrei avuto timore anche di pigiare il tasto verde per accettare una sua semplice chiamata?
Mi alzai con cautela ed allungai la mano verso il cellulare, afferrandolo delicatamente.
Non appena lessi il suo nome sullo schermo seguito da un piccolo cuore nero il mio, di cuore, sussultò. Mi morsi il labbro inferiore e mi affacciai leggermente dalla porta di camera mia, assicurandomi che mia madre non fosse proprio dietro la medesima ad ascoltare ogni mia singola parola; appurato di essere sola risposi al telefono con un enorme groppo in gola e mi gettai tra le lenzuola, nascondendo la bocca con una mano per evitare di far troppo rumore con la voce.
«Pronto?».
«Ehi, piccola...».
Quelle due semplici parole bastarono a far scoppiare tutta la tensione accumulata al centro del petto in un pianto a dirotto.
«Che succede?!», chiese allarmata, la voce preoccupata di chi non sa che pesci prendere.
Non ci impiegò molto ad ordinare un piano ben fatto che ci desse la possibilità di incontrarci, e mentre io continuavo a piangere senza avere la forza di parlare e m'infilavo le scarpe da tennis, ascoltando tutte le sue coordinate, lei aveva già scelto luogo e ora per vederci, organizzato un appuntamento sicuro e iniziato a camminare verso il punto di ritrovo prima ancora di concludere la conversazione.
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Give me your hands and save me
RomanceAlly era un uccellino chiuso in gabbia che sbatteva le ali frenetico, smanioso di uscir fuori e godersi i raggi del sole e l'aria fresca sulle piume. Avrebbe tanto voluto possedere le chiavi della sua gabbia, ma nessuno, tranne sua madre, le aveva i...