Don't be afraid

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Lo sapevi Steve, non avresti dovuto starci così male, dovevi essere preparato a quel momento, dovevi esserlo per Sarah. Aveva sette anni lei, compiuti appena prima dell'uragano, del solito disastro di Bucky. Tu e James avevate deciso di chiudere una volta per tutte con il vostro passato, con la vostra anormalità rischiosa, per dedicarvi ad una più pacifica e calorosa. Un nucleo familiare l'avevate sempre sognato, forse mai progettato, non avendone l'occasione, ma venuto in mente certe volte senza mai trovare l'occasione di confrontarlo l'un l'altro. Bucky era ormai riuscito a fuggire -in parte- dai propri incubi, tu l'avevi aiutato, ma era stato l'arrivo di Sarah a fare il grosso del miglioramento. Vivevate in una casa fuori città, tra gli alberi alti e l'erba umida alla mattina presto, che la bambina amava osservare dalla finestra, attraversando con lo sguardo il portico bianco.
Lei si chiamava proprio come tua madre, Sarah, era soprattutto per quella motivazione che l'avevate scelta. Ve lo eravate spesso ammessi, la sera a letto da soli, che quel particolare era alquanto ridicolo e magari egoista, ma quando Natasha vi aveva mostrato alcuni documenti di adozione e varie fotografie e nominativi di bambini tutti compresi tra la fascia d'età dai quattro agli otto anni, tu e Bucky avevate messo gli occhi sulla piccola foto della bambina bionda dagli occhi azzurri, senza nemmeno accorgervi di aver esitato difronte alla vostra reciproca reazione emozionata. Quando poi avevi sentito il suo nome, non avevi avuto più dubbi. Steve voi l'avevate scelta, il fatto che sarebbe diventata vostra figlia vi faceva pensare che in fondo una cosa buona e duratura nella vostra vita potevate coltivarla.
Invece era una nostalgica illusione, lo sapevate entrambi.
Sarah era a scuola quel giorno, quando Bucky ti ha interrotto dal tuo irritante lavoro con i tubi del lavello della cucina. Hai sospirato con fare buffo, avevi il naso sporco e i capelli chiari arruffati. Sorridevi, fino a quando non hai visto l'espressione gelida di Bucky. Lo sapevi, lo sapevi e ne eri terrorizzato.
Non c'era alcun bisogno di parlare o piangere, di cercare spiegazioni o ulteriori informazioni. Tu sapevi che i risultati della risonanza magnetica dell'ultima visita di controllo di James sarebbero arrivati a giorni, e che dagli ultimi sintomi del tuo compagno avrebbero preannunciato cattive notizie.
Bucky ti ha guardato con lo sguardo piegato dal pensiero indicibile della sua disperazione, e tu hai aggrottato la fronte, trattenendo a stento le lacrime. I traumi al suo sistema nervoso centrale si erano aggravati con lungo andare, per colpa dei trattamenti dell'hydra. Il suo braccio gelido dal colore scintillante ti si è avvinghiato alla schiena, il suo viso è sparito tra l'incavato coperto della tua clavicola, e le lacrime hanno iniziato a riempire quella conca come pioggia fa con una fossa.
Il pensiero che più vi tramortiva era quello di Sarah. Lei, che non avrebbe più rivisto il tuo James come al solito, voi che eravate divisi, ma stretti ancora assieme senza una spiegazione razionale.
Avete atteso esattamente tre giorni prima di spiegarle di Bucky, prima di cercare un modo meno traumatico di comunicarle la notizia. Lei si era accorta della situazione, vedeva quanto ci soffrisse il moro, e spesso lo chiedeva a te Steve, te lo domandava in continuazione perché lo capiva ed era preoccupata per Bucky. Ma tu non le rispondevi con sincerità. Inventavi menzogne a cui lei non aveva mai creduto.
Stavi guidando l'auto verso l'ospedale in cui James avrebbe dovuto ricoverarsi quando lui, seduto nel lato del passeggero accanto a te, ha abbassato ancora di più il volume della radio ed ha puntato lo sguardo sullo specchietto retrovisore, per cercare gli occhi timidi di Sarah seduta dietro.

«Sarah.» l'ha chiamata con voce rauca, e tu hai perso il respiro. Lei ha mugugnato in segno di ascolto, guardando il taglio degli occhi di Bucky riflesso nello specchio.
«C'è una cosa che dobbiamo dirti, sul posto in cui stiamo andando, e su di me.»
«È successo qualcosa?» era l'ennesima volta che lo aveva domandato, con la sua voce dolce e ingenua, carica di maturità e sangue freddo. Aveva corrugato le sopracciglia chiare, e con ostinazione aveva continuato a guardare James.
«Sai che papà sta male certe volte, e che ha bisogno dell'aiuto dei dottori per far passare il mal di testa.» gli aveva detto Bucky. Tu continuavi a guidare, con gli occhi fissi sulla strada e le mani strette fortissimo al volante.
«Stai tanto male?» aveva chiesto lei.
«Si Sarah, adesso sto tanto male. Devo rimanere all'ospedale per un po', tu e cap dovete farvi compagnia a casa.» Barnes ti aveva nominato, nel modo in cui ti chiamava Sarah, dato che le era difficile distinguere due papà con lo stesso appellativo. La mano argentea di Bucky ti aveva stretto la coscia, alla ricerca di un disperato aiuto, un intervento da parte tua, perché non riusciva più a continuare.
«Andremo a trovare papà tutti i giorni, quando tornerai da scuola.» hai aggiunto, non riuscendo a fingere nemmeno un sorriso amaro.
«E poi tornerai papà?» domandò Sarah, con le manine strette alle ginocchia, ignorando la tua voce, e continuando a fissare lo specchietto su cui riusciva a vedere ancora gli occhi stanchi di James, storpiati da un'espressione triste. Lui mantenne il silenzio per tanti secondi, facendo sentire a tutti solamente il rumore del motore acceso.

One shots StuckyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora