Una ragazza nuova.
Chissà perché, da un po' di tempo avevo dato per scontato che al nostro corpo classe non si sarebbe aggiunto più nessuno, invece quel giorno dovetti ricredermi.
Scarlett Manson, così si chiamava. Come tutti i nuovi studenti provenienti da altre città, anche lei stava affrontando l'imbarazzante momento delle presentazioni di fronte a tutta la classe, e per un attimo pensai che avrei preferito farmi investire dieci volte da un tir piuttosto che essere al suo posto.
Okay, forse era esagerato... Facciamo che avrei preferito di gran lunga fare un bagno in una teca di vermi, piuttosto che starmene lì in piedi di fronte a venti paia di occhi giudicanti pronti a criticare qualsiasi tuo movimento, gesto, indumento, reazione, battito di ciglia.
Io mi limitai ad osservarla per ciò che era: capelli neri e lisci, ad altezza seno, occhi color ghiaccio e pelle bianco latte, labbra carnose e scure, seno prosperoso, pancia piatta, gambe magre, fisico slanciato, alta poco più di me.
Insomma, a ben vedere sembrava proprio la tipica bellezza mozzafiato che lascia tutti i ragazzi a bocca aperta e fa crescere dei piccoli mostri verdi sui nasi delle ragazze.
Compreso il mio.
Avrei pagato oro per essere bella la metà di quanto lo era Scarlett. Lanciai uno sguardo fugace a destra e a sinistra e mi resi conto che il massimo giudizio negativo che aleggiava negli occhi dei ragazzi presenti in aula era l'invidia, e che tutti pendevano già dalle sue labbra. Nessuno la stava giudicando male per i suoi abiti, nessuno la stava criticando per il trucco scuro sugli occhi o per i molteplici anelli che sfoggiava su tutte le dita, nessuno le stava puntando il dito contro per la gonna troppo corta o per i collant ricamati, abiti fin troppo vistosi per una ragazza la cui destinazione è il semplice ambiente scolastico.
A tutti andava bene.
Erano tutti invidiosi di lei.
Boom, marchiata.
Senza che lei se ne fosse resa conto, negli occhi di ognuno dei miei compagni di classe si era già condensata la devozione; un semplice battito di ciglia, ed era appena stata etichettata come la "ragazza nuova, quella cool".
Qualsiasi cosa fosse quella ragazza - da dove venisse, cosa le piacesse fare, che carattere avesse, i suoi gusti, il suo passato, quale musica ascoltasse, se fosse educata o meno, i suoi progetti - a loro non importava: l'etichetta le era stata già incollata sulla schiena e recitava le parole "alla moda".
Era appena diventata una di quelle da invitare, una da party, una okay, una di quelle che nel giro di un mese mi avrebbe chiamata a casa per supplicarmi di venire in discoteca così da assicurarsi un passaggio per il rientro.
Sospirai, affranta: col senno di poi, se solo fossi stata bella la metà di Scarlett mi sarei sottoposta molto volentieri a quella tortura. Mi sarei risparmiata i vermi e la teca, di sicuro.
«... e quindi vi invito a trattarla al pari di qualsiasi altro ragazzo ci sia in quest'aula, ma soprattutto a darle il benvenuto e ad aiutarla ad integrarsi come si deve!».
Il professore di matematica le fece cenno d'accomodarsi e lei gli sorrise, mostrando una chiostra di denti bianchi e sani.
Incassai la testa dentro le spalle e scomparvi nel buio del mio ultimo banco, mentre invece lei attraversava l'aula fino a sostare di fianco al banco prima del mio. Mi lanciò un'occhiata che non ricambiai, quindi non seppi mai che tipo di sguardo mi rivolse, ma riconobbi il piccolo sbuffo che ne conseguì, derivato da una risata repressa.
Non capii - né volli concentrarmi più di tanto - il perché di quella risata né perché non chiese a me di cederle il posto, ma bensì al ragazzo prima di me... ad ogni modo, questo si alzò di buon grado e la lasciò accomodare, cercandosi un altro banco.
Pensai che se fossi stata io quella nuova e fosse toccato a me andare in cerca di un posto in giro per la classe, probabilmente sarei finita col sedere sul cestino della carta straccia.
Il professore riprese la sua lezione in completa tranquillità ed io cercai di fingere che non mi sentissi affatto a disagio.
Tentai di affrontare il resto dell'ora come se non esistesse, ignorando le occhiate deliziate che tutti a turno le lanciavano, finché la campanella dell'intervallo non mi salvò da qualsiasi possibilità di essere depredata con gli occhi.
Sgattaiolai fuori dall'aula e sgusciai velocemente per i corridoi, nascondendomi dietro l'anta fredda del mio armadietto in ferro. Lanciai un'occhiata furtiva in giro per assicurarmi che non ci fosse un forte agglomerato di studenti - mi sentivo giudicata costantemente, speravo di essere quanto più sola possibile - e notai con triste disappunto quanto l'interno del mio armadietto, rispetto a quello delle altre ragazze, fosse vuoto e scialbo.
In fondo mi rispecchiava: non erano molte le ragazze che stavano riposando i loro libri, ma quelle che riuscivo a vedere avevano un armadietto sicuramente più ricco di foto, quaderni, colori, fogli, post-it, lettere...
Sospirai.
Quella non era sicuramente una buona giornata: fuori pioveva a dirotto, l'aria era talmente fredda e umida da avere l'impressione di essere ricoperti da dei cubetti di ghiaccio; l'unica cosa positiva di tutto ciò stava nel fatto che il brutto tempo aveva lasciato a casa gran parte degli studenti, e questo rendeva l'ambiente scolastico molto più vivibile di sicuro.
A mensa afferrai un vassoio e lo riempii con una ciotola di insalata di frutta e una bottiglia di soda, andando a sedermi direttamente in fondo alla sala ad un tavolo vuoto, ma non rimasi sola molto a lungo perché molto presto il posto avanti al mio fu riempito da Eric.
Sbattei le palpebre in fretta, osservandolo mentre si sedeva goffamente.
«Spero non sia occupato!», sembrò scusarsi per non avermi chiesto il permesso prima di accomodarsi. Scossi la testa energicamente e tamburellai con la mia forchettina di plastica sul bordo del vassoio, nervosa.
Non avevamo parlato molto dall'ultima volta che c'eravamo visti, anche perché non era capitato di avere lezioni in comune se non quel giorno, dove c'eravamo salutati con un banale cenno della mano e un sorriso a mezza bocca. Non che fosse stato un sorriso falso, ma mi era parso che fosse tirato, imbarazzato... Ad ogni modo ora era lì, come se ci parlassimo ogni giorno, e ciò mio malgrado mi faceva piacere perché mi sentivo meno sola.
Afferrò dal vassoio un hamburger e lo addentò, gustandolo.
«Hai sentito cos'è successo?», chiese poi, attendendo di ingoiare prima di parlarmi.
Teneva lo sguardo basso e ciò mi fece capire che in fondo era sempre il solito Eric, il solito timido Eric che non si apriva con nessuno, composto ed educato, sebbene stesse cercando disperatamente di farsi un'amica e di essere un ragazzo "normale".
Che poi, chi stabiliva cos'era normale?
«No... Che è successo?», lo interrogai, aggrottando le sopracciglia.
Infilzai un pezzo di ananas e lo portai alle labbra, masticando.
Lui si guardò intorno con fare circospetto, poi addentò di nuovo il suo panino e attese prima di rispondermi.
Intorno a me tutto taceva, ma forse era ciò di cui più avrei dovuto preoccuparmi: nella mia scuola non c'era mai silenzio. Mai.
Che stupidaggine non averlo notato per tempo.
«Meg e Sam hanno portato dell'alcol a scuola. Alcol, capisci? Non sono ancora state scoperte perché... cioè, capisci no? Hanno tutta la scuola dalla loro parte, sono amate da tutti, non hanno di certo di questi problemi, però mi piacerebbe smascherarle. Non tanto perché penso che non sia giusto fare ciò che stanno facendo, ma perché vorrei vendicarmi di tutte le volte che mi hanno gettato in pasto ai leoni! E di tutte le volte che mi hanno usato!».
E per un attimo gli tremarono le mani, per cui pensai che fosse davvero arrabbiato per il fatto che lo usassero come zerbino per poi disfarsi di lui quando volevano. Un po' come facevano con me, in fin dei conti.
Dovevano aver utilizzato quel giorno perché poteva essere davvero strategico: c'era poca affluenza di scolari e i professori erano divisi nelle classi con maggiore concentrazione di ragazzi.
«Ma da chi l'hanno preso?», gli chiesi, masticando un altro pezzo di ananas insieme a uno di fragola.
Lui fece spallucce e diede un altro morso al suo hamburger.
Roteai gli occhi e poggiai il mento sul palmo della mano, cercando Meg e Sam per la sala: le trovai sedute al tavolo dei più popolari che quel giorno sembrava quello degli sfigati, vista l'assenza della maggior parte dei giocatori della squadra della scuola e delle cheerleader.
Mi domandai cos'avessero da parlottare tanto: si guardavano intorno facendo intendere chiaramente di avere qualcosa da nascondere, ridevano e si parlavano ad una distanza così ravvicinata da avere l'impressione che si alitassero sui visi.
«Si sa almeno il perché di questa pazza idea?».
Scosse la testa come incredulo ed ingoiò il suo boccone.
«Non voglio essere scortese, Ally, anche perché non lo sono e fingere sarebbe piuttosto difficile! Ma sai, scortesia e sincerità spesso suonano allo stesso modo... Io credo che tu non sia proprio un'ottima osservatrice, sai? Non voglio offenderti, davvero, ma... Se non sai il perché stanno facendo tutto questo evidentemente non hai notato la loro assenza durante la gita alle università».
Assottigliai lo sguardo mentre lui morsicava ancora una volta il suo hamburger e mi chiesi se fosse il caso di prendersela; lo squadrai a fondo per quel che la mia personalità mi concedeva senza urlarmi "non è educato!", poi, vedendolo in fondo tranquillo, capii che non voleva ferirmi o pungermi sul vivo, anche perché Eric non aveva la sfacciataggine e l'arroganza tipica di quei gesti, bensì era un invito - forse un brutto invito, ma pur sempre un invito - a prestare più attenzione.
«E cosa c'entrerebbe la loro assenza al tour delle università con questo? Non vedo come possano coincidere in qualche modo...», storsi le labbra in una smorfia confusa.
Mi chiese di poter bere un po' della mia soda, poi ricominciò a parlare.
«Gira voce che Meg e Sam non abbiano per niente una buona media: i voti di Meg oscillano tra due e quattro e Sam rischia seriamente la bocciatura, quest'anno. Hanno approfittato della gita alle università per intrufolarsi dentro la scuola, convinte che fosse del tutto deserta, prendere i registri dei prof e modificare i loro voti, ma hanno completamente dimenticato un dettaglio: il preside era in servizio, nel suo ufficio. Le ha viste entrare attraverso le telecamere di sicurezza, le ha seguite nelle loro mosse, e proprio quando stavano per darsela a gambe le ha colte in castagna davanti al portone d'entrata», si pulì le labbra con un fazzoletto, «qui la versione si divide in due sotto-versioni: alcuni dicono che il preside le abbia espulse, altri dicono che sia stato magnanimo e che le abbia solamente punite con una sospensione, il giusto per far comprendere loro che hanno commesso degli atti illeciti, ma ad ogni modo sono qui, sospensione o espulsione, il che è già un grosso segno di ribellione...».
Era confortante vedere che, per quanto teso, riusciva a sciogliersi pian piano... almeno con me.
«Meg e Sam non hanno accettato la punizione, qualsiasi essa fosse, e stanno agendo ribellandosi in modo da costringere il preside a tornare sui suoi passi e ad annullare la sanzione; hanno deciso di portare dell'alcol, di dare un rave party stasera stesso qui, occupando la scuola... Il punto è, chi ha fornito loro l'alcol?».
Rimasi interdetta, la mascella minacciò sinistramente di staccarsi e rotolare giù per il pavimento, la gola mi si chiuse e non riuscii più ad emettere suono.
Occupare la scuola?!
«E quando avrebbero intenzione di occupare? Domani? La prossima settimana?».
Sorrise consapevole, abbassò gli occhi chiari sul suo vassoio ormai vuoto, poi incrociò il mio sguardo ed esclamò: «Oggi. Non vedi che non c'è nessuno, in giro? I ragazzi delle squadre sono con le cheerleader per procurarsi spesa e sacchi a pelo per la notte, tutti gli ignari hanno saputo di questa storia oggi e ci sono rimasti fregati».
Sbattei le mani sul tavolo, in un moto di ira improvvisa.
«Ci sono rimasti fregati?!», urlai, accalorandomi.
Lui gesticolò frenetico affinché abbassassi il tono della voce e solo allora, guardandomi intorno, mi resi conto di avere gli occhi di tutti puntati addosso.
Abbassai lo sguardo e la testa, nascondendomi dietro un ciuffo di capelli, e cercai di calmarmi, sporgendomi verso di lui per parlare più piano.
Altro che tempaccio! La scuola era deserta per altri motivi!
«Che intendi con questo?», gracchiai.
Sembrava dispiaciuto.
«Ormai sei dentro, non puoi uscire. Gli altri stanno già procurando coperte e roba calda per la maggioranza, così da non permettere a nessuno dei presenti di uscire con la scusa di dover tornare a casa e non fare più ritorno».
Mi infilai le dita tra i capelli, artigliandomi letteralmente il capo, disperata.
«Tu sapevi niente?».
Mi aspettavo che dicesse di no, mi aspettavo che fosse furioso anche lui, mi aspettavo che tremasse di rabbia come poco prima... Ma le mie aspettative furono presto deluse.
Abbassò lo sguardo, colpevole.
«Io... Mi hanno detto che era giusto fare occupazione, che io dovevo stare con loro, che solo così si riconosce chi ha stoffa, che se rischiavo con loro evidentemente ero fatto per stare col gruppo... Sono caduto di nuovo nella loro trappola, mi sono fatto ingannare».
M'innervosii, guardando altrove e sollevando gli occhi al cielo, ma poi vedendo che non aveva neanche il coraggio di incrociare il mio sguardo mi decisi a parlare.
«Per questo prima eri così arrabbiato, vero? Per questo tremavi», considerai tra me e me, osservando attentamente una briciola del suo panino sul vassoio, «Ti sei sentito preso in giro, quando tutto ciò che volevi era fare ciò che andava fatto per sentirti normale, accettato... Avresti potuto dirmelo, Eric!», non ero arrabbiata, solo delusa e un po' disperata.
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Give me your hands and save me
RomanceAlly era un uccellino chiuso in gabbia che sbatteva le ali frenetico, smanioso di uscir fuori e godersi i raggi del sole e l'aria fresca sulle piume. Avrebbe tanto voluto possedere le chiavi della sua gabbia, ma nessuno, tranne sua madre, le aveva i...