Cap 19: Time passes quickly

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  Svegliarmi di nuovo ogni mattina col suono trapanante della sveglia nelle orecchie non fu affatto una cosa divertente. Lo scoprii già a cominciare dal primo giorno, quando il cinguettare degli uccellini fu improvvisamente sostituito. Se l'istituzione scolastica si fosse per un solo attimo fermata a chiedersi il perché di tanto stress tra gli studenti, analizzando i milioni di motivi per i quali un adolescente in confusione ormonale, fisica e psicologica avrebbe potuto esserlo, sono sicura che avrebbe trovato in cima all'elenco di tutte le opzioni plausibili l'orario scolastico: decisamente, si iniziava troppo presto. Se solo avessi avuto la possibilità di mettere piede a scuola ogni mattina alle nove, anziché dovermi svegliare alle sette meno un quarto per essere lì in tempo per le otto e dieci, molta stanchezza, sonnolenza, nervosismo e ansia da prestazione sarebbero sicuramente scomparsi. Avrei avuto più tempo per rilassarmi sotto la doccia e magari per ripassare le materie necessarie a superare una brutta verifica. Invece? Eravamo tutti nella merda. Non ci bastava il bullismo, i disordini alimentari, l'acne, il desiderio di emergere e quello opposto di nascondersi, le caste sociali create dagli stessi studenti e tutto lo schifo che veniva a seguire, perfino le ore in meno di sonno!
Sospirai davanti al cornetto caldo che mia madre mi aveva posato sul tavolo accanto ad una tazza di latte caldo. Perché ci metteva ancora le cannucce colorate dentro? Non bevevo il latte con la cannuccia da quando avevo dieci anni. Sospirai ancora: quella donna non avrebbe mai accettato che stavo crescendo e che giorno dopo giorno cambiavo un pezzo del mio passato con una mia azione presente.
«Si ricomincia, eh?», gracchiò lei con la voce ancora impastata di sonno. Le sue mani vagarono dentro il frigorifero in cerca del succo d'arancia, e quando lo trovò se ne versò un po' in un bicchiere di vetro, rimettendo il brik al suo posto.
Scossi la testa, addentando pigramente la sfoglia dolce della brioche, giusto per non restare a stomaco vuoto. E non risposi.
«Sbrigati a mangiare, non puoi arrivare tardi il primo giorno. Ti ho preparato la camicetta rosa sul divano e...»
«Non metterò quella camicetta, ho già scelto cosa voglio indossare», le feci notare, irritandomi. Mi sceglieva anche i vestiti adesso? Cos'è, ero talmente malata di omosessualità da dover necessariamente aver bisogno della mamma? Ero regredita allo stato brado, avevo di nuovo cinque anni e non sapevo più allacciarmi le scarpe? Cristo, non avevo nessun deficit.
«Ma hai sempre indossato quella camicetta ogni primo giorno di scuola, da quando frequenti il liceo... Pensavo volessi farlo anche quest'anno».
Scossi la testa, allontanando sia il latte che il cornetto. Volevo vomitare l'unico boccone che avevo piluccato.
«Le cose cambiano», mi allontanai dal tavolo e strappai la camicia dal bracciolo del divano, appallottolandola nella mia mano e riportandola in camera mia.
Mi richiusi la porta alle spalle, sperando di non sentirla urlare né parlare né sussurrare. Volevo che stesse zitta, che non mi rivolgesse più la parola se non per dirmi: "Ho sbagliato, questa è la tua vita: vivila al meglio e goditi ciò che ha da offrirti, che a me piaccia o meno. Non sono affari miei". Ma sapevo perfettamente che ciò non sarebbe mai accaduto.
Mi tolsi il pigiama, lanciandolo sul letto, guardando il mio corpo seminudo allo specchio. Mi sfiorai la pancia, le cosce, la curva delle clavicole: ero una ragazza nuova. Mi sentivo così diversa rispetto al passato... Non sarei stata più la solita stupida, accondiscendente, che acconsente sempre a tutto tranne che a rendersi felice. Avrei detto no, se mi si fosse presentata l'occasione. Avrei riflettuto sulle cose. Avrei smesso di pensare prima agli altri e poi a me stessa, perché ero stanca di ferire me pur di non ferire chi mi circondava.
Basta così.
Quello era il mio anno. Mi mancavano due mesi alla libertà e volevo essere una persona nuova, a cominciare dal mio ultimo primo giorno di scuola.
Afferrai una maglia blu scuro da una gruccia, indossai un paio di jeans di cotone bianco ed infilai dei sandali di paglia coordinati.
Mi pettinai davanti allo specchio, mi colorai le labbra con del lucidalabbra rosa scuro ed afferrai il mio zaino in pelle marrone, scendendo di fretta le scale.
Chi l'avrebbe mai detto che in così poco tempo avrei trovato ciò che mi piaceva da quell'armadio pieno zeppo di cose che non ero mai riuscita a vedermi addosso?
Non volevo puntare il dito contro qualcun altro quando la colpa principale di ogni mia sega mentale era, appunto, la mia, ma... Riflettendoci, in passato avevo sempre chiesto consiglio a mia madre su qualsiasi cosa, a cominciare dall'abbigliamento, ed era sempre stata lei ad avere il giudizio finale su camicie e pantaloni, quindi probabilmente le mie crisi in merito a quest'argomento derivavano in primo luogo dalla paura di non piacerle mai, di fare sempre scelte sbagliate a cominciare dalle cose più banali, e ciò mi aveva portato a non accettare niente né di me né di ciò che possedevo.
Che fosse arrivato il tempo dell'accettazione? Se ciò implicava sentirsi improvvisamente tanto liberi quanto adulti, beh... allora sì, era decisamente arrivato il tempo dell'accettazione.
Mi diressi all'auto e mi chiusi dentro, attendendo mia madre.
Niente autobus per la malata d'omosessualità, avrebbe potuto evadere dalla prigione ed essere un pericolo per tutte le altre donne etero, possibili vittime della suddetta!
Ma vaffanculo.
Non ci mise molto, ma per tutto il tragitto non fece altro che guardare la strada al di là del parabrezza e ostentare il suo silenzio offeso. Poteva offendersi quanto le pareva, prima si rendeva conto che non ero più la ragazzina insicura del passato meglio era.
Il cielo era plumbeo, zeppo di pioggia che presto non sarebbe più riuscito a contenere; speravo piovesse talmente tanto forte da bloccarci tutti dentro l'edificio scolastico, così non avrei dovuto tornare dentro quella gabbia d'oro.
I cancelli rossi e scoloriti del parcheggio ci accolsero, ma preferii scendere dall'auto prima che mia madre riuscisse a trovare parcheggio. Si fermò e mi permise di saltare giù.
«Io e tuo padre abbiamo deciso di passare dalla chiesa, presto o tardi. Non abbiamo ancora deciso quando. Ti consiglierei di esserci, è tempo di confessioni», ordinò, prima di afferrare il mio sportello e sbatterlo con veemenza contro il telaio dell'auto.
Fece marcia indietro così velocemente da non darmi nemmeno il tempo di rispondere.
Cosa?!
Confessioni?
No, no, no, non volevo confessarmi, non volevo andare in chiesa, non volevo parlare di me con degli uomini di chiesa bigotti e dalla mente chiusa, non volevo!
Ma non c'era un modo di fermare la disperazione che si stava impossessando di me. M'intrufolai, incespicando, dentro l'edificio scolastico e trascorsi la giornata tentando di non pensare alla sua voce fastidiosa che parlava di cose che sarei stata costretta a fare presto.

Give me your hands and save meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora