It's not my fault

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Voglio fare una premessa: questa one shot è un tantino diversa della altre. È una stucky AU, ciò significa che gli eventi sono stravolti in confronto alla storia originale.

Non era colpa sua.
Da quando Steve era entrato a far parte della sua vita, Bucky aveva acquistato più fiducia in se stesso, ed aveva imparato a guardare la vita da un'altra prospettiva.
La loro storia d'amore non era poi così speciale, ormai nel ventunesimo secolo una coppia omosessuale era più o meno ben accettata dalla società, e così i due ragazzi di Brooklyn si erano conosciuti un sabato sera in uno di quei club per festaioli. Nessuno dei due era un tipo che amava particolarmente contesti simili, in cui la musica è così alta da non permettere nemmeno lo scambio di due parole, ma, casualità del destino, entrambi erano stati trascinati dai rispettivi amici a divertirsi un po', dopotutto, Steve aveva ventitré anni, e Bucky venticinque, erano giovani per passare il weekend a casa a non far nulla.
Steve era un ragazzo riservato dall'aspetto massiccio, ma ciò lo lasciava trasparire come un semplice ventenne ben educato e timido. Bucky era l'opposto, una di quelle persone troppo silenziose e cupe per relazionarsi con gli altri.
Steve aveva l'aspetto di un angelo, mentre Bucky quello di un rinnegato dalla vita stessa.
Fu proprio il minore a fare il primo passo, quando vide Bucky seduto al bancone del bar, con un bicchiere pieno stretto in una mano, e la felpa scura ben abbottonata al petto.
Bucky aveva i capelli scuri, lunghi, che gli andavano spesso davanti gli occhi, e quella sera, furono proprio loro ad impedirgli di notare immediatamente il biondo dagli occhi azzurri che si stava avvicinando a lui.
Era difficile parlare, il rumore della musica era assordante, ed entrambi aggrottarono la fronte nel vano tentativo di scambiare due chiacchiere, così, Steve lo prese per mano e lo portò fuori.
C'era un particolare non trascurabile; d'istinto, il biondo, gli afferrò il polso sinistro, nascosto sin dall'inizio della serata nella tasca della felpa. Bucky si irrigidì, impedendogli di portare alla luce la sua mano, porgendogli, imbarazzato, l'altra.
Passarono tutta la notte seduti sulle scalinate di un vecchio fast food aperto fino a tardi, con una bibita alla frutta in mano e un sacco di parole sulle labbra.
Sorrisero, scherzarono, affrontarono degli scambi di opinioni, si guardarono negli occhi, finché il sole non iniziò a nascere all'orizzonte, e Steve gli diede il suo numero di cellulare, correndo via accorgendosi tardi di aver trascorso troppo tempo senza sentire i suoi amici.
Bucky rimase sorpreso, per lo più allibito da così tanta gentielzza.
Era chiaro, forse poco romantico e monotono, ma fra i due era scattato il classico colpo di fulmine che si vede in tivù.
La loro storia da quel primo incontro si era evoluta sempre di più, con altri tipi di appuntamenti e conversazioni che portarono il loro rapporto ad un livello superiore.
Steve e Bucky stavano insieme da ormai tre anni, ma della malattia di Bucky ne avevano parlato quasi immediatamente.
Era impossibile che il biondo non notasse con quanta premura e gelosia il maggiore cercasse in tutti i modi di nascondere il suo braccio sinistro, che ebbe l'opportunità di vedere soltanto in uno dei loro primi rapporti più intimi.
Credeva che, magari, Bucky nascondesse un brutto tatuaggio, o qualche spiacevole segno di un incidente, ma ciò che gli si presentò davanti era ben diverso.
Dalla spalla fino al dorso della mano, la pelle era tempestata di cicatrici e lividi; alcune ferite erano ormai cicatrizzate, profondi tagli bianchi con diversi diametri di lunghezza, altri erano ancora rosei e rialzati, che si distinguevano dalle altre ferite, nascoste dai cerotti, zuppi di sangue.
Era come vedere un pezzo di carne vivo maciullato giorno per giorno, senza sosta, con qualsiasi strumento, in qualsiasi modo. Segni di denti, segni di lame, punture di aghi, solchi di unghie, qualsiasi arma aveva sfregiato la pelle di Bucky, un arma comandata dal suo stesso subconscio.
Fu costretto a spiegare a Steve della sua condizione, fu costretto, ma in verità, dentro di se, aveva quella dannata voglia di morire, quell'iniziativa che lo chiamava con voce suadente, come un diavolo dalle sembianze angeliche che lo portava verso il peccato.
Bucky non era autolesionista, come gli aveva domandato Steve, scioccato dallo spettacolo che aveva difronte, strozzato da un'enorme nodo alla gola fatto di angoscia e tenerezza. Perché lui amava davvero Bucky, e vederlo ridotto in quel modo lo mandava in frantumi.
La patologia di cui era affetto Bucky prendeva il nome di Biid, ovvero, Body Integrity Identity Disorder, un disordine psichico che porta la persona da cui è affetta a non riconoscersi nella propria salute, e che la induce a cambiare il suo corpo drasticamente. In poche parole, Bucky credeva che il suo braccio fosse nocivo per il suo organismo, credeva che fosse la causa di tutto il suo dolore, di tutto ciò di cattivo che circondasse la sua vita.
La sua richiesta era semplice, amputare chirurgicamente il suo braccio, ma purtroppo, nessun medico aveva accontentato la sua richiesta, in quanto paziente sano per sottoporsi ad un intervento con i propri rischi. Sapevano della sua malattia mentale, ma l'unica soluzione per loro plausibile era prescrivere massicce dosi di psicofarmaci, che Bucky non prendeva quasi mai.
E allora si autolesionava, faceva di tutto per liberarsi di quel faccio, placare la sua ossessione facendosi del male fisico.
Steve gli prese il viso fra le mani, gli baciò le labbra, e con gli occhi pieni di dolore e la voce storpia dalla paura, annuì per dargli sicurezza, e trovando la forza di sorridere gli disse:
«Io ci sarò sempre per te, okay? Starai meglio, io farò di tutto per farti stare meglio. Non permetterò ancora che tu soffra, per nessuna ragione.»
Bucky aveva trovato dell'incredibile meraviglia in quelle parole. La persona che lo amava di più al mondo gli aveva detto che non era pazzo, lo aveva rassicurato con la propria presenza, gli aveva garantito un aiuto che mai nessuno gli aveva dato.
I primi tempi le cose andavano alla grande, forse, il periodo più felice della vita di Bucky. Ormai da anni la sua malattia lo affliggeva, e non ricordava come si ci sentisse a non essere sempre tremendamente depresso e insoddisfatto di se stesso. Steve gli ricordava di prendere le medicine, si era trasferito a casa sua, e ciò aveva migliorato la maggior parte delle cose. Invece di chiudersi in bagno e passare ore a cercare i più svariati modi di tagliare via il suo braccio, Bucky era spronato da Steve a passare del tempo insieme, ad impiegare le proprie giornate in attività ricreative o in semplici chiacchierate prima di andare a dormire.
Era in assoluto la cosa più incantevole del mondo, sentire il respiro di Steve sulla pelle, avvertire la sua voce sempre ottimista ed incoraggiante, ed avere la debole certezza di poter stare bene.
Steve fece anche qualcosa che non era mai accaduto, anzi, che mai nessuno avrebbe potuto permettersi di fare. Una notte, dopo aver finito di fare l'amore, nudi fra le coperte disfatte del letto, il biondo gli aveva accarezzato il bicipite solcato dalle cicatrici, con i polpastrelli, scendendo sempre di più con il palmo della mano verso il polso, sfiorando appena quell'arto falsamente malato che Bucky evitava di usare in tutti i modi.
Alla fine, gli strinse la mano, così calda e debole, che ricambiò insicura quel gesto. Steve si avvicinò di più a lui, e, chinandosi, poggió con leggerezza le labbra sulla pelle di Bucky. Lui ebbe un brivido gelido lungo tutta la spina dorsale, ma non oppose resistenza.
Perché era bello.
Perché non era cattivo.
Perché Steve era la sua salvezza, il suo angelo custode.
Perché Steve non era dolore.

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