Capitolo 8.

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"Papà, Kayl. Smettetela" volevo urlare ma quello che uscì dalle mie labbra fu solo un singhiozzo mal trattenuto. Ero nel soggiorno, come sempre d'altronde, ma questa volta era irriconoscibile. La poltrona di pelle marrone era capovolta e il tavolo di vetro distrutto, per non parlare delle bottiglie sparse ovunque. Sembrava esserci stata una guerra, o meglio un'esplosione. Strinsi le mani in due pugni per la rabbia repressa ripensando a quanto amore ci impiegava la mamma per tenere il soggiorno sempre in ordine e pulito.
Stringendo le mani però ebbi una fitta lungo le braccia che mi fece strizzare gli occhi per trattenere un lamento. Le guardai ed erano completamente ricoperte di sangue, come anche il mio vestitino e il pavimento sotto i miei piedi. Sentivo come se potessi svenire da un momento all'altro alla sola vista di quel sangue.
«Abby vai in camera per favore» bofonchiò Kayl asciugandosi la sostanza cremisi che fuoriusciva dal labbro inferiore. Anche lui perdeva sangue e non sapevo più a chi appartenesse quello che avevo tra le mani e lungo la stoffa. Stavo entrando nel panico più totale, ma non me lo potevo permettere, dovevo trovare una soluzione a quel problema.
Non riuscivo a muovermi e la scena sembrava ripetersi all'infinito davanti ai miei occhi. Era una tortura, era orribile. Per quale motivo poi? Non c'era un motivo, questa volta si trattava solo del cattivo umore di nostro padre, di cui non ne avevamo colpa. Era una delle tante volte in cui, bevendo, erano emersi nella sua testa tutti i problemi che aveva affrontato durante il giorno o addirittura durante la settimana, e noi eravamo solamente il suo sfogo.
Ogni colpo che infliggeva a Kayl lo infliggeva anche a me, moralmente però.
Quanto volevo aiutarlo. Quanto volevo per una volta sentirmi utile e aiutarlo. E così feci, scagliandosi contro quell'essere che avrei dovuto chiamare padre o papà. Per una volta reagì di impulso e mi misi davanti a Kayl con le braccia aperte a proteggerlo e gli occhi chiusi.
«Piccola non ti intromettere, altrimenti sai cosa può succederti» vidi una sua mano sollevarsi e mi preparai all'impatto che però non avvenne mai. Tutto intorno a me scomparve in un secondo e mi ritrovai nel buio più totale. Nessuno era con me. Ero sola. Nessuno mi avrebbe aiutato. Dove era Kayl? Dove era la mamma? Mi mancava. Cavolo quanto mi mancava. "Stupidi ragazzini"
"Abby vattene" "Pasticcino" il nomignolo che mi aveva dato la mamma...

Mi alzai velocemente con il respiro affannoso come se avessi corso una maratona di chilometri e chilometri e che sinceramente, avrei preferito a quella situazione. Stringevo tra le dita la coperta sopra il mio corpo con tale forza da farmi male.
Il cuore sembrava esplodere nel torace e dalla fronte cadevano piccole goccioline salate che annebbiavano la vista, o forse quelle erano lacrime?
Era solo un incubo, uno dei tanti.

Improvvisamente l'aria si fece calda quasi irrespirabile e per alzarmi dal letto dovetti spostare leggermente il braccio di Jason, che in tutto questo era rimasto addormentato.
Di certo non volevo riaddormentarmi rischiando di rivivere quell'incubo così non mi rimaneva altro che andare a prendere una boccata d'aria all'esterno.

Presi la mia borsa e anche le chiavi della stanza che Jason aveva posato sulla scrivania come faceva ogni sera.
Uscii piano senza far rumore, incamminandomi a piedi scalzi verso l'uscita.

Camminai lungo il corridoio tenendo gli occhi bassi sulla moquette verde scuro che ricopriva il pavimento.
Una risata però attirò la mia attenzione e una ragazza mora svoltò l'angolo trovandosi proprio di fronte a me. Era visibilmente ubriaca e i suoi occhi quasi assenti, la sua risata isterica e il trucco sbavato ne erano solo una piccola testimonianza. Feci per chiederle scusa e andare oltre ma le parole mi si bloccarono non appena la ragazza tirò a se una figura, come per sorreggersi.

Jonathan, ovvero il signorino OcchiGrigi, si trovava a pochi passi da me con aria stanca e divertita allo stesso tempo. La ragazza al suo fianco continuava a traballare e a sostenersi al suo braccio per non cadere, mentre io e il suo accompagnatore, ci scambiavamo sguardi poco gentili. A quanto pareva Jonathan era pronto a una serata di sesso sfrenato e, probabilmente aveva bevuto così tanto da scordarsi di avere una fidanzata e magari anche un nome.

Le mie gambe si erano come piantate al suolo e i miei occhi seguivano il suo movimento rettilineo verso una delle camere.
Era da aspettarmelo da quel ragazzo ma qualcosa mi faceva pensare che anche la sua ragazza non era da meno.

Evelin e Jonathan. A pensarci bene erano due dei prototipi di ragazzi che ho sempre odiato. Entrambi andavano a letto con altre persone ma si ostinavano a restare insieme facendo finta che come coppia funzionassero, e forse era solo un modo per attirare più popolarità e attenzione.

Una porta alle mie spalle si chiuse velocemente provocando un rumore forte e imprevisto che mi fece sussultare. Solo allora mi accorsi che Jonathan e la ragazza se ne erano già andati ed io ero rimasta a fissare il vuoto come una stupida.
Dopo aver svoltato l'angolo da cui un attimo prima erano giunti i due, mi ritrovai davanti la grande porta in vetro dell'alloggio che mi separava dall'esterno.

Una volta uscita, mi sedetti sull'erba circostante leggermente bagnata per via dell'umidità che si situava nell'aria. Le temperature non erano alte e il freddo si faceva sentire ma ero ancora grondante di sudore per colpa di quell'incubo per accorgermene.

Portai le gambe al petto avvolgendole con le braccia chiudendomi a riccio in una sorta di abbraccio. Mi pentii di non aver svegliato Jason, avevo proprio bisogno di qualcuno in quel momento e, se in altre occasioni lo avessi negato, in quella circostanza avrei gradito l'aiuto di qualcuno.

Il tempo passava però le cose al mio interno non miglioravano affatto e dovevo trovare al più presto una soluzione per non impazzire.

Un'idea balenò nella mia testa come un fulmine a ciel sereno. Una soluzione forse c'era anche se non mi avrebbe ne portato lontano ne tanto meno farmi mantenere la promessa che mi ero fatta a me stessa.

Con qualche esitazione tirai fuori il pacchetto di sigarette dalla borsa e lo osservai come se si trattasse di qualche sostanza aliena. Ero combattuta tra l'infrangere la promessa e l'eliminazione dei miei nodi allo stomaco.

Ero stanca e avevo bisogno di qualche ora di sonno in tranquillità, così optai per la scelta che sembrava giusta da un aspetto e sbagliata negli altri milioni di aspetti che si potevano trovare ed elencare.

Io che non capivo cosa ci trovassero i miei coetanei, io che dissi che non avrei mai provato, io che mi stavo rovinando con le mie stesse mani più di quanto non ne ero già per colpa degli altri. Cosa stavo facendo a me stessa?

Erano da poco passate le tre di notte ed era strano vedere ancora ragazzi con bottiglie mezze piene pronti a sfoggiare le loro conquiste di quella sera, anche sapendo che il giorno dopo non se le sarebbero neanche ricordate.

Con un click accesi l'accendino e lo avvicinai all'estremità della sigaretta che tenevo tra le labbra mentre aspiravo per far sì che si accendesse.
Ed eccola lì la nicotina che andava in circolo nei polmoni lasciando qualche traccia poco prima di essere buttata fuori con un soffio.

La gola mi bruciava leggermente e nella mia bocca si espandeva sempre di più quel sapore amarognolo che ancora detestavo. Mentre mi autodistruggerò i miei pensieri non cessarono come avevo sperato, anzi, se possibile diventarono molto più rumorosi.

E a peggiorare le cose era stato anche l'incontro nel corridoio avvenuto poche ore prima. Sembrava di avere davanti ancora quegli occhi grigi che tu incutevano timore ma anche curiosità allo stesso tempo.
La sigaretta ormai era finita e la testa mi scoppiava per quanto carica di emozioni a cui non sapevo dare spiegazione. Non era interamente causa dell'incubo, ne ero certa, ma era la risposta che più mi sembrava giusta da dare.
Senza pensare o perlomeno senza rifletterci troppo su, mi accesi un'altra sigaretta.

Mi ero ripromessa di non fumare, ma a quanto pare ero così debole da non pormi una fine a quella voragine che mi stavo aprendo con le mie stesse mani.
Un'altra sigaretta e un'altra delusione che tenevo per me e che si andava a sfumare con una boccata di fumo.

Se non ero neanche capace di controllare un vizio, immaginiamo a risolvere i problemi con cui lottavo ormai da anni. Ero un disastro e lo stava diventando anche la mia vita.

Dove era quella svolta che aspettavo di avere? Dove erano i risultati tanto aspettati dopo tutto quell'impegno? Forse non era abbastanza. Io non ero abbastanza.

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