Capitolo XII

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Capitolo XII




"Molinari!"

Zoe si voltò di soprassalto, quasi spaventata da quello che avrebbe potuto vedere. Per un attimo credette pure di aver avuto un'allucinazione uditiva, temette di aver desiderato talmente tanto di sentire la voce di Giacomo da udirla davvero, alla fine, ma solo nella sua testa, immaginandola. Poi lo vide, in mezzo al corridoio, anche lui con un'espressione stupita sul volto, come se stesse guardando un fantasma o qualcuno che non avrebbe mai immaginato di vedere.

Ma il ragazzo, nonostante la sorpresa evidente che trapelava dal suo viso, parlò per primo.

"Cosa ci fai qui?"

E a quel punto Zoe notò alcune cose che, nell'assurdità di quel momento, non aveva ancora visto: Giacomo era intatto, più o meno, a parte un vistoso collare e un cerotto sulla tempia, non era in fin di vita, non era in coma, non era in sedia a rotelle, non stava subendo una durissima operazione chirurgica, era in piedi e camminava da solo. E si ricordava di lei, quindi  non aveva nemmeno perso la memoria, a rigor di logica.

Quindi, muovendosi istintivamente, corse verso di lui e gli si gettò addosso senza troppa grazia. Sembrava schizofrenica: prima lo abbracciò per qualche secondo per controllare che fosse vero, poi si staccò e verificò, con lo sguardo e con le mani, che tutte le parti del suo corpo fossero al loro posto.

"Stai bene?" gli chiese ansiosa.

Infine, quando lui annuì confuso dalle sue attenzioni, cominciò a colpirlo convulsamente sul petto, con dei piccoli pugni neanche troppo controllati.

"Idiota!" lo insultava nel frattempo, sentendo la preoccupazione trasformarsi in rabbia e sollievo contemporaneamente. "Mi hai fatto prendere un colpo, hai idea? Prima mi urli dietro per telefono, poi vai in giro a fare il coglione con la macchina... Ma ti pare il caso? Sei un cretino!"

"Ahia!" si lamentò Giacomo, quando subì un colpo particolarmente forte.

"Oddio, scusa, ti ho fatto male?"

Lei tornò all'improvviso affettuosa e piena di premure, tanto che Giacomo pensò per un secondo che ad aver preso un brutto colpo in testa fosse la ragazza e non lui stesso.

"Ti fa male qui?" gli chiese lei, toccandogli una spalla.

"Un poco."

Lei sembrò valutare la questione, dopodiché sbottò di nuovo. "Beh, un po' te lo sei meritato e se... Se non fosse che..."

Zoe sentì la propria voce spezzarsi e i propri occhi inumidirsi e Giacomo, che non l'aveva mai vista così indifesa e non l'aveva mai, mai vista piangere, non ragionò due volte sul da farsi: la prese e la strinse a sé, vincendo le sue iniziali e deboli resistenze.

"Scusami," mormorò il ragazzo, tirandola forte a sé. "Scusa," ripeté più forte.

Zoe avrebbe voluto ripetergli che era un idiota, perché era lei che doveva delle scuse a lui, non viceversa; avrebbe voluto confessargli che le dispiaceva per tutte le parole cattive che gli aveva sputato contro; avrebbe voluto dirgli che aveva ragione, che era un'irresponsabile bella e buona e che meritava le sue urla, non i suoi abbracci. Ma non lo fece. Non riuscì a farlo perché in quell'abbraccio, che pure Zoe riteneva di non meritare, stava bene come non le succedeva da tempo, e perché quando aprì la bocca per parlare le uscì un singhiozzo, non richiesto, dalle labbra.

Tutta la tensione che fino a quel momento si era accumulata nello stomaco, nel sangue, nelle tempie della ragazza si sfogò così, dagli occhi, senza che lei lo volesse. Le lacrime arrivarono come un'onda improvvisa e involontaria: e Zoe non piangeva facilmente, non in pubblico almeno. Si ritrovò ad aggrapparsi in modo quasi febbrile alla felpa di lui, come se avesse paura di cadere, come se avesse bisogno di un appiglio sicuro.

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