Cap 8: Scar

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«Adoro queste giornate...», sospirò Eric al mio fianco, mentre le foglie sugli alberi frusciavano accompagnate da un vento quasi tiepido. L'erba ai nostri piedi si muoveva appena, il sole picchiava sui tronchi d'albero e l'aria profumava d'arance e di quell'odore speciale che emanano i bambini quando vengono cosparsi di crema solare in riva al mare. Una giornata insolitamente calda per essere il ventiquattro marzo, ma ugualmente piacevole. Indossavo una camicetta bianca a maniche lunghe, una gonna a pieghe nera, calzettoni bianchi e scarpe primaverili di cotone e non avevo la pelle d'oca né i brividi: quello sì, che era un record per me!
Eric mi passò accanto, spolverando il tavolo che avevamo istallato in mezzo al CountMetral Park dai fazzoletti utilizzati dalle madri e dai bambini che avevano acquistato un dolce durante la Fiera adibita al solo scopo di raccogliere fondi per le famiglie bisognose. Ogni tre mesi la mia scuola incaricava i venti ragazzi con la media migliore di allestire queste fiere in tre dei cinque parchi della città - luoghi strategici, poiché molto affollati - con l'obiettivo di racimolare un bel gruzzoletto e metterlo nelle mani del preside per dividerlo poi, successivamente, ai ragazzi appartenenti alle famiglie che più ne necessitavano, restando però totalmente nell'anonimato per evitare che i più insensibili li prendessero di mira e li tartassassero, rendendoli vittime del bullismo.

Anche quella volta era toccato a me, poiché grazie al compito di arte la mia media non era scesa nemmeno di mezzo punto. Il mio compagno quella volta era stato Eric Callagan; avevo trovato piacevole la sua compagnia, molto spesso l'avevo osservato mentre serviva i più piccoli e scherzava con loro, per niente a disagio o spaventato.
Forse si sentiva molto più un bambino che un adulto; eravamo incastrati in un'età dove non riesci a comprendere se sei già un uomo o ancora un bimbo, e allora iniziano i complessi, i disordini, i "non mi piaccio", i "mi faccio schifo", i "non servo a niente", i "non farò mai un cazzo di buono nella mia vita"... ma nonostante tutto lui era l'eccezione che non confermava la regola, poiché, all'apparenza, sembrava aver trovato la sua via di mezzo.
Anche in quello, Eric Callagan era decisamente migliore di me.
Avevamo raccolto centotrentotto dollari in tre ore di vendita e sul tavolo c'erano rimaste soltanto una fetta di torta al cioccolato e un muffin alla crema bianca.
Avvolgemmo entrambi i dolci in due tovaglioli puliti e richiudemmo i tavoli di plastica, incastrandoceli sotto braccio.
Sollevai gli occhi al cielo e li chiusi.
«Mmm... me ne starei qui tutto il giorno, sdraiata su una grossa coperta a leggere libri», Eric ridacchiò alle mie spalle e aggiunse. 

 «Credo che se tu me lo permettessi io ti farei compagnia!», gli lanciai uno sguardo carico di tenerezza e gli sorrisi, come a dire "certo che ti darei il permesso".

Ci dirigemmo verso il pullman parcheggiato ai lati del marciapiede che delimitava il parco e ci caricammo sopra i nostri tavoli e i sacchi neri della spazzatura, andandoci a sedere in fondo.
La cosa positiva di questa vendita di dolciumi era che dopo aver finito non ci toccava né farci una camminata lunga chilometri con i tavoli sottobraccio per raggiungere ognuno le rispettive case né aspettare ore ed ore gli autobus alle fermate per rincasare, perché avevamo a disposizione il bus scolastico che sostava ai lati della strada per tutto il tempo della vendita e dopo non ci toccava altro se non salire, accomodarci e riposarci.
«Vuoi la torta o il muffin?», chiesi ad Eric quando ci sedemmo in fondo all'autobus.
Si accomodò accanto a me e si slacciò i primi due bottoni della camicia azzurra che anche lui - come simbolo di decoro e buona educazione - aveva dovuto indossare durante quelle ore. L'osservai mentre si passava le mani tra i capelli e si spettinava i ciuffi biondi e pensai che fosse molto carino, anche se stanco e un po' accaldato.
«Muffin», rispose, lasciando la torta a me.
Gli sorrisi di nascosto, scartando il mio involucro. Per un attimo mi sentii una bambina anch'io: fu come quando, alle elementari, il bambino a cui piaci ti lascia il pezzo più buono della sua merenda nonostante piaccia anche a lui solo perché tiene a te, ma non trova le parole adatte per dirtelo e allora cerca di dimostrartelo con i piccoli gesti.
Addentai la mia torta e roteai gli occhi.
«Mmm... ma è buonissima! Diamine!», borbottai a bocca piena. «Chi l'ha fatta?».
«L'ho fatta io», ridacchiò.
Lo guardai esterrefatta.
«Non sapevo ti piacesse cucinare! Pensavo fosse stata fatta da qualche altra ragazza del nostro corso!».
Scosse la testa.
«A parte Meg, Sam e Linda, che non hanno voluto assolutamente partecipare, le uniche ragazze che si sono prestate alla preparazione dei dolci sono state Alice, Shane e Dana. Scarlett non si fa vedere in giro da un po'... Ah, e poi tu hai preparato la crostata di mele! Dei ragazzi sono stato l'unico a preparare qualcosa», si grattò la testa imbarazzato ed addentò il suo muffin, nascondendo il viso tra i ciuffi biondi che gli ricadevano morbidi e lisci sulle tempie.
D'istinto gli passai una mano sulla fronte, scostandogli i capelli e sorridendogli.
«E' stato gentile da parte tua», il rossore arrivò a tempo debito, ma potei camuffarlo inventando che fosse colpa del caldo.
Pensai a Scarlett per un attimo: non la vedevo da tre giorni più o meno e ciò mi insospettiva, anche perché durante l'ultima settimana era stata perennemente presente e concentrata, e anche durante l'intervallo se n'era rimasta col naso ficcato su diversi libri di cui non ero riuscita a scorgere la copertina.
Avevo la sensazione che quella ragazza avesse a che fare col mondo di cui mi ero circondata in quell'ultimo periodo, e quindi indirettamente con Mya. Non era facile però confermare una propria ipotesi quando la persona a cui dovresti tirar fuori un bel po' di informazioni decide di giocare al gioco del silenzio.
«C-che fai stasera?», balbettò Eric al mio fianco.
Lo guardai dubbiosa.
«Nulla, credo. Perché?».
«Ah, no, niente... è solo che oggi danno un nuovo film al cinema, hai presente quello con gli zombie? O erano vampiri? Adesso non ricordo, ma sembra figo... Insomma, volevo andare a vederlo però non so», si morse il labbro inferiore.
«Non vuoi andarci da solo?».
Gesticolò cercando di formulare una frase, ma alla fine si arrese e scosse soltanto la testa.
«Credo che potrebbe interessarmi... mi piacerebbe vederlo», gli sorrisi un po' imbarazzata e lui si rianimò, cercando di cogliere subito la palla al balzo.
«Che ne dici di andarci insieme? Potrei... potrei passare a prenderti s-se ti va. Non è un problema! Se tu vuoi naturalmente!».
Ridacchiai.
«Sì, sì, mi va! Che ne dici di passare per l'ultimo spettacolo?».
Fece spallucce ed annuì.
«Nessun problema!».
Il pullman si fermò e l'autista aprì le bussole.
«Sei arrivato a destinazione, Callagan!», urlò. Eric si mise in piedi, s'infilò un tavolo sotto braccio, mi scompigliò i capelli di fretta e corse via giù dall'autobus.
Sorrisi e cercai di rimettere i miei poveri capelli al loro posto, poi finii di mangiucchiare la mia fetta di torta tra un pensiero e l'altro.
Due sere prima, alle tre e un quarto del mattino, il display del mio schermo si era illuminato segnalandomi un nuovo messaggio di testo. Aprendo la casellina di posta mi ero resa conto che si trattava di Mya, ma ciò che mi aveva allarmato di più era il suo contenuto. "Mi manca il respiro", questo diceva. Mi ero messa subito a sedere sul letto e avevo provato a comporre qualche parola di senso compiuto nonostante l'ora e l'imminente spavento, ma mi erano tremate le mani talmente forte che alla fine avevo abbandonato l'idea di scrivere e avevo provato a chiamarla.
Ma ad attendermi avevo trovato il suono metallico della segreteria telefonica che mi avvisava del fatto che il suo cellulare era spento.
Ma allora perché quel messaggio? Da dov'era partito, se il suo telefono era spento?
Ero rimasta un'ora buona sveglia, aspettando un altro possibile messaggio senza avere il coraggio di addormentarmi, schiaffeggiandomi quasi per restare sveglia. Ma dopo un'ora, all'ennesimo tentativo di chiamata, il suo telefono non aveva dato segni di vita e allora avevo ceduto al sonno e mi ero addormentata.
Non ero ancora riuscita a spiegarmi quel messaggio e non capivo perché in quei tre giorni non mi avesse minimamente cercata, invitata, stuzzicata, chiamata... Era come se non fossi esistita e ciò mi intristiva e mi metteva decisamente di malumore, nonostante la bellissima giornata.
Perché, poi? Di malumore senza un motivo giusto, visto che mi intristivo a causa di una ragazza che stava tentando semplicemente di aiutarmi a scoprirmi senza secondi fini e combattendo, nel frattempo, una sua battaglia nei confronti dell'amore.
Sospirai.
«Telesco, devi scendere!», urlò l'autista, avvisandomi prima di fermarsi definitivamente accanto alla fermata dello scuola-bus del mio quartiere.
Afferrai la mia borsa e lasciai in custodia l'altro tavolo, poi passai accanto all'autista e lo salutai cordialmente.
Decisamente, stavo facendo degli enormi passi avanti se riuscivo a tirare fuori le parole di bocca ad uno come Eric Callagan per invitarmi ad uscire. I miei stupidi blocchi mentali si stavano diramando come accadeva con la nebbia e pian piano stavo riuscendo a scorgere ciò che c'era oltre, zona a me sconosciuta fino a quel momento.
Passeggiai lungo il marciapiede, sollevandomi la camicia ad altezza gomito e sbottonando anche io i primi due bottoni del colletto per cercare di rinfrescare un po' la pelle.
Improvvisamente nell'aria si addensò un intenso odore di sciroppo d'acero e wuffle, il quale mi trascinò quasi contro la mia razionalità in sua direzione esattamente come accade nei cartoni animati con gli orsi e il miele.
Avevo appena mangiato un'intera fetta di torta al cioccolato, ma evidentemente tutta quella vendita di dolci e l'impossibilità di mangiarne quanti ne desiderassi avevano scatenato in me una voglia spropositata di zuccheri!
Varcai la soglia dell'American Bar, le mie orecchie incontrarono immediatamente musica swing e rumori tipici del biliardo; l'odore di wuffle si fece così intenso da diventare irresistibile.
Il bancone per i dolci e la tavola calda era stracolmo; ficcai le mani in tasca ed afferrai qualche spicciolo, ordinando una tazza di tea caldo e due wuffle in sciroppo d'acero.
Il ragazzo dietro il bancone - alto, magrissimo, viso scavato, cappellino rosso con visiera e grembiule in tinta - annuì ai miei ordini e mi disse che potevo accomodarmi su uno degli sgabelli alti.
Somigliavano molto a quelli installati nell'androne di Mya.
«Scusi, è occupato?», chiesi al ragazzo seduto alla mia sinistra.
«Se svengo probabilmente sì, visto che ci cadrò di testa».

Mya.

Mi voltai immediatamente per cercare delle conferme e la vidi, proprio lei, avvolta in un impermeabile nero, una mano sulla fronte, i capelli sfatti, le occhiaie violacee e sette bicchierini da shortino di fronte a sé... tutti vuoti.
Il ragazzo dietro il bancone le portò l'ennesimo e lei lo ringraziò con un gesto appena accennato della mano.

Give me your hands and save meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora