Sottosopra

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Solo da due giorni si era tenuto il funerale e per parteciparvi tutta la famiglia si era radunata nel piccolo villaggio dove lo zio viveva, nei pressi di un vastissimo oliveto.

Per tutto il tempo non avevo versato alcuna lacrima. Neppure nei giorni successivi riuscii a provare tristezza al pensiero della morte di quell'uomo a me sconosciuto.

Al contrario, ero stato colto da una forma asintomatica di apatia. Si era lentamente impossessata di me, finendo per coprirmi lieve come una patina sottile.

Vedere tanta gente disperarsi mentre a pochi passi, completamente freddo e indifferente, io contemplavo la scena, quasi non ne facessi parte, mi faceva sentire assolutamente fuori posto, come una pennellata morbida e circolare in un quadro cubista.

Ovviamente nessuno badava a me e il tempo scorreva concentrandosi tutto su quello che accadeva dentro i cuori di ognuno, drammaticamente simili a città dilaniate dopo un bombardamento.

Il clima un po' greve, che si respira tra le pareti della casa al mare, sembra una passeggiata in confronto.

Non devo neppure fingere una contrizione acuta e straziante che di fatto non provo.
Posso semplicemente lasciarmi andare ai miei pensieri, che senza alcuna traccia di sforzo, non si discostano da quelli della famiglia.

Il silenzio viene rotto quando tra le due zie inizia una conversazione che sembra dirigersi in una direzione tutt'altro che semplice.

Le due zitelle, di cui una vedova, ce l'hanno con Salvatore e la sua compagna.

Non sono arrabbiate, ma infastidite.

L'una col grembiule allacciato a fatica in vita, agita le grosse braccia tracagnotte mentre dice che un nipotino riuscirebbe a gettare un po' di luce sulle ombre di una famiglia che invecchia e muore anno dopo anno.

L'altra, nel suo abito floreale arancione chiaro, rincara la dose, parla di pigrizia, dice che Salvatore e compagna non si curano di creare una famiglia perché non ne hanno voglia, "Ma teniamo davvero bisogno di qualche nipotino, qui non ci sta più speranza... È troppo triste!".

Salvatore, uomo calmo e ormai avvezzo alle provocazioni a malapena risponde.
Temerario, fa spallucce e di tanto in tanto sfoggia un sorriso ironico, gettandomi degli sguardi ricchi di spensieratezza, dicendomi con gli occhi che a lui di tutto questo non può fregar di meno.

Sembra una conversazione ricorrente, una sorta di cantilena che si ripete ad ogni lutto o forse in circostanze anche più gioviali.

Sta di fatto che la moglie tace, senza mostrare alcun segno d'offesa, limitandosi a sospirare e a dispensarmi un ulteriore sorriso mentre con la mano mi fa segno di prendere un secondo pasticcino.

Io dal canto mio non mi intrometto, anche se le due donne cercano furbamente il mio appoggio.

Mi limito ad osservare tutti gli sguardi, cercando di non soffermarmi troppo su nessuno dei presenti.

Vi è, inoltre, un sesto uomo di cui ancora non ho detto nulla, è il fratello più anziano dello zio e l'unica cosa che so sul suo conto è che è stato un brillante fisico in gioventù.

Essendo un tipo estremamente chiuso e taciturno, da quando sono arrivato ho scambiato con lui poco più che un saluto e forse tre parole.

Si aggira come un'anima in pena per la casa e talvolta non risponde neppure quando lo si chiama. I suoi occhi, tuttavia, sembrano furbi e intelligenti, in netto contrasto con il suo comportamento schivo e talvolta quasi essenziale che lo fa sembrare affetto da un, seppur lieve, ritardo.

Sta appoggiato con la spalla sulla soglia della cucina, gli occhi azzurri scrutano qualcosa che sembra trovarsi in un'altra dimensione, dà la netta impressione di non sentire neppure una parola di quelle che le due sorelle si scambiano.

La situazione è grottesca, ora che il caffè è finito sembra che le ragioni per stare insieme si siano completamente prosciugate.

Salvatore si dilegua con la scusa di avere un forte mal di testa e sparisce oltre la volta della cucina. Le due sorelle hanno finito di gracidare i loro aspri commenti e si ricompongono lentamente: una sistema i pasticcini in frigorifero, ripone lo zucchero nella mensola sopra il lavello e passa una spugna umida sul tavolo, mentre l'altra lava una dopo l'altra le tazzine e sciacqua i cucchiaini scrupolosamente.

Enrica resta seduta, pensierosa e con lo sguardo evidentemente stanco dal viaggio, forse la sua proiezione astrale non l'ha ancora raggiunta, mi dico.

Osservandola mi viene da pensare che forse lei lo vorrebbe davvero un figlio, ma che sfortunatamente non può averlo.

Questa idea, assolutamente non giustificata e irrazionale si impossessa di me e per la prima volta dall'inizio del viaggio mi sento colto da una tristezza sorda e cupa, una tristezza per qualcosa che esiste solo nella mia immaginazione.

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