Capitolo5: Delirio

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La pioggia picchiettava ritmica sulla terrazza.
Prima piano, poi sempre più forte il rumore invase tutta l'atmosfera insieme al suo tipico odore.
Guardò la luna in una sua rara apparizione tra le nubi in quella notte piovosa.
Rivolse lo sguardo al letto.
Lei dormiva.
Dopotutto erano gli unici momenti in cui poteva davvero riposarsi, e gli unici in cui lui, se l'avesse desiderato avrebbe potuto prendere il controllo.
Ma non lo faceva mai.
Si sentiva in colpa come se stesse barando al gioco più semplice del mondo.
Sorrise senza emozioni ravvivandosi i capelli con la mano.
Una lacrima gli rigò il volto.
Sola.
Una solitaria lacrima salata.
L'asciugò subito con la manica.
Si coprì gli occhi con i palmi.
Era malinconia?
Tristezza?
Solitudine?
 Era difficile distinguere le emozioni.
Era difficile controllarle.
Le sentiva urlare dentro di sè come fossero della anime dannate tra le fiamme dell'inferno.
Gli girò la testa e cadde.
Chiuse gli occhi cercando di riprendere possesso dei suoi sensi.
Si alzò appoggiandosi al comò vicino la finestra, lo sguardo gli cadde sullo specchio.
Era abituato al suo pallore ma mai, mai si era visto così pallido, quasi verdastro come se fosse un cadavere.
Le occhiaie di un violaceo malsano scavavano nei suoi lineamenti.
"Cosa diavolo..."
SI guardò le mani.
La vista si era annebbiata.
Riguardò la ragazza sul letto sforzandosi di reggersi in piedi poggiando i gomiti sul piano di pietra fredda del mobile.
Lei sembrava tranquilla, quasi spensierata.
"Fottiti..."
Tirò un pugno allo specchio.
Il vetro tagliò la sua carne cadaverica.
Il sangue scorse immediatamente lungo il suo braccio ferito.
Sorrise folle: il dolore era così piacevole.
Riacquistò subito un aspetto più umano.
Riacquistò colorito e le occhiaie si fecero più lievi. 
Prese un pezzo di vetro.
Da quanto non lo faceva?
Da quanto non l'avevano più fatto?
Incise il suo braccio con una serie di tagli perpendicolari alle sue vene in una lunga sequenza lungo tutto il braccio sinistro.
Lanciò via il frammento lasciandosi scivolare lungo il muro.
Si sentiva vivo e debole nello stesso momento.
Era come se il suo corpo ricordasse le cicatrici passate, il dolore non era più un fastidio era solo un passatempo, un hobby come un altro per tenersi in vita: doveva nutrirsi, ma non era di cibo che aveva bisogno.
Gli servivano emozioni e dolore.
E il suo stesso dolore stava iniziando a non bastare più.
Le iridi gli brillarono di una scintilla vermiglia.
Riguardò la ragazza addormentata con più interesse.
Si alzò da terra lasciando che il braccio sinistro sanguinasse lungo il suo fianco.
Le accarezzò i capelli con la mano sinistra sporcandoli del suo sangue.
La fronte della ragazza si corrugò.
"Shh.." cantilenò il ragazzo senza un vero e proprio motivo: lei non si sarebbe mai svegliata per un semplice fastidio.
"Gira il tuo viso verso il sole..."
Il sangue di lui le colò sulla fronte
"Lascia che le ombre scivolino dietro di te..."
Lei si girò dall'altra parte.
"Dì una preghiera, vai semplicemente avanti"
Le rimboccò le coperte.
"E le ombre non ti potranno mai trovare"
La ragazza iniziò ad agitarsi.
"Gira il tuo viso verso il sole
Lascia che le ombre scivolino dietro di te
Di' una preghiera, semplicemente vai avanti
E le ombre non ti potranno mai trovare"  
continuò a canticchiare lui tenendola ferma.
"Perso in una strada rocciosa
Perso nella promessa di un amore che non ho mai conosciuto"
Posò la sua fronte su quella della castana insinuandole alcuni tra i suoi incubi peggiori all'interno dei sogni.
"Le ombre mi inseguono lontano da casa
Mi ricordo quando il mio cuore si è riempito d'oro
E sapevi che io ero qui, sono stato bruciato, sono stato bruciato
Mi vedi perdere il controllo"
Sorrise allontanandosi.
"Questo il mio mondo, questo nostro mondo, questo nostro mondo
La mia anima"
Smise di cantare sedendosi alla fine del letto.
Lasciò cadere la testa all'indietro fissando il buio: avrebbe preferito di gran lunga morire piuttosto che continuare in quell'esistenza.
Si guardò il braccio sinistro: sanguinava ancora.
Fece una smorfia leccandosi le ferite come un cucciolo.
Odiò il suo corpo.
Aprì un cassetto e si bendò l'arto nascondendo la fasciatura sotto la manica.
Guardò la finestra, ormai aveva smesso di piovere.
Odiava se stesso.
Odiava il fatto di essere se stesso.
Avrebbe voluto essere diverso, essere completo.
Voleva provare anche lui le tue emozioni.
Ma non poteva, non era nato dall'affetto.
Era un'autodifesa.
Era una difesa creata dalla ragazza contro se stessa.
Non importava cosa provasse.
Non importava se fosse d'accordo o meno.
Era un malato istinto di autoconservazione che si trascinava di notte in notte, di litigata in litigata, di pianto in pianto.
Il ragazzo tornò a sedersi sul balcone lasciandosi inebriare dall'aria notturna.
E, anche per quella notte, si arrese.

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