Cap 1: I don't know you, but I hate you!

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Diciassette anni e nessun bacio.
 Diciassette anni e nessun amore.
 Diciassette anni e niente sesso.
 Diciassette anni e un metro e sessanta.
 Diciassette anni e occhiali da vista.
 Diciassette anni e la sfiga come migliore amica.
 Diciassette anni e una serata in discoteca.
 Diciassette anni e un divanetto su cui sei costretta a sederti per coprire le tue amiche.
 Diciassette anni e le tue amiche - quelle che devi coprire, già - che scopano nei bagni.
 Diciassette anni e una madre bigotta.
 Diciassette anni e un padre cagnolino.
 Diciassette anni e nessun fratello o sorella.
 Diciassette anni e una vita di merda.
 La musica di quel locale mi stava rimbombando nelle orecchie con un'intensità assurda.
 "Vieni a ballare con noi!", "Ti divertirai!", "Oh, Ally, stai sempre col naso ficcato sui libri! Esci un po', ti veniamo a prendere alle otto, mettiti qualcosa di carino!".
 Beh, nella mia vita "compagne di scuola", "ballare" e "qualcosa di carino" non avevano mai saputo camminare con la stessa andatura. Per quanto mi fossi sforzata negli anni di farle camminare a braccetto, niente... Non c'era stato verso. Si odiavano. E quella sera era stata l'ennesimo tentativo gettato al vento di una povera diciassettenne disperata che non sa più cosa inventarsi per piacere alla vita.
 Mi ero fatta trovare pronta alle otto così come le mie "amiche" mi avevano detto di fare, avevo indossato qualcosa di carino ed eravamo uscite; rettifico, ero rimasta tutto il pomeriggio a fissare il vuoto, lambiccandomi per cercare di comprendere l'oscuro motivo per il quale due delle ragazze più carine della scuola avessero potuto chiedermi di uscire, ma non avevo trovato niente. Alla fine, notando con qualche ora di ritardo che mancavano dieci minuti al suono del citofono, mi ero letteralmente tuffata dentro l'armadio, alla ricerca di qualcosa di carino, ma nulla. Scelti un paio di pantaloncini blu chiaro, una camicetta a maniche corte bianca e delle ballerine azzurre a caso, mi ero pasticciata il viso con un po' di trucco che, puntualizziamo, non sapevo applicare, e in quel momento il citofono aveva strillato.
Avrei voluto piangere, poiché, mi rendevo conto, ero anche più orribile del solito... Ma ormai il danno era fatto ed era inutile piangere sul latte versato.
Mia madre aveva strillato: "Non bere, non fare più tardi delle undici, e se ti offrono qualcosa rifiuta sempre! Non andare in macchina con sconosciuti, se gli altri bevono non salire a bordo e non fare sesso! Ally Dandelia Telesco, ti proibisco di avere rapporti prima del matrimonio, se scopro che...!", le avevo urlato che era tutto okay, che non avevo affatto intenzione di fare sesso. Poi, uscita dalla porta di casa, avevo aggiunto a bassa voce che non correvo affatto il rischio che qualcuno mi chiedesse di scopare e che, se anche fossi stata ubriaca o svenuta, i ragazzi avrebbero preferito sbattersi un mollusco piuttosto che scopare me.
Ovviamente, quei termini erano inutilizzabili di fronte a mia madre, per questo preferii tenerli per me stessa.
Solo in quel momento, seduta su un divanetto dal colore fluo, stordita dalla musica e dal sonno, mi rendevo conto del perché avevano trascinato me lì e non qualche altra loro amichetta: io non mi sarei lamentata. Ero talmente sfigata che avrei fatto di tutto pur di avere un po' di amiche. Questo loro lo sapevano bene, e si erano giocate questo asso nella manica, sfruttandomi al meglio.
Volevano di tutto da me, fuorché uscire. Servivo loro come guardia del corpo, come una spia pronta ad illuminarsi in caso di pericolo, ma non come amica. 
Sbattei le palpebre un paio di volte, cacciando un fastidioso punzecchiare in fondo agli occhi, e mi sollevai dal divano, afferrando le ballerine con le mani e camminando scalza in mezzo alla pista da ballo.
Ammettevo di essere strana: mi ero sbarazzata delle scarpe neanche fossero state tacchi scomodi.
Mi beccai qualche sguardo indiscreto da parte di una o due ragazze che non capivano cosa stessi facendo, poi, varcato un raggio di luce al led, accecata da un neon bianco ad intermittenza, inciampata su i miei piedi, raggiunsi quasi per sbaglio uno spazio opposto a quello della pista da ballo.
Di fronte a me si profilava un bancone interamente nero: sembrava fatto di marmo, ma non ne ero sicura, e in alcune parti brillava come se all'interno vi fossero incastonate delle pietre preziose. Sollevai lo sguardo in alto e la mia attenzione fu catturata dai diversi liquidi che vibravano appena dentro le bottiglie a causa delle forti onde sonore. Di fronte al bancone vi erano dei grandi sgabelli in pelle nera, mentre dietro non c'era un'anima viva, solo un'altra grande parete scura.
La musica lì arrivava in maniera più attenuata, come se tentasse di perforare un muro di cellulosa e non ne avesse la forza. Era smorzata, soffocata, e ciò dava tregua ai miei timpani che di lì a poco, se non fossi uscita da quella stramaledettissima discoteca, avrebbero cominciato a sanguinare.
Mi sedetti su uno degli sgabelli e sbuffai, lasciandomi andare completamente.
Ero delusa e stanca, volevo solo tornare a casa.Tra l'altro avevo già violato il coprifuoco da venti minuti, il cellulare dentro il locale non prendeva la linea e non potevo nemmeno uscire fuori perché avevo paura che da un momento all'altro quelle due oche sarebbero uscite dal bagno e che, non trovandomi, avrebbero dato di matto. Mi aspettava un rimprovero a casa, non avevo fatto nemmeno un compito per domani, ero impreparata, agitata, stanca, mi facevano male i piedi e le orecchie chiedevano pietà...
   «Non rompere il cazzo, John, è tutto apposto qui. Di certo non sarei passata sul retro se avessi avuto clienti quì, non ti pare?! Oh... cazzo».
La testa di una ragazza fece capolino fuori da una porta totalmente nera - a causa del colore, che si confondeva col resto della parete, non l'avevo neanche notata! - e, dopo aver sbraitato contro un certo John al di là di quest'ultima, si voltò verso di me con espressione prima sorpresa, poi quasi nervosa.
   «Dimmi che non sei qui da un'ora, ti prego», disse a voce alta per rendersi udibile, ma il suo tono non era quello di qualcuno che supplica preoccupato qualcun altro, bensì era annoiato, smodatamente pieno di sé, come qualcuno che ne ha già abbastanza di qualcosa.
Aggrottai le sopracciglia, battei le palpebre confusa, poi scossi la testa.
   «No, sono appena arrivata», urlai anche io.
Si passò una mano tra i capelli corti alla nuca, annuendo e guardandomi con aria di sufficienza, facendo scoccare la lingua.
Interessata a qualcosa di cui non mi era concesso sapere la consistenza, mi squadrò da capo a piedi sollevando un sopracciglio e, automaticamente, un angolo delle labbra.
Mi innervosii, ma lei sembrò non farci troppo caso. E io, naturalmente, non avevo la tempra giusta per attaccar bottone. Non di solito, figuriamoci quella sera.
Sospirai semplicemente: le disgrazie quando arrivano non arrivano mai da sole.
   «Ti porto qualcosa? Ah, no... Scusa. Quanti anni avrai, quattordici? Se non mi mostri un documento mi sa che posso darti solo un succo di frutta alla pesca».
Già, le disgrazie arrivano tutte insieme, quando ci si mettono. Sollevai lo sguardo su di lei e l'osservai bene: aveva i capelli corti e rasati, un ciuffo ribelle le ricadeva morbido sulla fronte, non portava orecchini, aveva dei grossi occhiali da vista quadrati, labbra piene e rosse e... non riuscivo a distinguere il colore dei suoi occhi. La luce era troppo bassa, da quella parte del locale.
Indossava una lunga canottiera bianca che le lasciava intravedere il seno, jeans che all'apparenza sembravano anche fin troppo stretti e sneakers bianche.
Mi scappò una smorfia infastidita; afferrai una bustina di zucchero da un contenitore in vetro accanto alla cassa, ne strappai un lato e me ne versai il contenuto in bocca.
    «Forse non ti piace alla pesca... Dovrei averlo anche alla pera, se ti va».
Le lanciai un'occhiata omicida. Mi stava già antipatica.
Boccheggiai, a bocca piena.
   «Non... Voglio un succo di frutta! E non sono qui per bere! E non ho quattordici anni, Cristo!».
Sì, Cristo! Nominiamo il nome di Dio invano, tanto per fare un dispetto a mia madre.
Rise. Lo trovava divertente? Dovevo avere sicuramente l'aria stanca di una che vuole soltanto avere una lunga notte di passione col proprio materasso. Evidentemente persone come me, per lei, erano le vittime predilette. Chissà come doveva annoiarsi a fare un lavoro del genere; forse avere a che fare con casi disperati come me la divertiva almeno un po'.
   «Almeno una di noi si diverte...», dissi a voce un po' più bassa, sospirando.
Lei mi udì comunque e poggiò le braccia sul bancone proprio di fronte a me, abbassandosi verso la mia altezza che, sebbene fossi seduta su uno sgabello abbastanza alto, sembrava essere minore della sua.
   «Mmm, fammi indovinare. Scolaretta modello, nove, se non dieci, in tutte le materie, vestitini candidi di cotone bianco la domenica per entrare nella casa di Nostro Signore, nessun bacio nascosto fra le labbra, mai nessun corpo tra le mani...», tossì, «... gambe... Scommetto quello che vuoi che hai pure saltato il coprifuoco, che questi trucchi con cui ti sei pasticciata il viso non sono i tuoi - se così fosse, hai un gusto pessimo, non sono affatto dei colori adatti a te - e che non hai ballato neanche un po'. Classica vergine casa e chiesa».
I miei occhi ballarono frenetici dai suoi - che solo in quel momento, grazie alla vicinanza, mi resi conto fossero di un azzurro/grigio più intenso del topazio blu - alla sua bocca, che continuava a snocciolare quelle frasi con una voce suadente e ipnotica che per un attimo mi lasciò interdetta. Aveva posato le mani a coppa sotto il mento e, con un sorriso impertinente, aveva descritto pienamente la ragazzina goffa e sola che aveva davanti.
Mi irritò, mi indispettì e mi mise in allarme, ma allo stesso tempo desiderai che mi parlasse ancora di ciò che vedeva davanti a sé per poter capire cosa gli altri percepivano di me, quando mi posavano gli occhi addosso.
   «Non sono vergine».
Woah. Perché di tutte le cose che mi aveva detto questa sembrava avermi "offesa" di più? Cristo Santo, essere vergini a diciassette anni era come essere portatori di una malattia. Tutti erano pronti a prenderti in giro, a discriminarti neanche avessi la peste.
Conoscevo due o tre ragazze che avevano fatto sesso solo per poter uscire dal girone di cui ancora io facevo parte, ed essere accettate. Non le ammiravo per niente, anzi le ritenevo delle codarde, però dovevo ammettere che quando gli altri ridevano di me perché ero l'unica della classe a non aver ancora mai avuto rapporti faceva male anche a me.
Il suo sopracciglio destro saettò verso l'alto, mentre un sorriso sghembo le incorniciava le labbra scure.
   «Scommettiamo...?».
Deglutii e per un attimo temetti che l'avesse sentito. La guardai ad occhi sgranati per una frazione di secondo, poi abbassai lo sguardo, sconvolta.
In meno di dieci minuti avevo capito due cose di quella ragazza: amava scommettere e sapeva metterti in soggezione molto, molto facilmente.
Rise e il suono della sua risata fu basso, come il rumore di una campanella strozzato dall'urto di una mano che la blocca.
   «Ti piace lo zucchero?», chiese, vedendomi prendere un'altra bustina.
    «Lo mangio quando mi sento a disagio».
Stupida, stupida, stupida!
«Scusa, non volevo metterti a disagio». 

Give me your hands and save meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora