Cap 18: When you come to live here

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  Quando aprii la portiera dell'auto della madre di Shane, qualsiasi cosa avessi intorno mi sembrò improvvisamente un mondo nuovo, nonostante conoscessi ognuno degli oggetti che fiancheggiavano l'appartamento di Mya ormai a memoria. Fu come se ognuna di quelle cose potesse avere una nuova storia, come se io potessi avere una nuova storia. Almeno per quella sera.
Non avevo idea di quello che avrei detto ai miei... in realtà speravo nell'intelligenza di Michael, contavo sul fatto che avrebbe potuto inventare lui una scusa qualsiasi – l'importante che fosse credibile! – per pararmi il culo. Ma poi: cos'ero io per lui e perché mai avrebbe dovuto aiutarmi? Gli avevamo pagato il conto e così lo avevamo messo a tacere, ma non gli avevamo chiesto di inventare una scusa per la mia misteriosa sparizione o per il mio ritardo al rientro. Avrebbe potuto dire che eravamo insieme, che mi aveva portata a fare una passeggiata, a vedere il mare alla scogliera... Avrebbe potuto dire davvero tante cose, ma ci sarebbe arrivato da solo?
Scossi la testa e tornai a concentrarmi su quei nuovi mondi già esplorati.
Non mi avrebbero rovinato anche quel momento, i miei genitori e tutti gli altri.
«Restiamo solo per la pizza, poi vi lasciamo un po' sole», Dana fece irruzione nei miei pensieri. Feci breccia nei suoi occhi chiaro-scuri e aggrottai la fronte, confusa.
«Pizza?».
Mi rispose rimettendo un bottone scappato ad un occhiello della sua camicia al debito posto.
«Vuoi dirmi che sei riuscita a mangiare con quel tizio al tavolo?».
«C'erano anche i miei genitori, stasera...», deglutii. «E i suoi».
Shane si batté una mano sulla fronte, mentre il portone di casa di Mya si faceva sempre più vicino e la mia adrenalina saliva alle stelle.
«Non dirmi che era uno di quegli appuntamenti di merda dove i genitori cercano di far stare insieme i figli!».
Alice poggiò una mano sul legno mogano del portone e fermò il passo di tutte, riservandoci uno sguardo rassegnato.
«Purtroppo lo era», poi pigiò uno dei tanti campanelli grigi su un pannello alla sua destra e il portone emise un suono metallico, spalancandosi.
Ebbi l'impressione che il mio cuore avesse appena emesso la stessa vibrazione.
Mi strinsi alla camicia di Dana e percorsi gli scalini della felicità, gli stessi percorsi il giorno in cui le avevo implicitamente concesso un appuntamento.
Sorrisi, ricordando delle cose che mi sembravano lontane secoli. Dove avevo vissuto fino a quel momento? Mi sentivo improvvisamente una vecchia...
La porta si spalancò non appena superammo la soglia dell'ultimo gradino; i capelli di Mya fecero capolino attraverso la fessura che ne venne fuori ed io mi lanciai letteralmente tra le sue braccia, facendola caracollare all'indietro.

Il suo odore mi investì come un'onda, il suo corpo s'infranse contro il mio e la stessa sensazione che mi aveva investita nemmeno una settimana prima m'invase di nuovo, riempendo ogni mio vuoto. Mi sentivo improvvisamente completa. Ogni angolo si smussò, ogni mancanza fu di nuovo colmata.
Cerca di essere qui, in questo stesso reparto, tra una settimana. Okay? Cerca di esserci. Ci rivedremo presto, promesso.
E invece? Era riuscita ad organizzare un appuntamento segreto ancor prima che passasse una settimana.
Le sue mani mi strinsero i fianchi, poi la schiena, infine m'infilò le dita tra i capelli e la sua disperazione divenne mia.
La baciai sulle labbra, le mani ai lati del viso, poi tra i capelli, sul collo, attorno alle spalle...
Era di nuovo lì con me e potevo sentirla. Era vera, era carne, calore, amore. Era mia, ancora una volta.
«Mi sei mancata...», soffiò sulla mia bocca. Tenni gli occhi chiusi, sfiorandole la punta del naso col mio.
«Anche tu...», avvertii vagamente i passi di Dana, Shane e Alice alle mie spalle, al mio fianco e infine lontano da me. Sorrisi leggermente, ringraziandole per averci superato e per aver raggiunto la cucina senza dire neanche una parola.
Le labbra di Mya ritrovarono le mie: mi tenne il viso fermo tra le dita, imprimendo un po' di forza rispetto alla solita delicatezza. Sentii la sua lingua sfiorare la mia e schiusi automaticamente le labbra, avvertendo un calore familiare invadermi lo stomaco.
Avanzò in mia direzione, costringendomi ad indietreggiare. Senza la forza necessaria a reagire, assecondai semplicemente le sue azioni fino a toccare con le spalle la parete opposta alla nostra posizione.
Ansimai, sentendo il suo bacino contro il mio, una gamba che premeva contro il piccolo spazio creato dalle mie cosce. Le artigliai la T-shirt fina e strinsi la stoffa tra le dita, cercando di canalizzare l'energia e concentrarmi su altro che non fosse ciò che volevo realmente fare in quel momento.
«Non...», cominciai, non appena mi diede un secondo di pausa per respirare.
«Lo so», chiuse gli occhi e annuì debolmente. Non era per niente facile reprimere i propri desideri dopo giorni, infinite ore di lontananza e mancanza. Ma Mya sapeva sempre come riprendere il controllo di se stessa. E se io ero spesso istintiva, lei sapeva mettere un freno ai miei impulsi con la sua razionalità bacchettona. Per fortuna, aggiungerei.
Annuii anch'io e l'abbracciai ancora, come a voler avere un'ulteriore conferma del fatto che non stessi sognando – come spesso accadeva – e che lei era lì per davvero.
La presi per mano e poggiai la tempia sinistra sul suo braccio, mentre lei mi trascinava in cucina.
Dana, Shane ed Alice se ne stavano sedute attorno al tavolo e chiacchieravano animatamente di qualcosa.
«Meglio di un film dell'azione!», gesticolò Dana.
«Beh, non era difficile... sua madre dialogava con suo padre al telefono nel bel mezzo del giardino, chiunque avrebbe potuto origliare se ben nascosto!», Shane fece spallucce.
«Sì, ma è stata una circostanza più che fortuita, Shane. Avrebbe potuto telefonare suo marito anche in casa, è stato un caso che sia uscita in giardino», spiegò Alice.
«Proprio per questo! Queste cose non accadono mai nella vita reale... Sono elettrizzata!», Dana saltellò sulla sedia. Lanciai uno sguardo interrogativo a Mya, che nel frattempo stava prendendo posto accanto alle ragazze. Mi trascinò sulle sue gambe e mi fece accomodare, prima di chiarirmi le idee.
«Stamattina Alice voleva farti visita, ma tua madre era di guardia davanti all'ingresso, così non ha potuto fare niente... Mentre era lì, però, l'ha sentita parlare al telefono con qualcuno. Diceva di una cena, di un ragazzo e di un tentativo riguardo a qualcosa. Comunque, alla fine ne ha captato l'indirizzo ed è venuta a riferirmelo, ma... ti confesso che avevo perso un po' le speranze...», abbassò lo sguardo e si grattò la nuca. «... perciò ho finto di non aver ricevuto quell'informazione e ho deciso di lavorare come qualsiasi sera, ma poi ho litigato con John... Mi ha fatto capire che se è te che voglio, devo assolutamente fare qualcosa», adesso stava parlando quasi con se stessa, lo sguardo perso in una venatura del legno del tavolo.
Annuii leggermente, assorta in quel discorso.
«Così hai deciso di rapirmi».
Sorrise.
«Esatto, signorina».
Le ero immensamente grata... Ammettevo di aver perso spesso anche io le speranze, nonostante mi fidassi di lei e della sua caparbietà; non la biasimavo affatto. Ma in quel momento, chissà perché, avevo la sensazione che qualsiasi tipo di preoccupazione mi avesse afflitto in passato o avrebbe gravato su di me in futuro, sarebbe stata inutile. Mya avrebbe sempre trovato il modo di proteggermi, in una maniera o in un'altra.
Le sorrisi di nascosto.
«Devo trovare un modo per portarti via da lì», annunciò improvvisamente, perentoria. Nella stanza calò il silenzio e insieme a lui anche gli sguardi delle mie amiche.
«Ho ancora diciassette anni», le feci notare.
Per quanto avrei voluto scappare con lei in quel momento stesso, la legge non mi permetteva di fare ciò che più mi aggradava fino al compimento della mia maggiore età. Se fossi scappata di casa in quel momento, la mia sarebbe stata considerata come una fuga, smarrimento di minore, ma non come una scelta di vita. Non ero ancora libera di fare ciò che volevo,i miei genitori avrebbero denunciato la mia scomparsa e molto probabilmente la prima a finire in mezzo ai guai sarebbe stata Mya. Non potevo permetterlo.
«Ed è quasi la fine di settembre. Dobbiamo resistere soltanto altri due mesi e mezzo e poi sarai libera».
Stavolta tutte ci voltammo in sua direzione.
«Cioè?», cercai chiarimenti, sprofondando in quelle pozze azzurro-grigie.
«Non puoi più vivere lì dentro, Ally... Ti fanno del male, ti manipolano, cercano di plasmarti a loro immagine e somiglianza».
«Ma Ally dovrebbe avere possibilità di scelta...», suggerì Alice, incalzandola.
Altro silenzio.
Mya la guardò, gli occhi perplessi, la fronte aggrottata.
«Io non sto decidendo per lei. Sto solo cercando di farle capire che prima viene via dalla "Casa dell'Ipocrisia" e prima riuscirà ad essere libera», gesticolò con una mano, mentre l'altra si aggrappò per bene alla mia camicetta elegante, cercando di mantenere lucidità e calma.
«Potresti anche denunciarli, sai, Ally? Violenza su minore, omofobia... Che io sappia sono tutte cose perseguibili. Credo che Alice voglia dire questo, non devi necessariamente andare via di casa se non lo vuoi», Dana chiarì il contenuto delle parole di Alice, così da non far scaldare Mya.
«Non avrei mai la forza di denunciare i miei genitori...», incalzai. Per quanto mi avessero fatto del male e per quanto stessero continuando a farmene – soprattutto mia madre, visto che mio padre si comportava più come un cane pronto ad eseguire ogni suo ordine – non avevo il coraggio di denunciare il loro comportamento alla polizia. Si era innescato dentro di me un meccanismo per il quale cominciavo a non sopportarli più, ma dentro di me rimaneva ancora l'amore profondo, misto ad un'amara delusione, che qualsiasi figlia incompresa, probabilmente, avrebbe provato se si fosse trovata al mio posto. Ciò che mi chiedevo era: "che ne sarebbe stato di loro?". La polizia avrebbe potuto indagare sui fondamenti delle mie accuse, avrebbero potuto trovare conferma e qualcosa di male sarebbe capitato loro, oppure non avrebbero trovato nulla perché avrebbero fatto in modo di nascondere qualsiasi prova tangibile e a quel punto qualcosa di male sarebbe potuto capitare a me.
Non ero pronta a nulla di tutto ciò. La denuncia era fuori discussione. Odiavo mia madre, ma per quanto la odiassi continuavo a volerle bene.
Credo che chiamerò questo sentimento ambiguo "compassione", "pietà". Troppo difficile da analizzare, mi faceva venire il mal di testa.
E poi, in fondo, sporgere denuncia in quel momento avrebbe scatenato anche l'ira funesta degli assistenti sociali e a quel punto mi sarei ritrovata senza una famiglia e senza una casa comunque.
«Non avevo considerato la denuncia come un'ipotesi. Sapevo che Ally l'avrebbe scartata a prescindere. Io potrei parlare coi tuoi, se vuoi...».
«No», risposi prontamente. I suoi occhi mi trafissero. «Non ti darebbero il tempo di parlare. Mia madre è furba, riesce a rigirare ogni discorso a suo favore. Ti metterebbe in trappola, non ti ascolterebbe. Mi ha detto chiaramente che non accetterà mai questa mia scelta».
Mi stropicciai le pieghe della gonna.
«E... ti dispiace?».
Paura.
Ecco che dentro Mya si innescava la maledettissima paura. Era terrorizzata dall'ipotesi che avrei potuto scegliere loro anziché lei un giorno.
In realtà, se avessi potuto, avrei preferito non perdere entrambe le cose e avere l'amore e l'appoggio sia dell'una che dell'altra...
«Ciò che ho scelto mi rende felice. Se lei non comprende la mia felicità non è affare mio, non posso vivere facendo delle scelte che abbiano come motivo cardine la sua volontà. So che non accetterà mai tutto questo... Ma sono pronta a farci i conti», terminai.
Allentò la presa sulla mia camicia e mi strinse di più.
Ecco che tornava tranquilla... Era così insicura e aveva così tanta paura di perdermi... Lei, che fin dall'inizio mi era sembrata la ragazza più impenetrabile dell'universo, ora mi appariva come la più fragile. Ecco cosa poteva celarsi dietro una maschera ben costruita.
«Potresti decidere di andare a vivere da uno zio», esordì Shane, la quale aveva fatto silenzio fino a quel momento sperando di trovare una soluzione alternativa a tutto ciò che era stato menzionato fino ad allora.
Scossi il capo mestamente.
«Tutti i miei zii abitano dall'altra parte del paese, insieme ai miei nonni. Non posso permettermi di cambiare città e scuola adesso che sta per cominciare l'ultimo anno scolastico. C'è la maturità, ci siete voi, c'è lei...», guardai Mya cercando di contenere il dolore che quel semplice pensiero mi provocava. «Allontanerei la mia famiglia, ma allontanerei automaticamente anche tutte voi. Sarebbe l'ennesimo buco nell'acqua. Non voglio perdere le uniche amiche che sono riuscita a farmi... E non voglio perdere lei, ovviamente».
Più le opzioni si accavallavano, più mi sembravano fallimentari. L'unica soluzione era davvero l'attesa. Dovevo sopportare altri due mesi di quello strazio, altre giornate vuote, mancanze e solitudine, e poi sarei stata libera.
Sì, so bene qual è il pensiero comune a questo punto della storia: vuoi davvero fare tutto questo per una ragazza? Rischiare di perdere la famiglia per inseguire un ideale?
E io rispondo: quanta gente ha rischiato per perseguire un amore? Non parlo di un amore puramente fisico, platonico o chicchessia, parlo di un altro tipo d'amore facilmente paragonabile; l'amore per la patria, ad esempio, per la propria nazione, per il proprio villaggio, la propria terra. La gente si batte per ciò che ama da secoli, perché io non avrei dovuto farlo? Perché avrei dovuto fermarmi? Solo perché il mondo era pieno di altre ragazze e ragazzi con cui avrei potuto tranquillamente divertirmi anziché soffrire per una sola? Beh, se questo fosse stato un pensiero comune a tutti gli uomini del passato oggi nessuno avrebbe un'identità, una terra, un posto da definire "proprio". E nessuno starebbe insieme a nessun altro, perché ovunque si celano le difficoltà. E' facile gettare le armi al primo muro che ci si para di fronte, ma se oggi possediamo determinate cose, dagli oggetti più banali a quelli più difficili da realizzare, da una città a un'intera nazione, dobbiamo dire grazie a chi non si è arreso.
Mya era la mia città, il mio obiettivo, la fortezza da conquistare, da prendere con la forza se il nemico non me l'avesse concessa. Era ciò che volevo, il mio ideale, il mio amore sconfinato. Non mi serviva divertirmi con altri cento ragazzi, mi serviva sorridere con un'unica ragazza. Lei.
«Non puoi far altro che aspettare...», sospirò Dana.
Alice e Shane sospirarono insieme a lei.
«Devi stringere i denti, Dandelia», mormorò quest'ultima.
«E avere coraggio!», occhiolino da parte di Alice.
Annuii leggermente, già appesantita dal pensiero di altri sessanta giorni – e più – da sola.
Attimi di silenzio seguirono, poi Dana fece per alzarsi.
«Mya, posso usare il tuo bagno?».
«Certo, fai pure!».
«Così poi andiamo via, okay, ragazze?», chiese ancora Dana e le altre annuirono.
Ci lasciavano un po' da sole? Sorrisi tra me e me all'idea che avrei potuto passare qualche minuto in più insieme alla persona che amavo, l'unica che mi avesse mai capita e accettata per ciò che ero. Le passai le dita tra i capelli e Mya sospirò, posando la fronte sulla mia spalla. Di rimando, le poggiai la guancia sul capo.
«Niente pizza, allora?», chiesi con espressione furba, sapendo benissimo la risposta.
«Il progetto era questo, ma credo che tu preferisca stare con Mya piuttosto che mangiare la pizza con tutte noi», Shane si passo le dita sulle labbra, lanciandomi uno sguardo malizioso ed io arrossii, abbassando gli occhi. Aveva centrato il punto: non che non volessi bene loro, ma tra una pizza e i baci di Mya preferivo tenermi stretta la fame di cibo e saziarmi di un altro tipo di fame. Avevo solo quella sera per stare con lei, mentre per mangiare avevo qualunque altro momento.
«Mi ritengo offesa!», Alice mi fece una linguaccia ed io scossi la testa.
«Allora... com'era il tizio con cui sei uscita stasera? Carino?», bofonchiò contro il mio braccio Mya, esordendo all'improvviso.
Stetti in silenzio per pochi attimi, il tempo di elaborare il significato nascosto dietro quella semplice battuta, poi sollevai la testa di scatto e la spinsi leggermente, servendomi del gomito.
Le lanciai un'occhiataccia come a dire: "e questa domanda? Da dove viene fuori?" e lei mi guardò come a dire: "allora? Non rispondi?".
Alla fine sospirai.
«Non avevamo un appuntamento, non l'ho scelto io di uscire con quel damerino incravattato», le feci notare, mentre Shane ridacchiava dall'altra parte della stanza.
«Però ci sei uscita», fece notare lei, facendomi l'occhiolino e spostandosi i capelli dietro le orecchie.
Schiusi le labbra in un espressione sconvolta: stava realmente cercando di mettere zizzania?
«Sono stata obbligata!», feci notare a tutte.
Restarono in silenzio con fare sfrontato, come se loro, al mio posto, avessero fatto diversamente. Scossi la testa, interdetta.
«Ma fate sul serio?!».
«Ti stiamo prendendo in giro!», rise Alice. Il mio cuore sospirò di sollievo.
Mya scosse la testa e sorrise, tornando ad appoggiarsi alla mia spalla.
«Ero solo curiosa di sapere se ti piacesse».
«Zero! Nada! Per niente!», arrossii e mi imbarazzai, ma cercai di recuperare comunque il pudore.
Ma guarda un po' cosa mi toccava fare!
«Certo, sarebbe stato strano. In confronto a me nessuno può definirsi nemmeno "carino"», concluse alla fine lei, beccandosi uno scappellotto in testa.
Dana fece capolino dal bagno ed invitò presto le altre ad andare via.
Salutammo le ragazze davanti alla porta, Mya preparò loro tre sandwich per ringraziarle del fatto che ci avevano aiutate saltando la cena e per aver rinunciato alla pizza solo per noi, ed io le abbracciai tutte, promettendo di farmi viva presto non appena sarei riuscita a recuperare il cellulare.
Quando il portone di casa Atson si chiuse alle spalle delle tre teste saffiche, la tensione nell'aria divenne tangibile.
Calò il silenzio e potei quasi udire distintamente i battiti del mio cuore scandire i secondi. Mya, al mio fianco, si mise le mani nelle tasche e sospirò, abbassando lo sguardo.
«Te ne starai in silenzio ancora per molto?».
Anche se continuavo a fissare il legno della porta, il tono della sua voce tradì un sorriso che non mi sfuggì.
Battei le palpebre un paio di volte e poi mi voltai in sua direzione.
Mi guardò, sollevando le sopracciglia e scuotendo leggermente la testa.
«E' che non so cosa...».
«Oh, sì che lo sai».
Si inumidì il labbro inferiore e la scimmietta che aveva apparentemente abbandonato le mie interiora tornò a giocarci come se nulla fosse. Deglutii e lei mi venne in contro: si abbassò leggermente e mi prese per i glutei, costringendomi ad incrociare le gambe dietro la sua schiena. Avvampai, nascosi il viso sul suo collo e l'abbracciai forte, mentre lei mi trascinava in camera sua. Quanto mi era mancato quell'odore... Quel profumo di libertà misto a felicità che mi faceva credere che tutto ciò che volevo era possibile. Che lei, la quale ultimamente era diventata un sogno da realizzare, poteva diventare realtà.
Mi sospinse lungo il bordo del letto e cominciò a baciarmi dolcemente, assaporando ogni millimetro delle mie labbra, della mia mascella, del profilo del mio collo, delle spalle...
Come ogni singola volta, qualsiasi pensiero mi abbandonò, ogni cosa ruotò improvvisamente soltanto intorno a noi e improvvisamente non esistette altro se non i suoi occhi azzurro-grigi che si facevano sempre più blu, più scuri come le guance, sempre più arrossate, mentre il resto della sua pelle color latte spiccava sotto le lentiggini arancio. Era la creatura più bella in assoluto, non avevo mai visto niente di più bello, e il pensiero che mancava poco perché fosse solo mia per sempre mi riempiva il cuore di gioia.
Ben presto qualsiasi indumento inutile venne riversato sul pavimento e fummo di nuovo noi, Mya ed Ally, le ragazze che nonostante tutto non si arrendevano.
Pensavo che non avrei mai più avuto la possibilità di fare l'amore con Mya... Ma evidentemente mi sbagliavo.
Solo in quel momento, mentre lei se ne stava accovacciata sul mio petto a respirare tranquillamente, quei due mesi che mi separavano da lei non furono più un pensiero negativo, ma bensì positivo. Ero stata forte abbastanza da superare quattro mesi in sua lontananza, cos'erano altri due? Il tempo non sarebbe stato un problema neanche quella volta, le giornate sarebbero trascorse, le ore passate, i minuti volati. Dovevo soltanto stringere i denti.
Valeva la pena se in cambio avessi ricevuto notti come quella, intrise di passione, dolcezza e sentimento, per sempre.
Qualcosa di umido mi sfiorò tra i seni: sussultai e smisi di sfiorarle i capelli.
Si strinse più a me e mi arpionò la pelle dei fianchi.
«Ehi... tutto bene?».
Scosse la testa ed io feci per avvicinarla al mio viso, ma mi sfuggì, mettendosi a sedere di fretta ai piedi del letto.
L'abat-jour sul comodino alla mia sinistra rifletteva sulla sua schiena pallida una luce color arancio che spiccava ancor di più a contatto con i suoi capelli; le ossa della colonna vertebrale sporgevano, così anche le vertebre, mentre lei si teneva il capo tra le mani e sussurrava: "merda, merda, merda".
Mi misi a sedere e mi avvicinai lentamente, cercando di non invadere uno spazio che in quel momento si era fatto privato.
«Cosa c'è che non va?», le sussurrai, posandole una mano sulla spalla.
Potevo sentire la sua pelle tirata rilassarsi immediatamente.
Chiuse gli occhi e quel qualcosa di umido che avevo avvertito pochi istanti fa sul mio seno le si condensò ai bordi delle palpebre, cadendo giù dalle ciglia.
Tutto il calore che mi aveva invaso fino a quel momento abbandonò il mio corpo; mi congelai sul posto.
Non avrei mai pensato di poterla vedere in quello stato, era una cosa strana perfino da pensare, eppure Mya era umana tanto quanto me e, benché avessimo due caratteri differenti, anche lei era fragile, forse più della sottoscritta.
Nasconderlo non le faceva bene, perché poi arrivavano i momenti in cui crollava... e non sapeva più controllarsi.
Le toccai i capelli e la strinsi forte a me, baciandole la fronte.
«Sono qui...».
«Sì, ma adesso te ne andrai un'altra volta...».
Aggrottai la fronte, ma ebbi l'impressione che il mio cuore avesse appena fatto la stessa cosa, rimpicciolendosi.
Trattenni il fiato e le posai un altro bacio tra i capelli.
«Troveremo il modo di vederci ancora, te lo prometto».
Cercai di infonderle coraggio, e per questo mi costrinsi, con violenza, a non cedere nemmeno una lacrima.
«Non fare promesse che non puoi mantenere», mormorò. Tirò su col naso, strinse la mascella e tornò ad allontanarsi.
La guardai per una manciata di secondi, interdetta, poi scossi la testa e mi alzai dal letto, guardandomi intorno alla ricerca della mia biancheria intima. Trovate le mutandine, cominciai ad infilarmele.
«Che stai facendo?».
La ignorai ed afferrai il mio reggiseno, agganciandolo dietro la schiena e passando le braccia dentro le apposite bretelle.
Mi afferrò per un polso e mi guardò dritta negli occhi, gli zigomi leggermente umidi e le iridi ancora scure.
Sospirai.
«Anche tu mi hai promesso che ci saremmo viste presto, ricordi? Quella volta al supermercato e anche prima. Oggi hai fatto tutto questo per me, perché non posso ricambiare? Perché non posso prometterti che farò di tutto anch'io per esserci? Dai per scontato che non ci sarò?».
«Non ho detto questo. Ma la tua situazione è ben diversa dalla mia, non hai molta possibilità di movimento, tu», mi fece notare.
Wow, acuta osservazione.
Roteai gli occhi, sentendo il dispiacere riempirmi lo stomaco.
Non voglio litigare, non voglio, non ce la faccio, vieni qui e baciami, smettiamola, ti prego...
«Beh, ti dirò, in questa lotta ci sei dentro tu tanto quanto io. Non posso permettermi di fermarmi e di guardarti mentre ti struggi per avermi con te. Devo combattere anch'io, se voglio il mio lieto fine. Altrimenti getto l'ancora», decretai.
Mi strattonò leggermente per il polso e mi avvicinò a se, costringendomi a starle di fronte e in piedi. Poggiò la fronte contro il mio ombelico e scosse la testa.
«Vorrei soltanto evitare che tu ti faccia del male per mantenere una promessa... Tua madre non è una persona razionale, non so come potrebbe reagire se scoprisse che stai architettando qualcosa per vedermi. E non deve toccarti mai più, nemmeno con un dito».
Mi baciò la pelle ed io tornai a toccarle i capelli.
Okay, facciamo pace... Basta...
«Ti prometto che manterrò le mie promesse a patto di non rischiare di farmi del male, okay?», ero consapevole del fatto che era una promessa sciocca così come ero consapevole del fatto che sarebbe stata l'unica promessa che non avrei mai mantenuto. «E poi, potrebbe succedermi qualcosa stasera stesso per il fatto che sono qui con te. Abbiamo pagato la cena a quell'idiota per farlo tacere, quindi non dirà niente, ma devo ancora convincere mia madre del fatto che ho passato tutto questo tempo in sua compagnia se lui per primo non l'ha fatto. Questa serata potrebbe fallire comunque, io rischio comunque. Ma non m'importa, e voglio che non importi neanche a te», conclusi.
Sollevò lo sguardo e m'inchiodò, seria.
«Non puoi chiedermi questo».
A ripensarci, era una richiesta un po' folle.
Sospirai, ancora.
«Allora ti chiedo di capire che entrambe stiamo facendo ciò che possiamo per restare insieme. Stiamo rischiando in egual misura, ma ne vale la pena. Finirà presto e poi saremo solo tu ed io. Okay?».
Mi abbassai alla sua altezza, ponendomi tra le sue gambe, in ginocchio. Mi accarezzò il viso e si sporse verso di me, baciandomi così delicatamente da farmi sentire un neonato fragilissimo.
Poi, pian piano, le sue mani s'insinuarono tra i miei capelli, pressò le labbra contro le mie, la lingua sulla mia, e il calore tornò ad invadermi.
Mi trascinò su di sé, tenendomi stretta per le spalle, pancia contro pancia, gambe contro gambe.
Mi morse il labbro inferiore ed io sussultai, allontanandomi con un leggero scatto.
«Odio quando ti rivesti».
«Il morso era per quello?», le lanciai un'occhiataccia.
«Precisamente».
«Sai com'è, non posso starmene tutto il tempo nuda a gironzolare nella tua stanza!», la presi in giro con sarcasmo.
Mi lanciò un'occhiata maliziosa e si morse il labbro inferiore, cosa che mi preparò ad una delle sue battutacce.
«Questi sono dettagli che rivedremo non appena verrai a vivere qui».

Non appena verrai a vivere qui...
Non appena verrai a vivere qui...
Non appena verrai a vivere qui...

Suonava già bene.  

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