Capitolo 30.

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La mia rivelazione, se così si può definire, aveva fatto commuovere Kelly e, dopo un attimo di esitazione, mi abbracciò così forte quasi da non sentire più l'aria giungere ai polmoni.

I minuti passavano e la mia ricerca di sonno sembrava sempre più una corsa contro il tempo. Quella sera, niente riusciva a farmi addormentare, neanche i piccoli rimedi naturali che da bambina riuscivano sempre a farmi conciliare il sonno.
Mi girai e rigirai nel letto con scarsi risultati e ogni mio tentativo di chiudere gli occhi veniva interrotto anche dal più piccolo dei rumori. Ogni volta che una macchina passava sulla strada, dalla finestra entrava la luce dei fanali che per pochi secondi illuminava la mia stanza. Avevo la sensazione come se, tra un'intervallo di luce e un altro, potesse comparire qualcuno o qualcosa di pauroso. Forse stavo sognando e neanche me ne accorgevo, o semplicemente avevo detto addio anche al mio ultimo briciolo di maturità.
Mi sembrava essere tornata bambina quella notte e, come quando lo ero, il buio mi terrorizzava.

In casa non si sentiva nessuna voce e neanche un rumore. Il silenzio era una delle tante cose che detestavo maggiormente. A volte trasmetteva angoscia, altre volte tensione e altre volte ancora ansia, qualunque sensazione trasmettesse, nessuna era positiva.

Sapevo che rimanere al letto non sarebbe servito a niente ed ero stanca di guardare il soffitto, quindi, anche se con indecisione, uscii dalla stanza. Cercai di distinguere tra il buio gli oggetti che avevo in torno e grazie alla luce che filtrava dalle finestre, anche se poca, raggiunsi la cucina. Con la torcia del mio cellulare, che con buonsenso avevo portato con me, mi feci luce all'interno della stanza. Lo puntai verso la dispensa per identificare la posizione della maniglia e, dopo aver aperto l'anta, presi un bicchiere cercando di non fare rumore. Ogni gesto era compiuto con estrema calma e delicatezza per non rischiare di svegliare anche gli altri.
Bevvi un bicchiere di the al limone freddo, anche se sapevo bene che il the non mi avrebbe aiutato di certo a dormire.

Tornai nella mia stanza e accesi la luce dell'abat jour per non stare completamente al buio. Mentre scorrevo i vari social sul telefono, un rumore improvviso dall'esterno mi fece spaventare.
Pensai che fosse qualche macchina di passaggio, o qualche ragazzo, poco lucido, che camminava per le strade. Da un sassolino lanciato sul vetro della mia stanza capii che si trattava di Jonathan.
Feci scattare la serratura della finestra per poi aprirla confermando i miei pensieri. Jonathan era lì, davanti a me con lo sguardo fisso sulla mia finestra e il cellulare nella mano destra con il display illuminato. Anche se fuori era buio e la luminosità non era un granché, riuscii a cogliere ogni suo particolare come se lo conoscessi da sempre. Sapevo che avrebbe fatto una delle sue battute e, a ogni mia risposta a tono, sul suo viso si sarebbe dipinti un ghigno e avrebbe spostato il peso su una gamba ponendo le braccia incrociate al petto. Per quanto non volessi conoscerlo e averci a che fare, ero finita a fare tutto il contrario. Avevo imparato a conoscerlo molto bene e senza volerlo, mi aveva permesso di vedere parti di lui che forse non aveva mostrato a nessuno, o almeno solo a pochi.
«Sapevo che ti avrei trovato sveglia» disse cercando di mantenere un tono di voce basso.
«Come mai?» gli chiesi mordendomi l'interno guancia per non sorridere.
«Dobbiamo continuare a parlare così? Sveglieremo sicuramente qualcuno e inoltre mi verrà un torcicollo insopportabile»
Chiusi la finestra e presi il cardigan che avevo lasciato sulla sedia. In punta di piedi uscii di casa, accostando, come sempre, la porta. Al contatto con l'erba umida, per via dell'umidità, rabbrividì.
«Per caso hai finito i vestiti dell'armadio?» mi schernì.
«Non mi sembrava l'occasione per tirare fuori il meglio. Certe cose le tengo per eventi eccezionali o speciali» come da protocollo spostò il peso su una gamba e mise le braccia al petto.
«E anche quel vestito blu era per un'occasione speciale?» rimasi spiazzata e sicuramente, oltre ad avere un'espressione al quanto comica, ero diventata anche un pomodoro umano.
«Tu...»
«No, non ti ho seguita.» disse tranquillizzandomi. Si sedette sull'erba e dalla tasca della felpa nera tirò fuori il suo solito pacchetto di sigarette.
«Ero appena uscito dalla casa di Nash e, mentre camminavo dal lato opposto ti ho vista. Sicuramente qualcosa non andava» commentò tenendo tra le labbra la sigaretta appena estratta.
«Perché mi guardi così?» chiese ancora corrucciando le sopracciglia. Non mi ero neanche accorta di starlo ad osservare e potevo solo immaginare la faccia che avevo in quel momento.
«Non sono nessuno per dirti che dovresti smettere»
«Ottima osservazione» disse sarcastico.
Passarono innumerevoli secondi di silenzio tra noi fino a quando uno sbadiglio abbandonò le mie labbra.
«È meglio che rientri prima che mio fratello si svegli» mi alzai da terra e pulii i residui di erba dai pantaloni.
«Ti importa così tanto il giudizio di tuo fratello?» soffiò fuori insieme al fumo.
«Sai bene quanto devo a lui»
«Questo non significa che non puoi essere libera o vivere la tua vita» continuò puntando il suo sguardo dritto nel mio.
Era serio e sembrava anche irritato.
«Perché ogni volta che le cose vanno bene fra di noi, devi in qualche modo rovinarle?
Cazzo Jonathan non hai dieci anni. Possibile che ancora non hai capito nella situazione in cui mi trovo?» sputai acida.
«Tu non capisci. Kayl non è mai stato sincero con te.» disse sempre con estrema calma.
«Senti, non voglio continuare a parlare con te Jonathan. Buonanotte» andai verso la porta e una parte di me, anche se arrabbiata, pregava in una sua risposta.
«È meglio che non ci vediamo per un po'» aggiunsi.
Ci fissammo negli occhi e forse, in cuor mio, speravo che controbattesse, ma non disse nulla in contrario.
"Chi tace, acconsente"

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