Capitolo 2.

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-Clifford! Clifford mi sta ascoltando?-

Svogliatamente alzai gli occhi dal quaderno sul quale stavo scarabocchiando per concentrare tutta la mia attenzione sulla figura davanti a me.

La professoressa Burbon mi guardava dall'alto dei suoi piccoli occhiali appoggiati sul naso dalle medesime dimensioni e le mani strette alla sua vita ossuta mentre il suo piede picchiettava impaziente sul pavimento.

In quello stesso istante mi accorsi degli occhi dei miei compagni tutti concentrati su di me e solo la voce acuta e stridula della professoressa  mi fece dimenticare di essere il centro delle loro attenzioni.

-Allora Clifford?- domandò sempre più impaziente, sempre più agitata.

-Ehm...- iniziai timidamente ma nuovamente il fastidioso tono della Burbon mi fece dimenticare quello che stavo per dire.

-Senta Clifford, non ho tempo da perdere, specialmente con lei quindi perché non aspetta fuori la fine della lezione?-

Silenziosamente annuì raccogliendo le mie cose e dirigendomi fuori dalla classe tra i risolini e i commenti dei miei compagni. Discutere con la Burbon significava solamente finire in presidenza e, di conseguenza, assorbirsi una lunghissima ramanzina sul giusto comportamento che lo studente doveva tenere in classe.

Strisciai le suole delle converse tra i corridoi deserti della scuola finendo davanti al mio armadietto. Senza fretta lo aprii posandovi dentro il libro di trigonometria per sostituirlo con quello di storia; subito gli occhi finirono sul quaderno rilegato in pelle, adagiato sopra la pila di libri, che da qualche giorno ormai mi osservava ansioso di essere letto.

Presi tra le mani quel mucchio di carta, sfiorando con le dita la ruvida pelle rovinata che ancora lo teneva insieme.
Curiosa, decisi di fare quello che fino ad una settimana prima avevo avuto paura di fare, lo aprii.

Fiumi di parole, scritte in una maniera a dir poco incomprensibile, occuparono il mio campo visivo facendomi quasi girare la testa per il disordine in cui erano scarabocchiate tra quelle pagine ingiallite.

Senza pensarci troppo chiusi l'armadietto afferando poi la mia borsa a tracolla e, sempre con il diario che Cas ed io avevamo trovato al Trenton Hospital, corsi fuori da quelle mura opprimenti, non curandomi di quei pochi occhi indiscreti che mi stavano guardando, con l'unico obbiettivo di trovare un posto tranquillo dove poter finalmente sfamare la mia curiosità.

Mi fermai in un parco, non troppo lontano da scuola, vicino ad un muretto pieno di graffiti e scritte.
Un leggero venticello autunnale fece sventolare i miei capelli e roteare le foglie degli alberi che circondavano quellobche di lì a poco sarebbe diventato il mio piccolo rifugio.

Aprii nuovamente il quaderno rivestito in pelle iniziando a leggere quelle parole infinite.

"19 Febbraio 1947

Odio questo posto.

Lo odio dal primo momento in cui ho messo piede qui dentro. È tutto così strano. Penso di aver smesso di vivere quando un'anno fa varcai il cancello di questo "Centro di Recupero".
Nel New Jersey è così che lo chiamano, come se "Ospedale Psichiatrico" fosse troppo destabilizzante da dire e troppo scioccante da ascoltare.

Anche oggi ho visto il dottor Jones, dice che sto migliorando ma io non gli credo.
Se stessi davvero bene non sarei qui adesso, se stessi davvero bene sarei libero di uscire quando ne ho voglia, se stessi davvero bene sarei a casa mia, nella Grande Mela.

Ma sono qui, chiuso in una stanza larga solo qualche metro. Qui il tempo scorre diversamente, la vita passa più lentamente ed è facile perdere la cognizione del tempo, fortunatamente ho questa agenda che conta insieme a me i giorni che mancano alla mia libertà.

Asylum; Ashton Irwin Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora