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Guardare il mare infrangersi sugli scogli quando fuori sai che sta per arrivare una tempesta è sempre stata una delle mie attività preferite. E abitando a Long Beach, una città nella west coast non troppo lontana da Los Angeles, la cosa mi è semplicissima.
Dalla finestra di camera mia si intravede l'oceano. Così lontano ma così vicino. È sempre così bello vederlo lì, a volte così calmo che sai solo fissando il mare che è una giornata tra le più calde, a volte così agitato che la tempesta è imminente, soprattutto a dicembre.

«Tesoro» mi chiama mia madre sulla soglia della porta.
«Alzati, su; che sennò farai tardi a scuola»
È vero, la sveglia è suonata da più di dieci minuti ed io sono imbambolata a fissare fuori dalla finestra.
Di solito sono una ritardataria cronica, come in questo momento. Ma la differenza è che solo questa mattina mi sono svegliata in orario: tutti gli altri giorni a quest'ora sto dicendo a mia madre di aspettare altri cinque minuti.
«Si, ora mi vesto. Aspettami giù, okay ?» le dico tanto per farla andare via.

Dal momento in cui metto piede nel pavimento di camera mia, me ne rendo conto: è iniziato un nuovo lunedì.
Le mie giornate cominciano essenzialmente tutte così: mia madre che cerca di svegliarmi, io che mi alzo dal letto come un'elefante e che solo dopo mezz'ora riesco a trovare gli abiti da indossare.

Cerco di rendermi il più presentabile possibile, e quando do l'ultima passata di mascara, sento la voce di mia madre.
«Camila! Tra dieci minuti passa l'autobus, sbrigati!» A quelle parole lascio letteralmente cadere nel lavandino il mascara e mi metto a correre giù per le scale. Afferro una barretta energetica ed esco di casa. Credo di aver sentito la voce di mia madre che diceva «Buona scuola», ma ero troppo impegnata a correre per ascoltarla.
Devo oltrepassare il mio viale alberato e cento metri di strada prima di arrivare alla fermata dell'autobus che prendo tutti i giorni. Sono 4 minuti e 32 secondi in tutto.
Perciò corro. E come per miracolo riesco ad arrivare in tempo alla fermata.
So già che mi aspetterà almeno mezz'ora di tragitto, e che solitamente alla terza fermata perdo due minuti in più per colpa di Jason, una matricola che arriva sempre in ritardo. Quindi metto le cuffiette alle orecchie, e tiro fuori il libro che sto leggendo ora, ovvero La ragazza del treno. Amo leggere, e devo dire che questo libro mi ha presa forse un po' troppo.

Alle 7:34 il bus si ferma davanti alla via dove abita Stacy, che però non c'è.
Probabilmente l'avrà accompagnata a scuola suo padre. Lo fa spesso, il signor Thompson adora sua figlia, e in questo ultimo periodo l'accompagna a scuola quasi tutte le mattine.
Stacy è da sempre la mia migliore amica, ha i capelli mossi e dal color biondo cenere, ha gli occhi azzurri ed ha un viso molto dolce. Timida apparentemente, sopratutto con le persone che non conosce. Anche se, una volta che la conosci da ben sei anni e tre mesi, cambi velocemente idea.

Mentre siedo nell'autobus osservo il grigiore del cielo, la gente che va al lavoro e le mamme che accompagnano i loro bambini a scuola.
Osservo anche quegli alberi spogli di foglie, che sembra mi fissino tristi perché mancano un po' i loro «vestiti», ovvero le foglie e i fiori. Osservo le palme mosse dal vento, che il freddo di dicembre continua a torturare.
Penso che forse la mia Long Beach non sia così tanto brutta, pur vivendoci da 16 anni.
Basta semplicemente osservare.
Io sono una ragazza che ama le piccole cose, anche se estremamente semplici.

Quando il l'autobus si ferma alla mia fermata -ovviamente con il piccolo imprevisto di Jason- neanche me ne accorgo, e quindi corro prima che l'autista chiuda le porte, e, come se non fosse abbastanza, sento delle risatine da parte dei ragazzi mentre mi affretto a prendere le mie cose.

Riesco ad arrivare in classe poco prima del suono della campanella grazie alla mia corsa forsennata, e trovo Stacy al suo solito posto con un sorriso che va da un lato all'altro del viso. Riesce sempre ad essere così allegra lei. Pur essendo stata la ragazza derisa in prima media. Quell'anno, l'anno in cui la conobbi, Stacy era grassa e stava sempre nel 'gruppo degli sfigati'.Quando un giorno qualsiasi si mise a parlarmi, diventò mia amica, così, un po' per caso.
La saluto con un'abbraccio e mi dirigo al mio solito banco in terza riga.

Il mio professore di letteratura entra poco dopo. Questa è la tipica giornata in cui di letteratura non ne vuoi proprio sapere, e preferisci stare a dormire tutto il tempo piuttosto di ascoltare un sacco di nomi di scrittori incomprensibili. Ma se mi fossi addormentata, probabilmente sarei stata sospesa.
Durante la lezione mi sforzo di stare attenta, ma non ci riesco. A dire la verità di lunedì non ci riesco mai.
Quando sento che qualcuno bussa alla porta tiro un sospiro di sollievo: almeno questo terrà occupato il professore per alcuni minuti, lasciandomi il tempo di parlare con Stacy di qualcosa di molto più interessante di libri assurdi del 1800.
Quando vedo entrare un alunno del primo anno, capisco che il motivo per cui è qui non è solo il professore.

«Buongiorno, chiedo cortesemente se Camila Anderson può venire nell'ufficio del preside» L'intera classe mi fissa, mente lentamente alzo la testa dal mio libro per vedere se quell'alunno ha fatto solo uno stupido scherzo, ma no, è tutto vero: la sua espressione è serissima.
Trasalisco mentre fisso gli occhi di quel ragazzino.
Cosa avrò fatto di male ?
Oppure il preside vuole solo comunicarmi qualcosa ? Spero per la seconda opzione, anche perché mi chiedo cosa potrei aver fatto per essere convocata dal preside. Sarà per i miei ritardi ? Non credo, dato che il mio concetto di ritardo va molto oltre l'orario in cui arrivo io.

«Allora, signorina Anderson, si sbriga ad andare o no ?» il professore mi distrae dai miei pensieri, ed ha ragione.
«Si, certo Signor Jhonson» rispondo mentre sto già passando per i banchi. Mi sento lo sguardo di tutti puntato addosso, e la cosa non mi piace neanche un po'. È una cosa che mi innervosisce parecchio, perché mi sento come se fossi un extraterrestre pronto ad essere esplorato.

Mi sbrigo ad uscire e accelero il passo, ma non mi rendo conto che sto quasi correndo, infatti all'improvviso vado a sbattere contro una ragazzina e ad una bidella.
«Ehi, attenta a dove vai!» mi rimprovera quest'ultima.
«Mi scusi!» esclamo in meno di un secondo, perché i miei piedi non si fermano.
Ma perché l'aula di letteratura deve essere lontana così tanto dall'ufficio del preside ?

Quando finalmente arrivo davanti all'aula prendo diversi respiro profondi per calmarmi. Spero veramente che non sia niente di grave.
Busso con mani tremanti e una voce maschile molto cupa accenna un «Avanti». Entro e mi trovo il preside davanti: non so assolutamente cosa aspettarmi.

Spazio autrice
Ehii! Questo era il primo capitolo, spero veramente che vi sia piaciuto. Se è così, lasciate una stellina e un commento, ci terrei molto. Grazie e buona lettura!
Xoxo
Eleonora💋

P.S. Mi scuso già per eventuali errori di battitura, scrivo col telefono, detto questo spero che vi piaccia🙈

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